IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
La Senna, nel crudo inverno, specie se veduta dal Ponte di Notre Dame, perde ogni carattere di fiume, i ponti son tanto zeppi di gente e di veicoli che sembrano strade. Tutto il corso del fiume è verde. Uno spaventoso cunicolo scoperchiato, a serpe, si espande in mezzo ad una luminara multicolore: la Senna scorre incassata fra scarpate e muraglie; quando straripa deve salire una quindicina di metri. Gli scheletri degli alberi che la fiancheggiano, pendono verso il suo letto come giganteschi salici piangenti. Il cielo, denso di caligine, la sera, riverberato dai milioni di lumi, diviene del colore giallo ardente come incombesse sopra una boscaglia incendiata. Contro luce gli alberi sembrano tizzi carbonizzati, e cenere la somma di neve che li incurva.
Sirene roche, sibili acuti, muglio di trombe, sciabordìo d'eliche, stridore di corde attraccate a palafitte, contrasti di carene, musate delle prue nei vortici, sinfonia da porto di mare intonata in mezzo a ondate di pietra.
Globi rossi, gialli, violetti, verdi, celestemare, si frisano, s'accoppiano, s'allontanano, ritornano, descrivendo larghe elissi e parabole: festa di lussuria sul prato rorido d'un fantastico giardino.
Appoggiati ai parapetti si veggono uomini che questo scintillio variopinto contemplano estatici, esseri senza destino nei cui occhi si spegne l'ultima speranza e sulla bocca gela il sorriso.
I mulinelli vorticosi che risucchiano sotto le arcate dei ponti e si sbuzzano nei piloni col gorgoglìo di un turbine, trivellano il profondo, impastano la melma, sprofondano nella paurosa sepoltura della terra. Canzone di spavento accordata sotto archi di pietra.
L'orrore di Parigi, la solitudine, le nequizie, le orride maschere degli uomini, i lunghi digiuni, le penitenze, non avevano ancora spento la fiaccola delle illusioni; un giorno gli uomini si sarebbero amati e, dimenticando, si sarebbero sentiti fratelli. Aspettavo il vaporetto che mi portasse a Charenton per ascoltare Jaurès che di questa illusione si rendeva mallevadore. Il cappotto che indossavo quella sera algida era sfoderato, sentivo tanto gelo addosso che mi sarei confitto la stoffa dentro la carne, i pantaloni filtravano il vento e le gambe parevano diventate di pietra. I piedi non li sentivo più: quando il bavero del cappotto mi toccava il collo mi sembrava che mi leccasse una lingua di morto e mi sentivo accapponare la pelle. Sotto il chiucco del cappello ricalcato tanto che sembrava la seconda scorza del cranio, sentivo il cervello addiacciato, i pensieri erano come mosche affogate in quella piletta; sui ciuffi dei capelli c'erano rappresi i diaccioli. Sull'intavolato dell'imbarcadero non c'era anima viva. Jaurès parlava a Charenton, il paese del Manicomio. La tavola, su cui poggiavo, mi pareva che s'imbarcasse sotto il mio peso e andasse a baciare l'acque.
L'orrore cupo delle acque che approfondisce nella notte pareva mi tirasse a risucchio, dovevo gemere come quando si sogna di cadere da un tetto. Poggiai la mano a un albero scortecciato e mi sembrò di toccare un cadavere, aspettavo da un momento all'altro di essere inghiottito dal fiume impastato con la melma.
Queste parole me le diceva Laxine, uno dei due giovani che conobbi primi sulle sterpaie della Ruche. Una notte egli salì sul muraglione della Senna, si squarciò la gola e la Senna gli bevve quel po' di sangue rimasto.
Il vaporetto attraccò al pontile, tutta l'impalcatura cigolò, si scosse, i cavi ritorti alle teste dei pali tesandosi stridevano sul legno. Un uomo vestito d'incerato nero, levando volta al canapo urlò: «Pour Charenton, allons, allons», nella stiva pulsò di nuovo il motore. Io mi fermai sul ponte, il vaporetto era stivato di gente, s'andava contro corrente, il tagliamare si smusava nelle scappellature, l'acqua fenduta ribolliva sull'opera morta e sciava a poppa come olio, il fumaiolo nero buttava boccate di fumo sicché pareva una spaventosa torcia. Sulla coverta ci pareva la guazza. Io guardavo filar via le calate di pietra appoggiato sulla ringhiera di ferro; mi distraevo nel vedere i parabarche batter l'acqua come ritrecini. Tutto il corso del fiume pareva una coltre funebre che sotto il vento si frangiasse d'argento, Parigi sfuocava nel cielo incenerito, un caligo denso fondeva la città con i campi, le case erano inghiottite dalla notte. Quando si aprirono le arcate di un ponte e gelo e tenebre calarono improvvise, da un pilone precipitò un groviglio nero, un uomo. La giacchetta gli si rovesciò e le gambe sembrarono le braccia; si videro risegoli bianchi al collo e ai piedi, l'uomo fu bevuto e rigettato con le braccia all'insù e la testa tornò fuori fino alle ciocche degli orecchi. A un tratto il capo si scardinò dall'asse, si rovesciò e diè un muglio come un dolfino quando s'avvicina la tempesta. La Senna sembrava un lastricato, l'uomo ci giostrava sopra come un saltimbanco impazzito, polsi e stinchi, vertebre e teschio, si avvinghiavano entro gli stracci, un orrendo pagliaccio che folleggiasse sopra un tappeto nero; quando gli scoppiò il cuore fece arco, la testa fe' da zavorra e rimase fuori soltanto la camicia sbuzzata e il gilet, i mulinelli lo turbinavano al largo, bilanciato dai piedi ogni tanto appariva il teschio: sembrava che l'annegato facesse le riverenze a tutta la gente che era sul ponte. Il macchinista, che aveva fermato il motore, s'affacciò al boccaporto e chiese: «Qu'est-ce qu'il y a?».
«Un suicide; maintenant c'est couleé».
Il macchinista ridiscese nella stiva e avviò il motore. Sul carabotto di poppa indugiavano gente e miravano un punto nero che la Senna portava verso l'acquitrinio della campagna. Charenton era in vista. A pochi metri dalla rive della Senna dentro un grande gabbione paretato di cristalli c'era stipata una folla immensa; Jaurès alla tribuna, congestionato, tendeva i pugni chiusi, li alzava al cielo e con ambo le mani si percuoteva il petto quadrato. Molta folla era addensata di fuori. Dovei rimanere tanto distante che non udivo nemmeno il tono della voce. Quel colossale automa che gestiva e quella plebe che a intervalli brevi applaudiva tanto che l'edificio pareva si frantumasse, mi fece l'effetto che il mondo fosse dato in mattia.
Ritornai a piedi. Dentro il cranio mi turbinavano come uccelli neri, due immagini: l'annegato che arrovellava sulle acque della Senna e un disegno che avevo visto da ragazzo: una folla accalcata in una piazza che, sotto una pioggia dirotta, ascoltava un tribuno il quale parlava di fraternità e d'uguaglianza di sotto un ombrello incerato; un operaio allampanato domandava ansioso ad un altro: «Quale è Jean Jaurès?». E l'altro: «Quello sotto l'ombrello».
La Senna brontolando giù incassata, pareva dicesse co' gorgogli: "Attento, che io bevo!".