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Il Console guarì presto dell'infezione culturale benché avesse contratta nell'infanzia dai Frères in Egitto. La sua carnagione scialba che ricordava certe pagine di libri sgualciti, sbiadite nel rinchiuso, si colorì tosto. Egli distrattosi alla meditazione alzò gli occhi al cielo. L'inceppatura del viso di continuo a repentaglio coi corpi otto, la fronte scropolosa, gli occhi vitrei, tutto il viso parevano scossi dall'alleluia. I pasti, i magri pasti del Pantheon, non più conditi dalle amaritudini di Kant, anziché stazionare nel sacco dello stomaco filavan dritti al loro destino, onde lo sguardo del Console si fece men duro e arcigno. Il cervello non più vergolato nella prigione del teschio, sembrò si spollinasse come quando un passerotto riesce a volar via dalla gabbia; la gelida pelle che prima era come la scorza d'un limone, s'invermigliò e la sinovia nelle congiunture che da tanto stare era diventata come gelatina, liquefacentosi lubrificò le cerniere, e le membra si sciolsero e il Console gestiva e camminava spedito.
Una mattina Parigi fu desta dai colpi di pistola della banda Bonnot. Io che ero mattiniero portai la notizia, urlata da tutti gli strilloni, al Console: "Dietro la Mairie di Montmartre, una masnada di banditi ha fulminato il fattorino Gaby e lo ha rapinato di un milione. I banditi discesi da una potente auto, uno della banda è rimasto seduto sul motore e col moschetto imbracciato, sbandava la folla». Quand'io lessi le parole "dopo il delitto", il Console mi corresse: «Dopo il fatto». Era guarito. Si vestì prestamente perché voleva andar sul luogo del fatto; il suo volto aveva perso ogni aspetto tombale, negli occhi balenava un lampo di voluttà. Ci recammo dietro alla Mairie di Montmartre: i portali della Banca, di marmo statuario parevano stati infettati di vaiolo nero, le bruciature dei colpi della rivoltella li maculavano fino all'architrave, la porta era scheggiata, le saracinesche di una rivendita di vino da canto alla Banca erano slabbrate di colpi, i rami degli alberi scosciati, il ghiaino tritato dalle rote, un turbine di volontà implacabile s'era abbattuto nel cuore di Parigi. La gente osservava terrorizzata l'orme dei banditi, i bottegai del quartiere erano stati come abbacinati dalla folgore.
«La foudre, la foudre» esclamavano straniti, e stavano lì fermi come i contadini nella stalla quando una saetta ha morto un bue e ne aspettano un'altra che li incenerisca.
Quando io e il Console sopraggiungemmo incuriositi, la folla ci fece largo. Il filosofo si era ricalcato sul capo un caschetto all'inglese, piatto, con una piccola visiera di cuoio, gli occhiali larghi a stanghetta gli conferivano una cert'aria di magistrato: il Console aveva una lanuggine di barba che gli spuntava sul crinale delle mandibole e che era intonsa. La gente semplice lo credette certo un procuratore; ad avvalorare questa impressione ci contribuiva la mia presenza: io avevo indosso un gabbano di incerato nero con una martingala alta quattro dita e due tastiere di bottoni sul petto grossi come palanconi; le rovescie del gabbano erano di cuoio e il gran rigore della stagione mi costringeva ad alzarle oltre il berretto: in capo avevo un berretto di pelo, di sotto al quale da ogni parte spuntavano i cernecchi annodati, il naso adunco, morso dal sinibbio doveva sembrare una roncola insaguinata. Non so per chi mi presero; forse, per l'aiutante del procuratore.
Ci fu agevole di raggiungere la prima fila. Alcune guardie repubblicane stazionavano sul marciapiede, e il sarrocchino li faceva sembrare tanti pipistrelli. «Circulez, s'il vous plait.» Questa monotona litania usciva a intervalli eguali dalle loro bocche. La gente ubbidiente si traslocava da un marciapiede all'altro. Io spiegavo al Console il fatto: «Quelli là... quei punti neri che vedi sul portale sono colpi di pistola».
«Chi ti ha detto questo?»
Mi limitai a rispondere: «Lo so io. L'uomo era circondato. – Vedi i colpi incrociati, l'automobile era fuori del tiro perché per prudenza lo chauffeur deve essere rimasto al volante col motore acceso. I colpi negli sporti vicini sono stati sparati di dentro l'auto per tenere ingabbiati i padroni.» Una guardia repubblicana doveva da tempo ripeterci il tormento del: «Circulez, s'il vous plait» perché a un certo momento mi sentii spingere per un braccio. Muovendoci, si entrò in una rivendita di liquori il cui bandone era stato traforato dai colpi di rivoltella. La padrona non rivinceva a raccontare ai clienti l'accaduto. Ogni volta che lo narrava lo abbelliva. Essa teneva in mano una bottiglia di vino, alla quale era stata portata via la stagnola da una palla di friso. Il Console le disse: «Si può comperare questa?». La padrona pensò un po' poi disse di sì. Volle il triplo del prezzo segnato sull'etichetta. Una rapina a suo modo. Partimmo assai lieti di portare con noi un trofeo. Sul metrò tutti parlavano dell'automobile grigia con raccapriccio; nella ranocchiaia del Pantheon tutti saltellavano come dopo un acquazzone saltellano i ranocchi. La padrona sembrava una raganella gigantesca: «Oh la la». Il giapponese fischiava come una serpe.
«A casa tua queste cose non succedono, eh, ciccia fredda?»
«Cosa dite?»
La sera a tavola il filosofo, digerito ormai il marmiccio dei libri, gettò una pietra nel pollino: a un certo punto del magro pasto trasse di sotto il tavolo il trofeo, lo pose davanti al suo posto e come un prestigiatore urlò: «Vedete signori questa bottiglia?». Tutti i commensali col boccone tra i denti alzarono il capo incuriositi come se dalla bottiglia dovesse uscire un elefante. «Questa bottiglia,» continuò il filosofo «è stata frisata da un colpo di pistola della banda dall'automobile grigia.» I clienti scurirono tutti. «Noi la beviamo alla loro salute.» Scattarono tutti in piedi come se si fossero bruciati. I francesi squacquerarono: «Oh non, non, non!» e abbandonarono la sala. Siccome il tipo d'impiegato dal viso rinceppo restò a tavola, il Console ripeté a lui l'invito, ma questi ingrugnandosi urlò al Console: «Prenez garde, monsieur». Il Console gli inarcò sul capo la bottiglia a guisa di clava. La polacca svenne e il giapponese si messe un altro paio di occhiali sopra quelli che aveva. La mattina il Console venne di buon mattino in camera mia; per lui l'avvenimento della sera avanti doveva sembrargli straordinario. Guardava l'impiantito e sorrideva: quando scendemmo nel Pantheon ci pareva un mortorio, la tavola non era ancora stata sparecchiata, le salviette erano snodate, e nei piatti c'era accagliato il grasso. Giovanni non aveva ancora dato la segatura all'impiantito, i padroni erano sconturbati al bureau, il ragazzo agganciava le marionette dietro le quinte, il colonnello aveva i baffi interiti come un istrice, gli occhi foravano i vetri; sul viso della moglie ci si sarebbe spaccato la ghiaia, il giapponese sembrava un manichino di celluloide gialla, di quelli agganciati nelle sale del Museo Guimet. Io mi guardavano di traverso i vetri il pensatore di Rodin, e mi sentivo sussurrare negli orecchi che il pensionato era andato a soffiare tutto al posto di polizia. Cullavo nel pensiero l'idea dell'espulsione dalla Francia che mi avrebbe riportato pari pari a casa mia.
«Vogliamo andare da Jean Grave» dissi io al filosofo «per sentire la sua impressione. » L'autore della Società al domani della Rivoluzione abitava alla Rue Brocart; quando bussammo al numero quattro, ad un usciolo che sembrava quello di un convento, ci venne ad aprire un omettino grasso col viso tondo come una mela, rosso sui pomelli e con una bocca granita di denti bianchissimi, e gli occhi celesti. L'omettino era in tenuta grigia da lavoro, ci accolse affabile e ci chiese di chi si cercava.
«Di Jean Grave» dissi io. L'ometto si batté le mani sul petto e disse inchinandosi lievemente: «Voilà».
Non potetti frenare: «Voi, Grave?».
«Mais oui, mais oui» esclamava egli parandoci dentro. Camminavamo in fila indiana dentro un corridoietto stretto stretto; il tanfo della carta stampata, degli unti e dei petroli esalava dalle piccole graticole che erano nell'impiantito. Giù nei sotterranei ci doveva essere una tipografia: ci fece passare in una stanzetta paretata di scaffali, che sembrava la cancelleria di una pretura. Quando poi si bussò, Grave era intento ad incollare gli indirizzi sulla sua rivista Le temps nouveau. Appena c'ebbe introdotto nella stanza, egli riprese alacre l'opera. Si interrompeva ogni tanto per chiedere, e: «En Italie comment ça va? E voi cosa fate a Parigi?»
«Niente.»
Seduto a un tavolinetto, intento a divorare una barcata di riviste c'era un giovane dalla barba nera e dalla chioma scarduffata. Egli postillava la Anarchie, la rivista di Laretife, il teorizzatore della banda. Nella stanza incombeva un silenzio sepolcrale, il fruscio del pennello impastato sulla carta sembrava il rumore che fa la lingua di un gatto su un pezzetto di lardo. Ruppi io il silenzio: «E voi cosa pensate, Grave, della banda?».
Egli rispose, pacato: «Son dei matti» e seguitò ad incollare indirizzi, il misterioso lettore scrollò il capo e strinse i pugni sui quali poggiava il mento. Dopo poco ci accomiatammo; con noi uscì anche lo strano tipo.
Camminammo un bel pezzo taciturni. C'era per aria un forte odore di manette.
«E voi, cosa pensate di Jean Grave?» domandai all'incognito.
Volli trarompere la vita perché non potevo star sempre a misurar le parole prima di aprir bocca, o pesarle:
«Tu ieri dicesti una cosa che è in opposizione di quello che hai detto ora.»
«Ma,» seccato rispondevo io «questo mi pare impossibile.»
«Ecco.» E il Console mi metteva sotto il naso le parole che avevo detto il giorno prima, appuntate sul taccuino. Insomma non potevo più parlare a un tanto la canna; la logica era lì con la cronaca e mi sparava addosso a bruciapelo. Alla Rue Corvisart dov'io mi recavo per trovare un minuto di quiete, c'era gente di manica larga; era una colonia di orientali, russi, egiziani, arabi, capitati a Parigi come la farfalla capita sulla fiamma. Là ero accolto con grande espansione. Percas, un corvo del Nilo spennato a Parigi; Ceab, malinconico come una pecora, impoveriva il suo gagliardo sangue arabo a Parigi; Luisa Varon, un'ebrea di Gerusalemme vuotata come una canna, ed Emma, una levantina scaltra come una gazza, ed un certo Kromeka, scampato dal capestro. Quando noi si parlava, egli a passetti piccoli piccoli misurava la stanza per delle migliaia di volte, con gli occhi appannati era lontano da noi, cantava una musica facile che diventava funebre e incomprensibile intonata da lui, e ogni tanto s'interrompeva per chiedere con altra voce: «Cosa? Eh!» come se alcuno di noi lo avesse interrogato, poi si metteva un filo di granata fra i denti come fanno i vagabondi per evitare l'arsura di un lungo cammino e riprendeva la terribile spola. Quella sera che io entrai, quella gente cenava con un'aringa tagliata a pezzetti, con il contorno di una cipolla tritata in un piatto condita con qualche lacrima d'olio che una delle donne faceva gemere dal collo d'una bottiglia, qualche pezzetto di pane era sparso per la tavola, e una brocca d'acqua era nel mezzo. Più che sdigiunarsi, quella gente pareva si comunicasse, e il lume d'una candela li trasfigurava in asceti gialli e li ingigantiva neri sulla parete. Non potevo pensare senza tristezza a questa gente delle terre arse dal sole che moriva di fame e di freddo a Parigi. Mentre essi si sdigiunavano, io guardavo la stanza: le pareti erano vuote, sul quadrato della finestra era calata una stoffa di percalle rosso perché gli inquilini della casa dirimpetto non potessero vedere dentro; degli strapunti di vegetale erano arrotolati in un canto come in una prua di bastimenti; sopra un tavolinetto di giunco c'era un samovar, il calice delle bevande amare. Nel centro della parete che rimaneva davanti alla finestra c'era appesa la fotografia di uno strano tipo, che se non avesse avuto il colletto lo si sarebbe detto un apostolo: la fronte modellata con bozze quadrate avea il comando sul resto del viso, gli occhi si vedeva che erano usati alla contemplazione dei deserti, dilatati per aver fissato quelle spelonche aperte dentro il ventre di montagne inaccessibili, avevano la tempra dell'acciaio, e la luminosità del diamante. La bocca sembrava un sigillo di fuoco, la barba arsa radeggiava come la pagliola. Lo guardavo come si guarda il mare in una giornata di libeccio, quando l'ondate risucchiano la sabbia dei fondali, tritolano i tuoni e spengono le saette: quel ritratto era Dostoevskij. Mi offrirono una tazza di thè lungo e amaro. L'arabo Ceab si offerse di accompagnarmi al Pantheon. Uscimmo, egli taceva come tutti i mortificati e guardava in terra come i vinti. Quella testa arsa come la noce del cocco, smaltata di due occhi bianchi e morelli, colorata dalle labbra violette e dalla barba d'ebano, mi muoveva a pietà: quel corpo così bene attagliato nelle rivolte del barracano, umiliato nella tragedia di quei vestiti di bordatino e il capo in cui un tempo aveva rosseggiato il tarbuscio rosso, ora ricalcato dentro lo chapeau Melon, mi fecero dirgli disperato: «Ma perché sei venuto a Parigi?».
Egli mi guardò stupito, vidi ne' suoi occhi di mussulmano che la Mecca era stata sostituita da questa città dove singhiozzano i violini.
«Vous savez, monsieur Viani, Paris est Paris.»
Il vento faceva svettare le rame degli alberi e parevano tante verghe di metallo, la gente rincasava infreddolita, delle nuvole cariche di verde poggiavano sui tetti; mentre s'andava là là pensosi, sentii che sul mio viso si scioglievano degli stracci di neve. «Ci mancavi anche te» dissi e scossi i ciuffi dei capelli. Ceab guardò il cielo con lo stupore di un giudeo quando vide che Cristo avea scoperchiato l'avello.
Ceab guardò la terra, si scosse le maniche della giubba: «Che cos'è questo?» e gli tremava il cuore e le mani. «Che cos'è questo?» richiese supplichevole.
«Viani,» mi disse timido «sono venuto a Parigi per vedere la neve: sì, la neve, la neve: scusatemi, gradirei godere da solo questo spettacolo.» S'inchinò rispettosamente e s'avviò passo passo verso i giardini del Lussemburgo. Ceab sparì sotto un viale di tigli, sfaldato dalla neve che cadeva dal cielo. Dopo qualche mese ricevei un biglietto: "Una brutta notizia. Ceab si è sparato un colpo di pistola fracassandosi il cranio. È stato trovato stamani sopra una panchina del Lussemburgo, coperto dalla neve".
La tempesta all'Hôtel du Pantheon agitata dall'incauta offerta del vino col crisma della rivoltella, si quetò. L'acque alte discesero, ma restarono torbe. La tempesta moriva col sordo rancore del mare che si arrovella al largo dopo aver percossa la spiaggia. La banda dell'automobile grigia lavorava. Juen, il poliziotto dal fiuto di cane, con una muta di segugi la braccava per le campagne di Parigi. La banda lavorava fuori e dentro le mura della città; "i fatti" si susseguivano; gli assalti agli automobili erano i colpi preferiti; Bonnot aveva sentenziato: gli chauffeurs che difendono gli automobili dei padroni sono peggiori dei padroni medesimi: uccideteli per i primi. Un compagno ferito in un'azione di arrembaggio fu giustiziato da Bonnot stesso con un colpo di pistola: uccidete i deboli.
Nel duello tra la legge che vieta, Juen, e l'istinto che impone, Bonnot; vinse l'istinto. Si pistolettarono: soccombette la legge. Il capo-banda solo, anonimo, si ridusse in Parigi. Al cospetto del tumulto di pietra, di lumi, di lamiera, di torri con le cuspidi acute come picche in mano di giganti, dal cipiglio ostile dei palazzi-vascello speronati di ferro, dal brulicame della folla egli urlò la sfida di Rastignac: Ed ora a noi!
Accerchiato cadde. Contro l'uomo armato d'esasperazione e di coraggio, vinse la legge ausiliata dalle blindate, dai clipei d'acciaio, dalle mitragliatrici, i fucili incrociati, i cani mastini, l'incendio. Mentre il nemico ruggiva con le mille teste, l'uomo sparava e leggeva Gli Dei hanno sete. La sera della battaglia, al Pantheon l'acque erano calme. I commensali però sembravano incantati dagli streghi. Il Console, leggendo i fogli esclamò:
«Che sublime fonte di riflessione per noi!»
«E d'ispirazione» soggiunsi io pensoso.
Benché parlassimo italiano i commensali dovettero comprendere il senso del nostro colloquio: si alzarono. Io e il Console rimanemmo soli a tavola. Egli poggiato il mento sul palmo di una mano pensò lungamente, mentr'io facevo delle palme con la mollica di pane.
«I grandi naufragi sono riservati ai grandi vascelli» disse il filosofo cogitabondo. «Vai e pensa a quest'uomo sui limiti del deserto, ed egli nella solitudine di quel mare, quando il sole soffoca nel cielo di brace, ti apparirà coll'imperiale maestà di una sfinge. In quelle mostruose pagine aperte sotto il cielo dove si affissano le stelle per contemplare le tombe dei re, nude e tremende, tra gli immani sogni geometrici, rivolti dagli uomini verso i termini di Dio udrai la sua voce: io di me stesso Re e Dio.»
Quando il Console si accommiatò dall'Hôtel du Pantheon per iniziare il grande viaggio di redenzione, i pensionati si sentirono tolti come una pietra da dosso, tanto più che anche i suoi amici avrebbero abbandonato l'albergo. Immaginatevi che uno, Stivales, assai prima del fatto Bonnot, aveva messo in subbuglio la tavola; apprendendo che era stata lanciata una bomba al Consolato di Spagna, lui, catalano, esclamò tra un boccone e l'altro: «Ah! ora va meglio,» e tirò giù di schianto un bicchiere di vino.