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Partito il Console, ritornai alla Ruche. Rincasavo taciturno; doveva essere oltre la mezzanotte perché ogni rumore s'era spento per le vie ovattate di neve. Dai rami degli alberi si sfaldavano come dai peschi in aprile le fogliette esili dei fiori, nei viali ci sembrava una primavera ghiacciata. Sopra una panchina due uomini, di schiena, intirizzivano, i loro cani sotto il sedile si erano accucciati uno su l'altro e si sfiatavano l'alito caldo vicendevolmente. Due guardie intabarrate facevano la spola di cima in fondo ad una palafitta, un cane randagio gli annusava spaurito. Sul tetto di lavagna di una baracca che era oltre l'assito, cigolava un comignolo di lamiera. Sembrava il crocidare d'una cornacchia aggranfiata sulle cime degli alberi. Quando varcai il cancello della Ruche, il casamento sembrava la ciminiera d'un vapore immerso nel caligo, per le scale udivo sonnacchiare i trascurati, sembrava un accordo di violoncelli stonati, con dei rantoli d'agonia. Un tanfo di bestie, faceva pizzicare il naso. Mi spogliai a tasto: quando rientrai nell'ottomana e mi tirai le coltri addosso, sentii un gelo che mi arrivò fino all'ossa. Passai una notte insonne ravvoltolandomi; verso l'alba mi addormentai al suon delle mandrie che portavano a sgozzare all'ammazzatoio di Vaugirard.
I giorni ricominciarono tetri e tremendi. Una sera camminavo sotto un filare di alberi: cogli stecchi pareva sdrucissero le nuvole che come stracci molli scolavano acqua torba. Al di là di un ciglio c'era un fossato che dava il senso di un luogo di tribolazione infernale. Ondate limacciose di concime sulle quali affogavano gatti divorati dalla tigna e cani bastardi s'addossavano ad un'alta muraglia che ricordava le calate di un porto. Oltre il tetro muro si alzavano altre mura rigide e nude come quelle degli ergastoli, torrioni di pietra senza finestre che attingevano le nuvole coronati di uccelli neri. Più in là, altre mura, le corti sembravano orride cisterne. Facciate nere come la pece, gialle livide e di color di piombo; delle gigantesche parole azzurre, celesti, bianche, rosso-sangue erano scritte su topponi verdi, arancio, giallo. Bon marché, Printemps, Louvre. Al di là s'accampavano delle mostruose caserme civili. Qualche lume giallo forava i casamenti scuri come se al di là divampasse un incendio. Sui terrazzini sostenuti sul precipizio la gente diventava piccola come corvi in una gabbia di ferro. Nelle corti sembravano scorpioni. Dei lampi elettrici, celesti, saettavano i caseggiati. Il cielo cenere sembrava una lavagna gigantesca, all'orizzonte c'era nero come il catrame. Un gigantesco rullo tremotava al di là in giri eterni. Quando sul cielo sfiatavano delle vampate, si vedevano pietre contro pietre; la città pareva che salisse fino al cielo. Gli esseri che passavano di sul ciglio diretti alla concimaia sembravano degli scampati da un naufragio, per gli arti che avevano impeciati al troncone. Fissavano la terra con gli occhi di vetro, qualcuno gli aveva spenti nelle pilette dell'orbite e ci fissava i denti, tal'altro farneticava attanagliandosi il costato con ambo le mani. Dei nani orridi dalle gambe cionche, dei testoni enormi come zucche, dentro le quali sciambrottavano le cervella; dei monchi i quali avevano tamponato i tronconi come uno sterpo innestato, ed altri ai quali il teschio traspariva di sotto la scorza della pelle; alcuno pareva scampato dal flagello di una città colta dalla pestilenza in cui aveva lasciato gli orecchi che aveva tosati al calcio e i capelli che aveva bruciati. Le concimaie erano già piene di gente sbucata dai pertugi delle fortificazioni. Macabre bestie incarnate in forme umane affondavano le braccia nella polta in cui pescavano ossa che tosto rodeva e scarniva difendendosi cogli occhi insanguinati, da quegli vicini. Sinistre figure di rabdomanti saggiavano le immondizie con bastoni appuntiti, ovunque era zufolare e un grugnire. La bruma densa che scendeva a folate come un velario funebre, adeguava alle ombre questa gente pazza; delle luci vermiglie verdi celeste, saettavano sulle parole Bon marché, Printemps, Louvre Magasin.
L'ora che poteva essere, io non riuscivo a capirlo: man mano che il motriglio della neve mischiata con la fanga e le escrementa dei cavalli schiariva, le cose apparivan più nitide sul cielo che anneriva. Quando apparvero le candide lenzuola stese sui parchi, il loro biancore immacolato espandeva intorno un silenzio alto e una luce diaccia. Gli alberi sembravano incantati; fiorivano tutti grandi fiori bianchi. I muri dei giardini erano neri e neri i fusti degli alberi: da ragazzi la morte si pensa abiti in paesi neri e argento. Tale era quella sera Parigi.
Il monumento di Pasteur – io ero capitato a caso in questo boulevard – era in fondo a un viale di alberi, e benché di marmo, su tanto candore era diventato grigio; sopra il capo c'eran posati tre uccelli neri con la testa sotto le ali. Da lontano si udiva il vociare roco del Paris-Sport.
Un funerale veniva su di verso la Senna, il carro era trainato da due cavalli bianchi coperti d'un panno nero frangiato d'argento; il guidatore a cassetta, strinato dal freddo, teneva tra le ginocchia la frusta e le redini ed aveva infilato le mani nell'apertura del pastrano sul quale spiccavano dei bottoni d'argento. In capo aveva di traverso una lucerna napoleonica.
S'era appisolato, ed ogni tanto la testa pareva gli si staccasse dal busto. La cassa era coperta di un panno nero cencioso e su di essa c'era una corona di fiori di maiolica sbocconcellati. Le foglie di zinco eran verdi, su tanto nero, gli steli di fil di ferro rugginosi parevan fibre di sangue: la corona pareva rubata, di notte tempo, sopra una tomba; il prete avanti col viso color della candela e la cotta bianca e le calze bianche sembrava un fantoccio di neve che gli avessero fatto gli occhi, tremando tritava requiemmeterne; un ragazzo svergazzato dal freddo gli portava il tricorno e il bastone. Dietro il carro funebre a tre passi della chiudenda su cui erano incrociate le tibie e sghignazzava un teschio sdentato, veniva un uomo a capo in giù, e con le mani gialle di morto stringeva l'asta d'una bandiera smisuratamente grande, la quale gli sgrondava giù dietro le spalle fino a lambire la neve; il drapeau era frangiato di celeste, nel mezzo c'era scritto con lettere rosse: Società di Mutuo Soccorso Giovanna d'Arco del XVII arrondissement: dietro la bandiera segnava il passo, nessuno. Da quelle parti c'è la rue de Renne dalla quale passai per ritornare a casa. Poco prima dell'ordinotte fui colpito da uno strano assembramento di gente taciturna appollaiata sulle panchine, appoggiata alle gabbie di ferro che sono intorno agli alberi, abbarbicata alle ceppe ferigne e al muro, per tutta la sua lunghezza.
Stazionavano i meschini presso un grande portone di color d'ombra; dal pietrone che poggiava sui pilastri pendeva la bandiera della patria; il vessillo a tre colori nell'accidia di quelle sere non alitate da vento, dense di una nebbia greve che respirandola lascia giù per la gola il raschiore della caligine, pendeva immoto verso l'impietrato come un cencio mézzo di lordura. Un lampione funebre era acceso sotto, la luce itterica illuminava le parole Liberté Fraternité Egalité. Una porta più piccola si apriva nel portone, tanto bassa che la gente per passare doveva umiliare la fronte verso il lastricato d'un cortile color dell'inferno.
Quando il campanone di Notre Dame intronava l'aria col tocco lugubre dell'ordinotte, in fondo al chiostro si accese un lume giallo e i taciturni ci si affilavano come pecore al lume dell'ovile: l'opera pia di Montparnasse ne ingollava tanti finché non aveva il sacco pieno, il di più lo rigurgitava biasciato sul pietrame. Quella sera io vidi sulla prima panchina un uomo che aveva la fronte recisa da un taglio lineare, il trincio spariva sotto la tettoia d'un cappello duro, sul margine era rappreso il sangue, il freddo gli aveva insidrito la pelle che, slabbrandosi, mostrava la carne viva e pareva morta, il sangue gelato sulla barba gliela riabbarbicava alla cotenna, gli occhi sopraffatti dalla pazzia gli schizzavano fuori dalle orbite e si puntavano bramosi sopra un cunicolo, da cui faceva civetta un talpone, grondante lerca; i telai dei denti stacciavano la fame, con gli artigli uncinati di unghie dure si scardazzava il petto velloso, con le gambe scarne roncolite si teneva ai ferri del sedile come un uccello di rapina. Gli voltava le spalle un uomo che pareva avesse il capo mozzo: arcando la schiena, il costato magro ondulava sotto un camice celeste che gli si alzava quattro dita al di sopra del sacro, la pelle egli aveva fiorita di una gragnuola di cocciole violette, s'erpicava la schiena e vi lasciava delle sdruciture rosse. Il terzo aveva il conio della nobiltà andata in ermini: il cranio era d'avorio diacciato dalle ventate e superava in bianchezza la neve, gli occhi avevano già il riposo mortuario, la barba nera dava risalto alla bocca umiliata, sulla canna del naso ci aveva pinzate le lenti che erano legate all'occhiello del pastrano da un cordoncino nero ritorto. Il cappello duro, ribalzato sulla nuca, poggiava alla spalliera della panca. L'uomo sembrava ascoltasse un silenzio funebre, scandito dai battiti del suo cuore che erano anch'essi silenti.
Sul rovescio, un teschio rosicchiato brucato fino alle radici del naso, di cui si vedevano l'ossa spugnose intrise di sinovia, martellava i denti scalciati; senza l'aggetto del naso essi parevano quelli di una iena, gli occhi friggevano tra un sobbollito di pustole, la testa aveva l'orrida ebbrezza di quanto l'uomo fiorisce.
Addossato al muro, un uomo dalle gambe sgallate si era sdrucito le brache dei pantaloni per dare aria alle piaghe brucenti, degli spaghi gli s'erano confitti nella carne con dei risegoli violetti, degli stracci gli s'erano incrociati sulla pelle; i piedi gelati, frolli, come il pane che è nelle scodelle dove beccano i pollastri, si appiattivano sulle pietre e vi facevano presa con l'unghie; l'uomo dondolava il capo come fosse vergolato dall'epilessia, stralunava gli occhi torbi e gemeva bava dalla bocca.
Un cieco era stecchito alla ceppa di un albero, sicché pareva uno sterpo, un cane biascicato dal cimurro guattiva ai suoi piedi; quando le rame percosse dal vento sgrondavano i diaccioli e qualcuno gli colava giù dal colle per il fil delle reni, il cieco si scuoteva tutto come lo avessero trafitto con delle coltella.
Un mostruoso troncone con la testa schiacciata, con gli occhi di barbagianni, con dei cinciglieri di braccia teneva le stanghe d'una carriola; dentro vi era schiacciata sua madre, una poltiglia d'ossa e di carne, essa era cieca e faceva un continuo gesto di chieder limosina sfregando il pollice con l'indice. Il nano che quando parlò sembrò avere il viso introgolato nella broda, messe il capo dentro la botola e chiese se poteva allogare la madre. Gli debbono aver detto no, ché brontolando spinse oltre la carriola. Nel chiarore elettrico lo si vide lontano sparire sotto un filare di alberi, una pioggia di gemme gli schizzava sulla schiena.
Sotto il portico d'una rimessa c'era ginocchioni un uomo puppato dal freddo; di tra le setole gli slabbrava una bocca laida e feroce, egli s'era confitto in un buco del naso uno zufolo di latta entro il quale sfiatava dibisciando la testa come una serpe, le sue dita cavalcavano impazzite sui fori dello strumento, egli era curvo sull'impiantito ove sembrava vi leggesse la partitura della Marsigliese, che fischiava come un topo quando è bruciacciato dal petrolio
Dirimpetto a costui, seduto sopra una panchina che rimaneva fra due tigli di ferro c'era seduto un uomo il quale aveva perso il segno del cristiano, i capelli aveva lunghi come una donna, essi si partivano sulla colonna vertebrale di cui si potevano contare i paternostri nodosi e si rialzavano sulla cresta delle scapole; l'occipite spelacchiato pareva fosse stato percosso con un mazzuolo e l'uomo con ambedue le mani trafficava sotto l'ossa del mento. Avvicinatomi, potei vedere che si era partita la barba come i capelli in tante ciocche che ognuna accordellava in tre capi: quando s'ebbe intrecciato il pelame abbarbicato sotto la bazza, cominciò a stiracchiare quello piantato sullo zigomo sinistro. Nella frenesia, quasi sopraffatto da orrida lussuria, si stiracchiava tanto forte i peli che spolpava l'osso e allargava l'orbita da cui sgusciava un terribile occhio di piombo, in poco tempo s'annodò tutto il viso, irrigidì le braccia e martellò i denti convulso. Così stregato sembrò un mostruoso feticcio plasmato d'ossa e di escrementi da fanatico impazzito, il quale l'avesse poi avvoltolato in un camice nero; i piedi piccoli, sottili, nudi, li posava sul tappeto morbido della neve. Lo mirava un uomo puppato dall'itterizia e lo feriva di luci gialle: egli era glabro, sulla cima del teschio aveva un fondello nero che con due spaghi s'era annodato sotto il mento, e dal naso gli colava sangue color dell'iodio.
Vicino all'itterico ciancicava un altr'uomo parole incomprensibili, ad ognuna delle quali egli era preso da un tremito, allungava il collo a occhi chiusi, quasi che lo porgesse al cappio di un carnefice, stecchiva le braccia indietro e rimaneva impietrito e dopo pochi istanti si accosciava come una bestia massacrata, poi si riudivan gorgogliar le parole senza senso, l'uomo si alzava rigido e a passi di fantasma si andava a smusare nel muro: lì, cadeva in ginocchio e penzolava il capo come lo ponesse sotto la ghigliottina, dava uno scossone e stramazzava per la terra e si lordava di fango avvoltolandosi e ragliando.
Al calcio di un tiglio uno scheletro cantava nenie religiose, un uomo che sembrava gli fossero arse le vesti addosso che qua e là scopriva il corpo scarnito, si batteva la cassa del torace con le mani anchilosate e tra la morca della saliva si udivano delle parole di preghiera e si recideva il corpo con tagli in croce.
Dall'albero dirimpetto gli faceva le corna un vecchio col ceffo tagliato su quel del demonio, la bocca gli impiastrava il viso, il naso adunco pareva gli uncinasse le labbra, gli occhi affissandosi sulla cima del naso folgoravano i lacrimari e stregavano tutto il suo viso; il vecchio soffiava come un gatto e se un pelo giallastro non l'avesse trapuntato qua e là, si poteva prendere per un ragazzo che aveva i pantaloncini appena al ginocchio e una casacca che non gli passava le gomita e in piedi un paio di scarpe di dragone, sul capo una berretta alla marinara con su scritto in giallo Danton.
Sul resto delle panchine degli alberi e del muro era un ribollimento di apofisi mostruoso. Sotto un fermento di spogli un bottaccio di carne dissanguata e d'ossa. Come sopra una fosse putredinosa, spuntavan dei tronchi di braccia, delle occhiaie svuotate: scardazze di denti, mosse dal freddo e dalla fame stridevano come rodessero ghiaia. Lungo la muraglia la stenderìa umana era pietrificata in gesti terribili e vendicativi con incurvamenti di martiri, come gente che si trascinasse sotto gli scheggioni dell'inferno. Quando la campana dell'opera pia suonò a naufragio, la verminaia si mosse, brulicò. Come quando il beccaio percuote col bacchio la cancrena d'una carogna e il moscaio ronza e bofonchia, tale si udì un ronzìo uscire da quelle anime perse. Le colonne vertebrali si drizzarono, le braccia rotearono, le bocche si spalancarono su gole gorgoglianti. Da quella gente uscì la peste delle iene, quando sconvolgono lo strame, nel serraglio. I ciechi tastoni al muro, gli sciancati sulle grucce, i pazzi come automi s'affilavano alla porta dove facean già ressa dei bestiali tarchiati; si udivano grugniti, guaìti, parevan bestie travolte coi loro stabbî da un fiume in piena che gorgoliassero sulla grata d'una chiavica, alcuno dimezzato contro la porta la ressa lo contorceva come un vincastro e lo scaraventava bocconi sull'impietrato ove altri lo calpestava. In pochi minuti il gorgo sparì e la chiudenda inchiavardata sembrò una sepoltura.
Fuori del sepolcro stazionavano due guardie per cacciare i ritardatari, alcuni s'appollaiavano sotto i lampioni; la luce sembra che dimoi la freddura, l'ombra è sempre algida. La voce delle guardie più fredda del gelo ripeteva l'implacabile: «Circulez, s'il vous plait». I meschini sotto il peso dell'inerzia andavano da un albero a un altro pungolati dal grido. E così da una pianta all'altra li beveva la notte.
Un testardo si era irrigidito sopra una panca, le guardie inferocite lo presero sotto le ascelle e soppesandolo gli gridarono in coro: «Circulez». Ma quel cencio strapiombò sul sedile.
«Merde alors» esclamarono atterrite le guardie.
Un ubbriaco capitò davanti al portone, e trovandolo chiuso prese a palleggiarsi la bombetta da una mano all'altra e danzava dinnanzi al drapeau della patrie e cantava: «Fraternité egalité liberté». Le guardie che vegliavano il dannato, gli urlavano: «Oh nom des noms, circulez, circulez, s'il vous plait». L'uomo ebbro si avvicinò alla panchina dove sgrigniva i denti il morto e cominciò a filosofeggiare.
«Et bien, qu'est-ce que c'est la liberté?... Voyons... et la fraternité?...»
Le guardie risoffiavano inferocite:
«Circulez, s'il vous plait. » E l'ubbriaco testardo le tempestava ancora.
Ma l'ubbriaco approfondì ancor più: «Et Dieu? Et bien, Dieu, même Dieu qu'est-ce que c'est?
Attese lungamente, poi gridò?: «Et bien, messieurs, Dieu est merde!».
Dopo un cotale visione mi ridussi alla Ruche strusciando i muri. Ogni poco mi fermavo, ché mi erano spuntate dentro i muscoli indolenziti l'ossa di mio padre. La vecchiaia m'aveva repentinamente franto la vita, l'intelaiatura dell'organismo si disgregava, gli attimi in cui non si sente più le braccia e la testa sembra avulsa dal rimanente e i pensieri rompono nelle conchiglia degli orecchi come dentro una tufa marina. Nel fondello di una tasca tenevo stretti in mano quattro soldi: era tutto il giorno che li palpeggiavo e questi si erano scaldati. Il pane delle vetrine mi aveva fatto tirare più volte la gola, spengevo questo stimolo con delle bevute d'acqua alle fonti, mi ero proposto con quei soldi di comperarci cena. Alla Rue Voil presi quattro soldi di fagioli lessi, me li accartocciarono dentro un giornale, erano sempre caldi, e mi intiepidivano le mani; ne assaggiai uno poi due, tre, una manata, li tirai a risucchio tutti. Collo stomaco intiepidito potei allungare il passo. Il casone era là fermo con le vetrate celesti e la porta nera. Entrai nello studio, mi sedetti sull'ottomana e aggravai il tronco sul tavolo, con la testa tra le mani. Era uno di quei momenti che il tempo cola lento come filtrato dal foro d'un orologio che un minuto pare un secolo. All'improvviso sentii come una pialluzzata sull'impiantito: il postino aveva introdotto una lettera. Mi alzai e la raccolsi; per leggerla fu mestieri che mi infilassi il pastrano e andassi sotto un lampione della via.
Per il voto del Consiglio Comunale, che non avevi ben capito di cosa si trattasse, credo che te ne abbia scritto E. B.; e se ciò non fosse, sappi che la Giunta Comunale di motu proprio aveva portato al Consiglio una proposta onde fare una medaglia d'oro a M. L. per il suo premio, di saper parlare l'inglese. Ora B. prendendo occasione da ciò, propose al Consiglio non una medaglia d'oro, né un attestato di cittadino benemerito, per te, ma un plauso d'incoraggiamento a chi senza vincere nessuna borsa, tiene alto il nome d'Italia in un campo dell'arte che certo non è il marxismo. Proposta che fu approvata all'unanimità. A proposito del marxismo devi sapere che in un articolo – sempre medesimi i nostri cugini socialisti – dicevan gran bene di M. L. perché ha imparato l'inglese e perché, niente e po' di meno, si degnava, dice l'articolista, di essere uno studioso delle teorie di Marx. Di nuovo, qui non s'ha altro che il processo a M. B. per i fatti del Camposanto; il Pubblico Ministero nella requisitoria fece cenno anche del tuo discorso al trasporto. Ma tu sei uccel di bosco. Beato te. Ti abbraccio e riscriverò più a lungo.
Ritornai immantinente sull'ottomana. Questa lettera mi aveva portato l'aroma della resina, della pece e del mare e l'ingenuità degli italiani di allora.
(Deliziosa e grande Italia, quando Genova non ricordava ancora Liverpool, Milano Berlino, Roma un porto di mare, quando il monumento a Vittorio aveva l'imperiale solennità del cantiere con le impalcature inchiavardate alle travi. Quando i più colti leggevano le Memorie di un ottuagenario, e i vecchi cantavano l'ottave del Tasso, e gli scapestrati divoravano il Batacchi, e le signore non disdegnavano profumarsi la bocca con il soave idioma di Beatrice.
Erano i tempi che noi nudi e bruchi, per avere occupato quelle quattro pertiche di terra calda come la cenere tra Massaua e il Trigré, ci pareva di aver preso in mano il tralcio e la spada del Centurione. La gente a torme ascoltava leggere sui canti degli innocenti discorsi di Cavallotti come nell'antico "le grida" del Cìntraco, e nelle case c'erano inquadrate le stampe della presa di Cassala, il forte di Adigrat, la disfatta di Ambalagi; i tempi in cui alla notizia del rovescio di Adua la gente esclamava dolente: «Siamo stati ingannati dalla Francia!». L'Italia che agonizza ora sulle cime dei monti brulli tra la chiesa e la coltre del cimitero.)
Restai immobile sul tavolo perché questi ricordi mi rimanessero pari dentro la piletta del cranio. A poco a poco i pensieri si dilatarono, le vetriate diventarono luminose; al di là la marea degli anni galoppava su quella dei secoli, ed io mi sfaldai nel sonno. Come quando da giovinetto facevo la comparsa nel teatro del mio paese, mi sembrò d'essermi vestito dei panni di Mario e di Silla: manto e calzari, elmo e lorica e lunga barba di stoppa. Di avere appesa sul petto una grande medaglia d'oro, di leggere in inglese sul capitale di Marx, in arcioni a una giumenta convenientemente bardata. Passare tra rupi e anfrattuosità e raggiungere le montagne brulle delle nostre terre, dove le pievi di pietra sconnessa anelano il cielo con il braccio stecchito del campanile, contemplare la facciata nuda che schiariva sul monte oltre la valle, la canonica innestata alla Chiesa, imbiancata di fresco, con le finestre verdi come la seta e il cimitero che pareva l'orto, con i cipressi neri inargentati dai fischi degli uccelli, e portare la bestia a brucare l'erba tenerella, ribattuta sul fieno non mietuto. Una fossa scavata di fresco, come un campicello rotto dal vomere nel deserto, rosseggiava sul grigiore della terra, dei fiori rossi e celesti e bianchi vegetavano freschi su una corona di mortella. Il paesetto ascoso in una spelonca lo si intravedeva con i tetti più alti e le fumate celesti dei camini, e la croce di legno nera col martello, le tenaglie, la sindrone, la lancia, la spugna, la mano. Guardare estatico sulla facciata della chiesa la meridiana che tagliava in diagonale i numeri e dalla valle udire tre tocchi di campana.
«Son quelle di Carignano... dov'è oggi il Maggio?» Un vecchietto terreo, spento, funereo, aveva così parlato: «Maggiante, guardante il campanile». Le bifore fiorite di semprevivi, le campane, inchiavardate nei moggi rossi come il timone del carro; il battagliolo tirato da una funicella si alzava e percuoteva il bronzo, e tutto il silenzio che incombeva su quella desolazione sembrava aver trovato una voce sola: ton, ton, ton. – Legare la giumenta a un cipresso, entrare nella chiesa fra l'odore del tabacco macubino che fa lacrimare gli occhi, e vedere nella penombra in un canto svolazzare una farfalla gialla e udire un chioccolìo d'acqua come di un rio che stilli di un botro, e fatto l'occhio all'ombra scorgere un bimbo color rosa madido d'acqua e un gruppo di gente dall'aspetto montanaro. Osservare sull'altar maggiore la tovaglia bianca ricamata, i ceri spenti, e sul buio dei panconi del coro veder rilucere una testa di cera: «Maggiante, volete vedere le reliquie di San Valentino?».
Sentirsi scotere da questa voce che risuonava sotto la vôlta col tono che avea sul piazzale. Nella sacristia due mani morte trar fuori dall'armadietto una custodia inargentata di vecchio, e sotto un vetro, dei detriti d'ossa che sembrano gesso.
«Appena restaurata la Chiesa, le esporremo alla venerazione dei fedeli.»
Risalire in arcione quando le campane di Carignano battevano la mezza, scendere verso la svoltata di un muro, dietro il quale era ascoso il paese. Un infermo con un chiucco di cappello sgrondato sulla testa sgallata, guardarvi stupito: «Dov'è il Maggio?». Stanotte ha fischiato la civetta, che succederà?...
Mi destai che ero un pezzo di ghiaccio.