Lorenzo Viani
Parigi

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La Repubblica di Apua, costretta tra la Magra e il Serchio, ombrata dai giganteschi schienali delle Alpi marmoree da dove Michelangelo pare ancora accenni alla doppia vetta di Crestola, ebbe Consoli insigni anche a Parigi. Le nomine, essendo il Generale della Repubblica un seguace di Aristotile, avvenivano nelle ampie vie maestre che tagliano la pianura versiliese, tra festoni di pampini e golfi di olivi. I Dignitari ricevevano i sigilli dal Cancelliere. I densi vigneti che ebbero più venerazione dell'albero sacro a Pallade, ardevano saettati dalle luci del vespero, la valle irrigua schiarita dai riflessi del mare pareva inabissasse nella adorabile terra e da Luni la spaventosa ombra di Dante, misurasse il destino delle città sepolte.

Il generale, uscito dal nimbo d'ira ove soleva stare ascoso, salutando i Consoli d'Oriente tuonava: Da Sarzana turrita, di sulla Cattedrale Niccolò quinto, pare ancora accenni ai superstiti interpreti della Sapienza Ellenica, fuggiti da Costantinopoli arsa da Maometto...

 

In quei tempi furon di passaggio da Parigi molti dei Consoli d'Oriente: il Dottore in filosofia, Giorgio Brissimisakis dell'isola di Creta, Giovanni Serajanni di Atene e Pietro Aljti delle Colonie di Alessandria d'Egitto. Il primo contatto ch'io ebbi con il Console di Creta fu a Parigi. Mi presentai a lui investito dei pieni poteri del Generale. L'alto Dignitario alloggiava all'Hôtel du Pantheon nella piazza omonima: la sera in cui bussai alla porta della sua camera ero bardato di un impermeabile nero e lucido ch'avea passato come una bandiera traverso una fortunata crociera in Adriatico – una cappa magna della Repubblica – e di un berretto di astrakan a pan di zucchero.

«Entrez, s'il vous plait

Non ci conoscevamo di persona, ma il Console capì subito di trovarsi al cospetto di uno dei più insigni apuani.

«L'aiutante Lorenzo Viani» dissi garbato.

«Giorgio Brissimisakis» e mi porse la mano gelida al di sopra di una scrivania di noce scurito, a ferro di cavallo, entro la quale egli stava sepolto dai libri. Il Console, conoscendo il discreto dispregio che per i libri avevano gli apuani, si alzò mortificato balbettando in francese qualche scusa: «Non amo molto i libri, ma qui non abbiamo il sole d'Atene né d'Egitto, né il vostro sole apuano».

Il cranio lucente del giovane Console folgorava investito com'era dai tagli rettilinei della luce che saettava dalla lampada elettrica, la quale gli rasentava quasi la fronte. Il profilo mongolo ingiallito illuminava la stanza per conto suo, gli occhi si appannavano dietro due dischi di vetro massicci e quando moveva il capo si moltiplicavano nelle sfaccettature; i denti bianchi, di tra le labbra sfiorite, evocavano il riso d'un teschio; io gli contrapponevo i toni forti di terra rossa e di carminio del mio viso adusto.

Il Console, alzandosi, s'addoppò in un pastrano nero larghissimo e in una sciarpa di lana dei Pirenei. Mi dette la destra con composta dignità e scendemmo rapidamente le scale.

Fuori il bianco della neve scuriva il cielo che pareva si abbassasse denso sulle case livide.

«V'interessa la filosofia?» mi chiese.

«Sì, benché io abbia letto pochi libri che da noi si considerano tarli della mente

Il Console trasalì.

«Ma questa è della filosofia che voi fate» e, dopo aver pensato lungamente: «Filosofia è verace cognoscimento delle cose naturali, delle divine e delle umane, tante quanto l'uomo è possente di intenderle. Non dimenticate» disse a mo' di conclusione «che voi sarete mio ospite per tutto il tempo del mio soggiorno a Parigi».

«Vedi, Giorgioattaccai col tu «c'è più filosofia in quel che hai detto per conclusione, che nella definizione che hai dato della filosofia medesima.» Il Console, come tutti i filosofi quando parlano con un sempliciotto innocente, s'inorecchì: speculava.

«Per esempio,» io chiarii «tu mi porti in giro per Parigi e mi parli di filosofia, di Diogene, di Zenone, di Epiteto, di lanterne, di crocifissioni, di malcostume, io mi tartasso le cervella per venir dietro al filo del tuo ragionamento, poi quando toccheggia la campana del mezzogiorno mi dici: arrivederci, e mi pianti in mezzo d'una strada e tu vai a mangiare ed io rimango . Senza tanto studiare, io dico che filosofia è intuire se uno a mezzogiorno ha o non ha da mangiare

«Vianidisse un po' sconsolato il Console «sei un grande filosofo: – conosci anche Epitteto? E dove l'hai letto il suo nome

«In un libro» risposi io con disinvoltura.

Dicendo che io sono stato per quaranta giorni all'Hôtel du Pantheon nella piazza omonima di fianco al postremo asilo degli immortali e che, dalla finestra della mia camera, potevo vedere a un tiro di schioppo, aggrovigliato dai rimorsi come Caino dopo aver scerpato le membra d'Abele, il bronzo che Rodin ha battezzato col ragguardevole nome: Il Pensiero – qualcuno potrebbe dirmi: Dunque a Parigi hai anche sguazzato.

È giusto. Se uno mi avesse pianto miseria sofferta in Grecia e poi mi dicesse, isabrutto, di aver alloggiato in Atene all'Hôtel del Partenone anch'io direi: Amico, su quel che racconti ci farò la tara. – O se il mendico narrasse di essere stato randagio al Cairo e capitato all'Hôtel delle Piramidi e, di passaggio da Roma, si fosse allogato all'Hôtel del Quirinale, gli si direbbe: Saltiamola!

Chiarirò.

In Italia anche il più altezzoso e protervo albergatore, l'Hôtel du Pantheon l'avrebbe chiamato trattoria e albergo, e, magari, avrebbe messo all'ingresso un cartello con un gallo dipinto e sotto: Quando questo gallo canterà, credenza si farà.

Questo, dunque, l'albergo, di cui era proprietario monsieur Gochet; il quale tuttavia non era pieno di alterigia, anzi, stava come un gobbo che si chiamasse Adone. Si intorchiava i baffi con il sapone; era l'unica cosa in cui monsieur Gochet dava un po' di fuori, ma vi guardava dimesso di tra quelle due code di topo come per dire: "Non ho altre pretese nella vita". La signora era più compresa del pondo di quel cartello listato a lutto che era sospeso tra il primo e il secondo piano: Hôtel du Pantheon. Non l'ho mai vista sorridere in quei quaranta giorni, forse doveva essere un anno bisestile: sangue di mulatta sembrava scorresse nelle sue vene tanto il carnato aveva olivastro, i capelli, per contrasto, avevano invece il candore della neve, gli occhi neri, austeri, le labbra tinte di viola, l'abitato nero e contegnoso. Quando a mezzogiorno essa inforcava le lenti per distribuire la posta, aveva l'aria di una pitonessa.

«Monsieur Brissimisakis

«Monsieur Stivalis

«Madame Kremka,» e per tutti diceva: «Hôtel du Pantheon». Qualche maladroit s'albergava per scrivere a casa: "Rispondete, Hôtel du Pantheon".

Anch'io in quei quaranta giorni giostrai molto sull'equivoco.

Non che i pasti fossero misurati al Pantheon, o che alcuno vi contasse i bocconi, ma, senza esser irriverenti, si può affermare che i piedi giù dal letto non avanzavano a nessuno. Abitualmente monsieur Gochet passava del puré di piselli. Così caldo bollente com'era, il beverone sarebbe stato l'asso per curare un raffreddore, ma per saziare gli stimoli, non dell'appetito, della vorace fame ci voleva altro, monsieur Gochet! Certe castagne arrostite natanti in un intingolo lungo lungo, le quali barcheggiavano sopra sottili fette di carne insegata e su crostini croccanti come il mattone, e quelle ostie di formaggio groviera, con quelle fettucce di pane che pareva intriso di segatura, non sgrinzivano davvero la pancia nemmeno se impolpate da quel quintino di vinello lungo che da noi si dice chiavone.

La tavola alla quale si assidevano i commensali era ovale. Sopra la tovaglia bianca sfibrata dalle molte lavature c'erano parecchi centrini dentellati; uno più grande e più complicato era nel mezzo sotto un vaso contenente fiori di carta. L'acqua abbondava al desco del Pantheon, partita in caraffe di cristallo; il vino lo davano in certe bottiglie di quinto che parevano l'ampolle dell'altare.

L'uomo di fatica, che per tutta la santa mattina aveva dato il cencio alle scale, passata la segatura sulle mattonelle dell'impiantito, pulimentati i mattoni, tirata a lucido la mobilia, quand'era mezzogiorno si metteva un faldone nero con due pigne che gli arrivavano fino sul toppone delle scarpe e uno sparato bianco decorato di un cravattone imbottito a mo' degli antichi cocchieri d'una casata. I baffi che di solito gli sgrondavano giù sicché Giovanni pareva un mammalucco, a mezzogiorno se li arricciolava a guisa di due ferri di letto, sui capelli scompartiti nel mezzo della fronte, ci si dava delle ripassate di ceretta; il povero Giovanni appestava del profumo di bergamotta. Le mani, che quando erano aperte avevano la larghezza di due tegole le calzava di un paio di guanti bianchi, fatti al telaretto, uguali a quelli che da noi si mette il sindaco nei giorni di funerali. La prima volta che Giovanni bussò in tal veste alla porta della mia camera, in quel colossale fantoccio stentai a rintracciare i suoi connotati. Egli reclinò il capo, schiacciò un risolino e disse soavemente:

«Monsieur est servi

Io lo presi per una spalla e gli dissi: «Ma sei Giovanni?». Egli abbassò gli occhi e disse flebile: «Oui».

Capo tavola era madame, la sua statura veneranda troneggiava su tutti; accanto, come un funghetto sotto una moreccia, c'era il nepotino tanto giallo e trasparente che pareva un San Luigino di cera; vicino, gomito gomito, c'era un signore membruto con una testa rinceppata, baffi alla D'Artagnan, occhi di merlo; dall'altra parte un colonnello in pensione, pappafico e baffi di ghiro acuminati e ritinti, vicino a lui la moglie burbanzosa, dalla fronte aggrottata e la bocca tagliata a V maiuscolo. Io rimanevo muso muso a un loro figlio il quale stava molto sulle sue, di quei giovinotti a serie che sono tenuti in tirelle dai genitori, ma che poi novantanove su cento scantonano in galera appena che son liberi dalla martinicca paterna. Accanto a lui un giapponese dalla faccia sgusciata, occhi pisigni tagliati con le forbici, baffi di crino di cavallo. Una polacca spiritata era accanto a quel tenebrore del sol levante, diaccio come una tarantola; ell'era una donna frolla di carne e di volontà che quando parlava sembrava avere una valvola nei fori del naso che le stonasse la voce; quelle donne che a fissarle negli occhi cascano in catalessi. Durante quei pasti, che avevano tutta l'aria di sedute spiritiche, ella parlava col console Brissimisakis, il quale teneva drizzato davanti al piatto un volume di Emanuele Kant e tra una vivanda e l'altra faceva delle postille in margine al tomo. Di fianco a me c'era un certo Leonidas, un levantino il quale mi affliggeva chiedendomi particolari sul soggiorno di Stendhal a Milano, al quale io rispondevo paziente:

«Altro che Stendhal, caro mio, a tavola ci si dovrebbe levar le grinze dalla pancia

«Lei non ama Stendhal?» mi chiedeva stupito e intontito.

Era passata da pochi giorni l'Epifania; al San Luigino gli avevano regalato un teatrino di marionette, e quando dopo cena i commensali si ritiravano in un salottino, il ragazzo li divagava con degli spettacoli. Io invece uscivo a tutto tempo. Avevo fatto conoscenza con un carbonaio della Rue Brocart il quale teneva sepolte delle bottiglie di Boujolé sotto le mucchia del coke. Ma il ragazzo si mortificava che io non assistessi alle sue rappresentazioni; una sera, timido timido, mi fermò sull'uscio:

«Resti anche lei, signor Viani. Ce soir nous avons SaintAntoine et son cochon

«Sì, resto

 

Uscivo sovente con il Console. Un giorno udii sul capo come il ronzio di un calabrone gigantesco. Alzai gli occhi stupito: un aeroplano volteggiava su noi.

«V'interessano gli aeroplani?» gli chiesi col cuore sulle labbra. «No» rispose il Console e non si distrasse dalla contemplazione del selciato.

Un'altra sera mi trascinò riluttante alla Sorbona per ivi infliggermi una lezione di Ledantec. Io entrai alla Sorbona, diremo, alla "carlona", baloccavo di qua e di , guardando ora il soffitto, or l'impiantito. Il Console si era ammusato; quando si immergeva nella contemplazione diveniva terreo, i pensieri pareva gli spaccassero le voltate del cranio. Che brutta bestia questa filosofia! Io ho osservato una cosa: i filosofi quando veggono uno allegro, s'immalinconiscono. Per distrarlo dal peso di tremendi pensieri io lo interrogai:

«Qui ci debbono essere dei dipinti di Puvis de Chavanne

Il Console mi prese per un braccio, tese ambo le orecchie e mi chiese:

«Chi ti ha detto questo?»

«L'ho letto in un libro

Queste risposte secche disorientavano il mio ospite.

Nei corridoi della Sorbona c'era una radunata di fabbricatori di ipotesi, quella gente stregata dai "perché". Essi stavan puppati dal freddo, purgati dalle bevute d'acqua, pelati dal ribollimento delle cervella, con libri sotto le braccia e con le tasche strippate dai sunti bisunti: scalcagnati, senza ventre, imbarcati, sdutti, scarniti. Di costoro averne fatta una carrettata e portarli alla sardigna nel caldaione non ci sarebbe rimasto altro che un barattolo d'unto per lubrificare un torchio, che la loro carne doveva essere intrisa d'antimonio e tarmolata dalla pucecchie. C'erano anche le femmine: prendete qualcuno di questi tipi, infilategli la sottana e avrete il "bel sesso" che coperto e pienato avrebbe fecondato ragazzi di carta biasciata.

L'anfiteatro co' varii ordini balaustrati a dentiera si popolò di questi scenti; una luce elettrica era sulla cattedra dentro una ventola di maiolica i cui riflessi mettevano note di limone acerbo sopra quei volti patiti. Quando Ledantec apparve sulla porta e salì prestamente in cattedra, tutta la scolaresca s'alzò in piedi, e quel tratratacche mi dette l'idea che fossero uomini di legno. Non conoscevo il francese, studiavo, quindi, l'espressione degli uomini, il libro degli analfabeti. Ledantec doveva imbussolare cose chiare in altre più oscure e queste in altre tenebrose; lo vedevo dai gesti delle sue mani che si muovevano come se avvitasse qualcosa e dai ceffi degli alunni che s'intorbavano adagio adagio. Ad un certo punto egli prese un pezzo di gesso, disegnò alberi, solidi e poligoni sopra una lavagna. Dopo molto tempo, come Dio volle, quel gorgheggio cupo che usciva dalla cassetta toracica cessò ed io non potetti raffrenare uno sbadiglio come fa un cane dopo ventiquattr'ore che è a catena e non mangia.

«Tu hai sbadigliato?» mi chiese terrificato il Console.

«Vedi, Giorgio, malgrado che io abbia esperimentato sulle dure panche della Sorbona tutti i dodici modi di frenare lo sbadiglio, questo mi ha voluto far restare in vergogna al tuo cospetto

«E dove hai appreso questi modi di evitare lo sbadiglio

«In un libro

«Se la mia domanda» chiesi «non può sembrare irriverente per il tuo maestro, gradirei sapere la relazione che può avere il disegno di un albero con un sistema di filosofia

Il Console non rispose alla mia domanda: sprofondò in una gran malinconia come soglion fare i filosofi di fronte alle domande semplici e ste' zitto e cheto fino alla porta dell'Hôtel du Pantheon. Sulla soglia ruppe il silenzio: «Tutta la notte penserò alla tua domanda». Salendo su, per le scale, io gli insinuai: «Dante, che tu ammetti sia il più grande filosofo dei tempi che furono e che saranno, ha trovato la relazione tra gli uomini e le piante in una scena di dannazione, ma tuttavia non poté ristare dal percuotere, con tronchi di ramo, i poveri». Come avessi asserito una cosa infame egli mi prese per un polso: «Dove hai letto questo?» mi urlò.

«In un libro... diavolo!» e entrando in camera feci una risata strepitosa.

La mattina presto il filosofo che aveva scritto sul viso una nottata d'insonnia entrò in camera mia: io ero con la testa ancora sotto le coltri, l'alzai ed egli armato di un lapis e di un taccuino mi chiese rabbuffato e sonnolento: «Tu mi darai il titolo e l'indirizzo dove è stato stampato il libro in cui tu hai letto tutte le cose che sai».

 

Una mattina si passeggiava nelle ampie sale del Louvre. Come si può bene immaginare, il Console era arido come il sabbione sulla spiaggia del mare.

«Tu ami Leonardo?» mi chiese.

«Certi grandi uomini sono condannabili per quello che fanno fare agli altri: Leonardo è uno di questi.»

Il Console accartocciò il viso come un istrice e pareva che ingollasse noccioli di pesca.

«Caro mio» io continuai «tutti son buoni ad azzannare gli albatrelli; il bello è piantare i denti nelle rocce

Il Console mi credeva più orso di quello che io effettivamente fossi. Vedendomi estasiato davanti al San Sebastiano del Mantegna che è come una pagina di acutezza anatomica, mi chiese secco: «Conosci l'anatomia?».

«Diavolo» risposi io.

Il filosofo ingollò una gozzata d'acqua di mare. Quando entrammo nella sala dei primitivi toscani, tutta cobalto rosa e oro, io dissi: «Vedi, questa gente lavorava in piedi, mentre Leonardo lavorava seduto».

«Dove hai letto questo?»

Non dissi come al solito "in un libro" per temenza che il Console mi richiedesse di nuovo il nome dell'editore, mi limitai a rispondere: «Queste cose in Italia le sanno anche i ragazzi».

Di fronte ad un tramonto di Turner, un porto incantato di ori, feci far sosta al Console: «Questo è l'artista rievocato da Oscar Wilde nelle "Intenzioni"».

«Tu hai letto anche le "Intenzioni"?» bramì il filosofo. E prese appunto sopra un taccuino.

Conoscevo il Louvre come casa mia. Per molti mesi era stata la casa mia; nei giorni di temporale e di freddo mi rintanavo sempre nel Louvre, quei giorni tetri, quando i celesti delle deposizioni di Tiziano diventano bleu di Prussia e le carnagioni ingialliscono e i panneggiamenti bianchi diacciano; quando Leonardo sembra un litografo e Ingres un ritoccatore di fotografie, Delacroix un illustratore, Rembrandt uno strafalcione, Ribera un preparatore di tavole d'anatomia, Mantegna un ritagliatore di figure con la forbice; quando verrebbe voglia di accatastare i quadroni del Rubens e dargli fuoco in mezzo alla sala, frantumare i Prigioni di Michelangelo, ribaltare la Nike di Samotracia e impiccare tutta la progenie dei Breughel; quando mi rintanavo nella sala dei primitivi spagnuoli, tra costati di Cristo vergolati a sangue, occhi di giudei sgusciati, con i cavalli che ridono ai piedi del calvario. Quelle sale che quando ci si esce, anche Goya coi suoi ritratti pulimentati sembra normale e il Greco diventa proporzionato e carnoso. Quando il tanfo delle resine e degli olii che esala dagli impiantiti e la tappezzeria delle pareti danno alle sale l'aspetto di camere ardenti preparate per esporvi tre giorni: Cima da Conegliano, il Carpaccio, Antonello da Messina, Reynolds, Constable, Bonington, Velasquez, Daniele da Volterra, Dürer, per fargli cantare a tutti una messa in suffragio serviva dai becchini che eran in ogni sala, vestiti di nero. Quando ero pieno uscivo fuori e andavo a sedermi sui gradini del monumento a Gambetta per riordinare nel cervello il bailamme dei dipinti.

Feci dunque un figurone col Console; dopo aver girato e rigirato dissi: «La memoria degli occhi si stanca prima di quella della mente: usciamo».

«Dove hai letto questo?»

Uscendo ci si parò davanti il monumento a Meissonier, col barbone impietrito: mi fermai di soprassalto e dissi: «Il monumento è brutto, la pittura di lui è brutta, ma le sue "Memorie" sono interessanti; ben scalpellate».

Il Console affissò la terra, pareva volesse sentire nascere l'erba. «Conosci anche le "Memorie" di Meissoniertrasse di tasca il taccuino e annotò qualche cosa.

La mattina dopo si passeggiava verso la Rue Brocart, dov'è un piccolo piazzaletto, lo Square Monge, tutto verde, e nel mezzo c'è pietrificato un Menestrello. Io mi avvicinai e sul plinto lessi: Villon. «Non si direbbe che questo paggetto fosse il tragico, il terribile Villon» dissi tra me.

Il Console annegò nella stupefazione: «Tu conosci anche Villongorgogliò, ed io attaccai:

 

L'an quatrecentscinquantsix

Je, François Villon, écolier,

Considerant des sens rassis

le frain aux dents, franc au collier.

 

Il filosofo sprofondò le mani nelle capaci tasche del cappotto e la testa nelle ritorte della sciarpa dei Pirenei, gli rimaneva fuori soltanto un pezzo di fronte corrugata: filtrata dalle maglie della lana, mi giunse fioca una parola: «Viani, sei grande».

 

Essendo uscio a uscio col Pantheon, la grande mole elevata

AUX GRANDS HOMMES

LA PATRIE RECONNAISSANTE,

passai spesso insieme al Console la soglia inclita: sotto il voltone e tra le ampie pareti mi sentivo impicciolire, tentavo di suscitar l'eco della cupola con dei colpi di tosse, ma questi morivano e si ammutolivano lassù. Dei gruppi di gente seguiva il custode davanti ai freschi. Muniti tutti di guide leggevano, nel tempo che il custode chiariva i misteri della vita di santa Géneviève, poi davano un'occhiata furtiva al dipinto e via all'altra stazione di questa specie di Via Crucis. Un giorno vedendo questi gruppetti riunirsi nel fondo della chiesa ci accostammo anche noi; la comitiva era curiosa, americani del sud coi denti d'oro e gli occhi smaltati sulla carnagione affumicata, giapponesi agri come le sorbe con dei chicchi di pepe per occhi, cinesi con la coda accordellata dall'Inchetto e la bocca sgusciata, francesi della provincia gonfi come tacchini. Tutti pareva musassero la porta come le pecore al cancello dell'ovile. Quando questa si spalancò, tutti si spinsero dentro; scendemmo anche noi le rampe delle scale che portavano nell'algide gallerie. Il guardiano si fermava sulla porta di ognuna e con una voce che pareva rintronasse dentro un tinello gridava:

«Tombeau du grand Jean Jacques Rousseau. »

«Tombeau de Voltaire

«Tombeau de Zola

Tutta quella gente guardava attonita quella specie di serbatoi d'acqua su cui tali nomi erano scolpiti, e socchiudendo gli occhi tremavano a tutti le labbra. Nessuno leggeva più i libri, li tenevano tutti aperti sul ventre come quando si prega con la mente.

«Quest'aura diaccia di immortalità che alita in questo frigorifero mi fa sembrare di aver l'ossa di cemento

«Dove hai letto questo?»

Uscendo chiarivo al Console: «Vedi, anche noi in Italia abbiamo due Pantheon: quello di Santa Croce e quello di Roma. Nel primo per la noia che ivi incombe han cambiato viso perfino gli affreschi di Giotto, ma noi abbiamo avuto la buona creanza di contornare gli incliti defunti, di friggine, di gargottine e di fiaschetterie e così interrompere il tedio tombale. Quello di Roma in cui trovan sepoltura i re, ha un'aria più tranquilla, rispetto a questo che alza il cucuzzolo verso il firmamento; sembra, il nostro, un omotto campagnolo dalla trippa rotonda che stia a bocca aperta e dica: "Prenderò quel che mi date". A volte gli mettono al collo un fuciaccone rosso, i giorni di festa e glielo levano quelli di lavoro. Immaginati, per questa sua aria bonaria per cosa lo presi la prima volta che io capitai a Roma. Ero assieme a uno dell'ordine equestre d'Apua, quando mi si parò davanti la parte posteriore dell'insigne edificio. Io da sempliciotto che ero, domandai stupefatto: "O cos'è questo gran cisternone?".

«"Viani, è il Pantheon" mi disse egli stupìto

Il Console mi guardava stranito ma naturalmente non mi chiese in quale libro avevo letto tutta quella grazia di Dio.

Una sera giocai una carta: «Tu non sai che alla Birreria della Régence si pigliava le sbornie Jean Jacques Rousseau?».

Repentinamente il Console mi chiese: «Dove hai letto questo?». Preso così alla sprovvista, dovetti esclamare: «In un libro». Il filosofo sparì nella sua camera: dové ripassare a volo d'uccello le memorie di Rousseau; quando uscì era mezzo acciocchito. Mi disse serio: «Andiamo alla Régence». M'infilai il cappotto e schizzammo fuori.

«Tu hai certailment letto che Rousseau ha preso delle sbornie alla Régence» mi chiese avvolgendo in un tono di diffidenza un'oscura minaccia.

«Che mi faccia veleno la birra che beveremo, se non è vero che ho letto questo.» Andammo in fretta ad assiderci ai tavoli della famosa Birreria.

Il filosofo ordinò un bock ed io un "doppio presidente", un recipiente capace di circa due litri di liquido.

«E tu bevi tutto questo?» disse il filosofo osservando quel fusto trasparente.

«E mi regolo» gli risposi.

«E quanti pensi ne bevesse Rousseau per diventare ivrogne

«Io credo almeno una dozzina

Il filosofo che aveva già di rigurgito alla bocca la schiuma della birra, disse con uno scossone di tutte le membra: «Oh! Oh! Oh!».

«Sì, perché l'abito mentale dei filosofi è un reagente alle bibite alcoliche; per sopraffarlo ce ne vuole, mio caro» gli dissi.

Mentre ingozzava le ultime gocce del primo bock mi disse di dentro il bicchiere: «Dove hai letto questo?».

Io con la testa dentro il "presidente" gli urlai: «In un libro».

Il filosofo veduto traverso lo spesso vetro del recipiente mi sembrava un favoloso mostro marino. Quando sporsi fuori la testa, egli mi disse che desiderava provare l'effetto dell'ubriachezza.

«È facile, bevi

«Non mi ce ne va più.»

«Ingozzalo per forza

«Ce n'est pas possible

«Mangia un biscottino, però ti avverto che gli uomini normali quando bevono diventano filosofi

«Dove hai letto questo?»

«Questo lo ho osservato io e» continuai «i filosofi c'è il caso che bevendosi il cervello, diventino uomini normali

«Ripeti questo» e curvo sul tavolo prese nota in un taccuino delle mie sentenze.

Il filosofo ingollò tre o quattro bocks, facendo le boccacce come i ragazzi quando prendono l'olio. Io mi sorseggiavo il secondo "doppio presidente". Quando ci alzammo, la terra sembrò stanca di sopportare il nostro peso; camminando ogni tanto sentivo nel buio come gli strosci di una canala slabbrata quando piove a diritto. Ogni pochino ci si perdeva di vista, quando il filosofo mi riappariva accanto sembrava fosse stato colto da una improvvisa itterizia.

«Mi sento molto male, bisognerà passare da una farmacia

Il filosofo diventava pian piano normale: i suoi discorsi filavano: «Un medico, dei citrons».

«Se tu vuoi, ti guarisco io: due dita in gola

Accettò il mio consiglio, ma con l'esplosione, nel muro dirimpetto ci si fransero anche le parole: «Dove hai letto questo?».

La mattina dopo, al capezzale del filosofo, gli spiegavo la burla del libro nel quale asserivo aver letto tutte le cose stravaganti. Degli strizzoni di pancia di quando in quando lo costringevano in male oneste positure, gli consigliai caffè amaro con agro di limone.

«Sarà più amaro della cicuta che bevve Socrate,» gli dicevo «ma ti fa del bene

Il Console raffrenò a stento la domanda: "Dove hai letto questo?". Ma non poté ristare da esclamare: «Anche medico sei?».

«Se fosse stato abuso di vino, allora una bella chiarata di due uova e diventavi subito vispo come un cardellino; se fosse stata intossicazione alcolica te la cavavi con ghiaccio tritato in bocca e sul capo, perché nel primo caso il sangue diviene viscido e legato, nel secondo i sali, il nitro, gli alcalini rendono fluido il sangue, onde il cervello rimane come estraniato dall'influsso del sal marino. Il sangue acquista un colore porporino chiaro e splendente quando si mescola con l'aceto; or chi non sa che l'aceto è un valore antisettico

Ma il Console sentiva dei conati che gli dilatavano gli occhi e lo stomaco e non ascoltava le mie lezioni.

«Ma io ritengo che la tua sia un'intossicazione cerebrale derivata dalla consultazione dei libri. Io sapevo per esperienza che la distrazione è la migliore cura in quei frangenti, perché parlando, il cervello par che esca fuori ad arieggiarsi e a rinfrescarsi; invece, tacendo, poltrisce nel cranio come un gatto tra la cenere. Tu sei semplicemente avvelenato dai libri

«Cosa dici

«Tu sei empoisonné dai libri

Il Console che sprofondava il capo dentro un guanciale di lana fissò gli occhi sul soffitto. Una varata di libri precipitava da un tavolo, la scrivania ne era colma al tomito, gli scaffali zeppi, la comodina era alzata da una quindicina di volumi, le sedie erano coperte di riviste, sullo scrittoio di fianco al calamaio, sopra una risma di carta c'erano un paio d'occhiali a stanghetta che il Console si metteva quando leggeva e, una pezzuola di bucato per ripulirli dalla panna.

«Questa è tutta roba da macero» gli dissi.

«Che cosa è il macerochiese impaurito.

«Non ti spaventare, il macero è un ordigno fatto così: un'enorme pila di pietra greggia in cui scola l'acqua chiara e fresca d'un ruscello. Nella pila ci si getta carta stracciata, e, non ti sorprendere, libri

Il Console sgranò gli occhi ed io continuai: «Una ruota di bardiglio a cui per mezzo di un trave è aggiogato un asino bendato, gira, rigira la ruota fintanto che la carta e i libri non son diventati miserabile poltiglia la quale poi serve per rifar carta straccia».

Il Console si era messo le mani sotto la testa e mi ascoltava attento come se io fossi stato Ledantec.

«Se tu vedessi una volta un macero, guariresti della tua malattia. Pensa di veder centuplicare questa varata di libri rilegati, con dedica, sacri e profani, che un uomo a palate butta nel pilone e l'asino acciecato che gira intorno alla pila: ha la benda agli occhi perché non si ubbriachi dalle tanfate dei libri e dal girotondo. Ogni tanto raglia! contegno grottesco che l'uomo inconsciamente pare abbia creato per irridere la Sapienza: l'animale testardo raglia al sapere che diviene impalpo putrido e l'accompagna alla tomba ragliando

«In Italia fate questo ai libridisse melenso il Console.

«I libri ti hanno messo gli spiriti dannati in corpo; se tu volessi guarire, dovresti gettare al macero tutta questa carta pisigna che ti porterà alla perdizione

La filosofia lo riprese per quei quattro capelli che aveva al cranio ed ebbe come un assalto di antimonio al capo: «Tu» mi urlò «hai letto Dante, Zenone, Epitteto, sai di Diogene, conosci Villon e Meissonnier e sai di anatomia».

«Plàcati Giorgio, le pagine del famoso libro erano della mia fantasia, il libro che non finisce mai sotto nessun macero, stampato con i torchi dell'anima, su carta trasparente come la luce, con caratteri celesti come il cielo, rilegato con fili d'oro come il sole. Tu vieni d'Egitto e non hai visto il Nilo

«No.»

«Io l'ho visto; ci son coccodrilli verdi di smeraldo, negri color d'ebano, scimmie che giocano alla palla con noci di cocco, caimani che basiscono al sole, al torrido sole che grava sulle Piramidi, sulle Sfingi, che fa esplodere i palmizi nel cielo incenerito e il deserto, l'altare delle medicazioni supreme

«Quando tu hai visto tutto questo?»

«Da ragazzo io vedevo tutte queste cose, ed ora son qui a vedere quello che ho già veduto. Tu avevi il deserto sotto mano e sei venuto a mendicar la sapienza a Parigi; potevi leggere, nei segni tracciati dal vento, le rivelazioni di Dio, e invece acciechi qui, su queste paginette grime di pucette onde svelare i "perché" che ti stregano l'anima e il corpo. Avevi la sublime maestà del nulla, turbinata dal vento che scrive e cancella le parole dell'eterno, e ti sei smarrito nella logica e nella ragione in questa città che feconda gli aborti

Il filosofo scriveva, mentr'io parlavo, dei versi:

 

Quel temps j'ai perdu donc, à feuilleter les livre,

En torturant mon corps, mon cœur et mon cerveau!

L'aube, tous les matins brillait d'un feu nouveau,

Et moi, je languissais, insoucieux de vivre.

 

 

 

 

 


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