Lorenzo Viani
Parigi

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Quando il casamento crematorio dai rigori del verno fu tramutato in orrida ghiacciaia, a molti cominciarono a far gola i basamenti di quercia sui quali poggiavano le tre virtù teologali Fede, Speranza, Carità. Nel mio studio ci si gelava, la notte mi accartocciavo più che potevo sull'ottomana, le lenzuola vecchie sfibrate non le potevo riscaldare con il mio alito che era leggero come la nebbia, mi ravvoltolavo il capo in quei cenci perché l'aria entrando dagli orecchi mi pareva diacciasse le cervella; quando pare che il cranio diventi marmo. L'imbottito si imbeveva di gelo, pareva di dormire sotto un manto di brina, sentivo anche il freddo delle molle, qualcuna aveva sbuzzato la stoffa e mi puntava sulle costole, le penne del guanciale schiacciate dalla mia testa cedevano fino sulla traversa di legno. Per la bramosia di ravvolgermi il capo a volte scoprivo i piedi che me li sentivo diacci come se avessi schiacciato una tarantola. Nelle notti di temporale quando le nevicate si convertivano in piovaschi, dal tetto stillavano delle goccie di acqua; quel tac tac sul costato e sul capo pareva che mi dovesse trapanare. Dopo pochi istanti ero fradicio, ponevo sopra di me un recipiente nel quale mi lavavo, ma allora era preso come da raccappriccio, il cranio mi pareva fosse diventato di lamiera. I goccioloni rimbalzavano sulla stufa, su i disegni sparpagliati, sulla ventola del lume, sul tavolo. Il tetto rotondo, sembrava un filtro. C'era tanto da dare in mattia. Fu dopo una di queste notti che dipinsi un cartone in cui ritrassi tutto quello che vedevo dal finestrone, la caserma, la sterpaia, le fortificazioni, le stamberghe. Non avevo colori, feci nero ogni cosa, animai il quadro con i tetri uomini, desideravo mettere qualche palpito di luce gialla, i lampioni, e qualche pennellata di biacca: la neve. Rufolai nella tragedia della mia cassetta dove tra pennelli, sgorbi e squadre martello, chiodi e bullette pescai un tubetto intasato sul foro: nella frenesia gli detti una strizzata tanto forte che mi schizzò il giallo per tutte le mani come quando da ragazzi si sbuzza una lucertola. Me ne schifai. Il cartone ruzzolò in un canto, nel cielo grigio del dipinto vi rimase scritto: Cimitero del mio paese. Questo era dipinto dall'altro lato, e quella seminata di parole nere sembravano un branco di corvi in un giorno di temporale.

Una notte fu visto sulla sterpaia aggirarsi un fantasma; l'ombra brandiva una scure. La mattina, le statue delle Fede, della Speranza e della Carità furon trovate decapitate, squartate e rovesciate nella concimaia. Il legno stagionato fu spezzato in cento tronchi e molte stufe della Ruche si alimentarono di fuoco sacrilego. Io, avvoltolato nelle lenzuola, sentivo abbaiare la concierge davanti al tritume; «Oh quelle brutalité... oh le pauvre monsieur Bochet!».

L'altana del mio studio era il rifugio di tutto: stracci, barattoli, pezzi di carbone, mollica di pane che aveva servito per correggere disegni, manipolata tanto con le dita che era diventata come pece. Da che avevo arso i primi gradini delle scale, e non salivo più sopra, su ogni cosa c'era la muffa alta, quella lanuggine arida che è come la peluria del tempo. Un giorno ero andato a perdere la vita oltre l'Étoile. Quei giorni, quando il cielo filtra dentro la terra e rimane impigliato dagli alberi e i parchi par che fioriscano bambagia. Le strade imbevute di cielo sembravano fiumi, le ruote dei carri parevano tuoni che si spengessero su quell'acque morte, i lampioni accesi appannati d'aria non giungevano a ferire la terra, erano tenui come rosoline di campo che si sfogliano ai primi aliti della primavera. Passai sotto un ordine uguale di arcate sulle quali sale il Métropolitain quando sbuca dal sottosuolo di Parigi. Mi orientavo verso la torre Eiffel, quella mostruosa siringa che buca il cielo con l'aculeo del parafulmine e alla grande ruota, il gigantesco arcolaio precipitato dal cielo. Raggiunsi la Senna al ponte del Trocadero; il fiume era fuso con la nebbia: si sarebbe detto una fiatata di vapori se i gorghi che si rompevano nei piloni di pietra non avessero riempito l'aria di accordi rochi.

Andavo a perdere la vita. Nello studio ci si moriva. Il tubo della stufa sfiatava gelo, il cranio dal freddo pareva si screpolasse alle suture e i lobi del cervello ghiacciati perdevano la facoltà di suscitar pensiero, quando si perde il tatto e par d'essere sospesi sopra un abisso. La terra avvicinandomi al caseggiato pareva un rullo che girasse sotto i miei piedi. Le strade sembravano interminabili, allungate dalla mia stanchezza e dalla mia disperazione. Era notte quando si aprì sul cielo l'arco del Trionfo, oltre l'arco il cielo aveva il rossore cupo dell'incendio, dirimpetto il Bois del Boulogne era freddo come uno scenario di teatro. A Parigi d'inverno è sempre notte, non fa mai giorno largo; quella sera non sapevo rendermi un'idea di che ora fosse, a cose normali ci si serve dell'orologio dello stomaco, ma quello era fermo. Da quelle parti abita Cappiello: mi rifugiai nel suo studio sontuoso, nella sua casa regale. Quando premei il bottone del campanello, la porta si aprì di botto. Un servo la teneva socchiusa. Mi guardò dall'alto, io gli dovevo sembrare uno che va al sabato, ma, osservandomi più attentamente i tagli della fronte e il ceffo mi deve aver preso per uno che va di notte: mi domandò chi ero. Allungai più che potei l'i finale del mio nome. L'uomo deve aver capito che quello di chiudermi la porta in faccia non era il partito più atto a liquidar la partita. Mi fece passare; mentre telefonava di sopra mi squadrava le mani; quando ebbe l'ordine di farmi salire, fece una larga riverenza ai miei stracci. Cappiello non ha perduto la semplicità degli italiani, i larghi agi e la rinomanza strepitosa non lo hanno distolto dalle fatiche del lavoro: quella sera dipingeva un gran quadro in cui ritraeva la famiglia sua: la bella signora e le bimbe. Il quadro benché abbozzato era già inquadrato in una cornice antica con delle ampie volute barocche. Fui richiesto di un parere sul dipinto. L'artista dipingeva oltre la sua personalità, che è come andare lungo una strada a noi sconosciuta: si va a tasto. L'impostazione delle figure era alla Reynolds con impasti di tutto colore, la grandiosità poggiava sui mezzi e sui metodi. L'artista aveva mosso il capo e il soffio di Dio non lo raggiungeva più. I gialli arancio, i rossi lampone, i bleu mare, i bianchi elettrici, i verdi acri dei suoi manifesti incorniciati dal bandone nelle strade, facevano più quadro, del dipinto inquadrato nell'imperiale cornice: quelli eran fatti con la testa a filo dell'alito di Dio.

Fui circospetto nel giudizio: Garibaldi teneva più ai suoi versi che alle sue battaglie!

Al caldo dello studio ebbi una sensazione disagevole. I capelli gelati e gli abiti insidriti di nevischio disciogliendosi mi facevano scorrere per tutto il corpo delle goccie tiepide: avevo bagnato anche un po' il pavimento.

Poggiato ad un finestrone dello studio un signore tutto nero, sparato e denti bianchi, ascoltava il nostro dialogo, e sembrava ascoltasse con la bocca rosa sfiorita, gli occhi dal fondo delle increspature ferivano quelli sui quali si fissavano: era Paul Adam.

Fui presentato: allungai la mano e tacqui. Cappiello doveva ragguagliarlo sui miei disegni perché man mano che egli parlava, Paul Adam si interessava della mia persona forandomi coi suoi occhi salati. Nel dialogo ritornavano sovente i nomi di Steinlen, Forain, e Toulose Lautrec. Quando ebbero parlato ben bene Cappiello mi disse: «Esporrebbe volentieri da Georges Petit? A giorni vi si inaugura la "Commedia Umana". Sarà in buona compagnia!».

«Sì.»

Dallo studio scendemmo da basso in un salotto Luigi XV dove era appeso, tra le altre cose preziose, un quadro di Watteau sul quale io mi fissai.

«E un Watteau originale» mi disse Cappiello.

«Lo vedo.

Lo stare presente a me stesso e seguire il filo del ragionamento mi aveva tanto stancato. M'accomiatai. Fuori, uno strizzone di freddo mi accoppiò il costato. In un attimo gelai fino alla cima dei capelli, una serpiggine di aghi mi corse per tutto il corpo. Quando la porta si chiuse pesante dietro alle mie spalle, mi sentii come precipitare nella notte eterna; mi pareva che una spaventosa cateratta fosse stata calata fra me e la vita. Mi voltai dissensato. Sul portone ingigantito dalla mia disperazione vidi una lucciola verde. Era il buco della chiave, poi anche quello fu inghiottito dalla notte. Ripresi la via della Ruche con un'andatura cadenzata e con lo sguardo rivolto contro di me. Uomini e cose si frantumavano nel vortice dei miei pensieri. Una di quell'ore in cui si invocano spaventosi cataclismi, l'esplosione della terra, la caduta dei mondi, l'orrendo silenzio del nulla.

Come tramutato dal freddo feci qualche chilometro e alle tre varcavo la soglia della Ruche. Il silenzio ivi era alto come al solito, scandito dal sornacchiare della gente accampata: l'esalazione acre del serraglio appestava la tromba delle scale.

Aprii la porta del mio studio e la richiusi pian piano. Rufolando in una scatola di cartone mi capitarono fra le mani tre cipolle forti che arrabbiavano, di quelle che da noi si mettono ai gatti ghiotti sotto il corbello, per castigo, e quando si affettano fanno lacrimare gli occhi e starnutire. Mangiarle così sole, piantare i denti in quel gelo, mettersi nello stomaco quell'acido, non mi parve buon partito. Mi vennero in mente quelle molliche di pane che nei giorni d'abbondanza dopo avervi cassato i disegni li buttavo in altana. Feci con un salto il quinto scalino che dopo aver bruciato quelli sotto era diventato il primo, dovei aprire le gambe come seste e mi sentii stridere la cerniera delle anche. Il piano dell'altana era coperto di muffa e di polvere che aveva il colore della pepina; i groncioli di pane prima funghiti eran diventati duri come sassi e spugnosi come ossa stantie. Ne feci una bracciatella, poi mi ricalai giù dalle scale. Messi questa che fu grazia di Dio a molle in un catinello per farla rinvenire. Nel frattempo affettai le cipolle dentro una scodella di metallo: seduto al tavolo lacrimavo tanto che chi mi avesse osservato dal buco della chiave avrebbe creduto che avessi orrore del mio stato. Era invece soltanto effetto delle cipolle. Non avendo in casa un pezzetto di carbone, presi la risoluzione di scaldare quella bobbia sopra il tubo del lume. Trassi dalla catinella il pane impolpato come bozzima, lo strizzai e messi quella panzanella insieme alle cipolle tritate. Con un paio di pinze tenevo l'orlo del piatto sopra il tubo del lume e ne ostruivo quasi il foro, la fiammella filava e friggeva sotto il piatto, spargendomi il denso fumo sul viso. Io dovevo respirarlo, e così a digiuno mi sembrò che mi passasse di sotto le finestre un funerale.

Ero intento a compiere questo rito sull'altare della fame quando udii battere pian piano alla porta. Mi mossi dal lume e portai con me il piatto appinzato. Mi accostai all'uscio, dubitoso: forse qualcuno ha sbagliato studio.

«Chi va urlai.

«Chouet, l'atelier Z...» disse una voce col tono che fa lo spago spalmato di pece. Aprii. L'infingardo era stempiato dalla fame: doveva aver bevuto tant'acqua che era da strizzare.

«Vous mangez?» mi chiese avido, scettico e sardonico.

«Forse mangerò» gli risposi.

«Et qu'est-ce que vous mangez de bon?» e si leccò le labbra come i ghiottoni.

Io parlai in italiano:

«Una cosa che a tirarla in un foro di vipere, crepan tutte.»

Non comprese egli, ma disse col tono dei chiedoni:

«Oh la la» e ingozzò l'acqua che geme dalla voracità.

Lo feci entrare, sedere e gli misi la scodella davanti, presi un cucchiaio io e uno lo porsi a lui: «Avanti».

L'infingardo ingozzava l'intruglio, sgusciando gli occhi. Anch'io facevo altrettanto. Tra le tante, la polta violacea aveva preso anche di petrolio.

L'ospite biasciò: «Qu'est ce que c'est que ça?...».

«Se ne parlerà domani» risposi io, e lo accompagnai alla porta. Andai alla pila con una tazza, la colmai e la bevvi ed ebbi la sensazione che tutto il sangue mi fosse andato in acqua.

 

Dopo due giorni ricevei l'avviso di portare i miei disegni alla Galleria di Georges Petit, quella dove fu esposto il ritratto di Dorian Gray. Era lusinghevole per me. Anche il nome del Gruppo mi piacque; oltre che la potente opera di Balzac, mi risuscitava nella mente il ricordo di una piccola Rivista che si stampava quando io ero ragazzo, a Milano e ne rivedevo la copertina: un ciuffo di burattini agganciati a un chiodo come un mazzo di uccelli; preti, giudici, militari, censori, censiti e ministri.

Malgrado il titolo corrosivo, la "Commedia Umana" accampata nelle auree sale di Georges Petit era un sinedrio di scettici, di lepidi e di servizievoli, apparati sotto il bel nome come un branco di cenciosi sotto una grondaia: i giardinetti svenevoli di Semoff, gli aborti ventruti di Weber, i quadri normali di Raffaelli, le vesciche slabbrate di Herman Paul, le rotondità obese e tagliuzzate di Léandre, i titillamenti di Abel Faivre e i bozzetti di quel galantuomo di Zandomeneghi: tutta roba che sarebbe crollata sotto uno scroscio di risa di Daumier.

In mezzo a quelle pareti ambrate, insaponate di lampone, dai toni di pisello, i miei disegni di gente pietosa, brutale, avvinazzata sembravano un ponce zincato rovesciato sopra una tovaglia apparecchiata per un agape di filosofi astemii.

Ma in questa città, che è raggio per quelli che son lontani, gli indumenti e i nomi sono nei primi piani. La "Commedia Umana" si poteva ben chiamare lo sposalizio di Ciuccianespole.

Aveva traversato a piedi tutto Parigi con l'involto dei miei disegni inquadrati, gravati dal titolo francese, quando con l'aiuto di Dio giunsi dinanzi alla Galleria: colonne, broccati, statue, specchi, oro. Bussai timidamente alla gran vetriata e attesi che qualcuno ruggisse: «Entrez, s'il vous plait» che questa gente quando è in sé rugge, e gorgheggia invece quando recita nella grande commedia.

Io sembravo Cristo, le mani morelle aggranchite, le labbra livide, il corpo ghiacciato. Dopo avermi fatto aspettare impalato, mi venne incontro un certo signore calvo, vestito di nero, tirato a lucido nelle parti bianche del corpo; io gli porsi le cartelle ov'era scritto il mio nome, egli le prese e mi chiese: «Dove abita monsieur Viani?».

«Non lo conosco» risposi.

Istradandomi sulla Rue Royale, mi danzava davanti gli occhi arrapinati la copertina e il mazzo dei burattini attaccati a un gancio e vedevo Semoff, Weber, Faivre, Raffaelli, Paul e tutti quegli altri della "Commedia" e il suo segretario stregato, ed io armato del bastone plebeo, dell'italico Meo Patacca, li percuotevo sulle zucche di legno.

 

Partendo per Parigi, il fratel mio d'arte e di poesia Ceccardo, general d'Apua, mi aveva ammonito: «Non dimenticare di recarti a rendere omaggio alla tomba del Console».

Ho capito dopo, molto tempo dopo, il significato che aveva la parola Console che il Poeta contrapponeva a quella di Imperatore: «Dove non ha arato il Console, la libertà piange deserta».

Il Còrso giace sotto la cupola degli Invalidi in un grande pozzo di pietra: per contemplare il sarcofago che chiude la terribile ossatura è d'uopo di protendere il collo oltre il davanzale di una balaustra.

Delle enormi statue di Vittorie, disposte in giro a guisa di cariatidi, lo circondano. L'impiantito è di pietra serena, la rivestitura delle pareti è di marmo bianco. Il sarcofago di porfido tra quei gelidi toni sembra ardere avvivato dalla tremenda fiamma che racchiude. Bertrand e Duroc, dormono l'eternità con Lui. Una selva di bandiere prese ai nemici pendono immote nella navata in fondo alla chiesa. I simboli della potenza e dell'audacia: le aquile, gli avvoltoi, i leoni, gli arieti, i tauri e i geroglifici della gloria; la quercia intrecciata all'alloro sotto le spettrali gorgiere i caschi e le corone, tutto è assimilato nel gelido squallore.

Un custode vestito a guisa d'un becchino gira intorno alla balaustrata. La prima volta che varcai trepidante la soglia degli Invalidi, il tempio era vuoto. Quell'uomo vestito di nero con quel risegolo giallo sulle costure dei pantaloni e quella tastiera di bottoni d'ottone sopra una giubba nera che dava risalto al piastrone della camicia, ma più specialmente quel viso che vi era avvitato sopra con gli occhi smaltati e i baffi di crino, mi dettero la sensazione di uno spauracchio confitto ai raggi di una ruota che si muovesse in lenti giri eterni. Giù nell'algore della pietra si sfarinavano l'ossa del Console. Nella navata i vessilli che avevano ondeggiato tra la mitraglia, svanivano i colori; i celesti si uniformavano ai verdi, i rossi agli arancioni, gli ori all'argento. Lo spauracchio sonnolento, uggito, ogni tanto scrutava l'orologio, orrida macchinetta in cui l'uomo ha messo a passo la vertigine del tempo.

Umiliato, posai un mazzetto di viole fresche sul davanzale del pozzo. Fuori, da un muro pendevano a levante dei grandi cipressi: accucciati in terra c'eran dei gueux: la testa avevano avvoltolata dentro cenci strapanati, qualcuno dalle sdruciture dei pantaloni mostrava le rotule delle ginocchia insidrite e screpolate; a qualche altro i piedi diacci, biasciati dalla fanga, gli sbuzzavano fuori delle scarpe: le teste sostenute da colli esili penzolavano giù inerti. Pareva aspettassero l'uncinata che li sprofondasse nella terra. Fratelli in Cristo, vi aspetta la pubblicità della Morgue, quando sui tavoloni di marmo i vostri occhi saranno sprofondati nel teschio e la vostra pelle farà lume e vi colerà dai fori del naso e nessun cristiano avrà detto: È lui! Allora vi porteranno qui in tanti, accatastati uno sull'altro e la pia madre vi accoglierà sotto la sua grande coltre. L'odore acre delle mortelle delle edere dell'erba sanguinella, quel medesimo che penetra nell'ossa fredde e nei teschi svuotati, mi penetrava nel naso e mi facea friggere l'ossa. Gli alberi che fiancheggiavano le strade aprivano le granfie secche sulle facciate delle case color lavagna, qualche lume era acceso, i tetri lumi delle prime ore del pomeriggio, quando da noi risplende il sole e si avvicina pacato al tramonto con le sinfonie delle piovanelle e dei grilli.

Quando scantonai nella Rue de l'Abbé Grouet, mi si parò davanti la gigantesca figura di un uomo, un troglodita, dallo scheletro scardinato in tutte le giunture. Visto di dietro, le scapole avea larghe e pesanti come due lastroni di pietra, i cerchi del costato sembravano le staminare di una chiatta a cui fosse scerpato il fasciame, e la colonna vertebrale la chiglia, le mani aveva sul dosso nere, e gialle sui palmi come una tartaruga, tanto grandi che avrebbe fatto paniccia di un cranio. I pantaloni sdruciti, mostravano una natica nera e squamosa, i tendini risecchiti erano lividi: l'animale aveva le poderose anche di un gorilla, civertate dalla covetta dell'omero, i piedi scalzi, tozzi, callosi, uncinati, i metacarpi erano neri, e la pianta era gialla come le mani. Ebbi per un pezzo l'illusione che il gigante camminasse in puntali. Dietrolasciava il tanfo della bestia mordace. La prima panchina ch'egli trovò vi si gettò sopra di schianto. La fece scricciare e avvincere. L'uomo era stato preso dalla fiataccina, alitava bianco come un bue, dalle frogie nere. La cervice dura, piatta, imbarcava a secco sul cranio; i telai dei denti che avrebbero tritato la ghiaia, i ponti degli zigomi sgallati, il taglio del mento reciso dai mastoidei grossi come canapi, la testa poggiava sul ponte delle clavicole, gli occhi schizzavano sui mucchi di concime che egli vedeva fumare oltre una stecconata, ma le gambe non lo sorreggevano più per portare il suo corpo a intrufolarsi in quella lordura. Doveva essere uno di quei negri che fin che son giovani e gagliardi li tengono nei baracconi sulle piazze, di quegli che gli fanno mangiare le lucertole e i topi, e gli diacciano sulle mani dei lastroni roventi e glieli spengono sulla lingua: quel volto era tutto martirizzato e tutto il pellame aggrinzito come quel d'una serpe. Quel moro infreddolito faceva male al cuore; quella pelle che un tempo doveva avere lo splendore del bronzo, era diventata del color della morca, le labbra, che dovevano avere la meraviglia del corallo, eran due pezzi di carne livida e fredda, il sangue che stagnava nelle fossette dei lacrimali diacciava il bianco degli occhi e stemperava le luminelle. Le mandibole dipanavano la nebbia diaccia sui denti. La gabbia del torace che avrebbe contenuto una pecora, ansimava vuota, sopra il ventre sdutto.

Passai davanti a quella bestia infelice e mi fece paura, mi fissò come un dannato: sentii tutto il terrore del cannibale; se fosse stato in un bosco mi avrebbe staccato la testa con un morso e avrebbe fatto poltiglia delle mie cervella. Ora invece era , tra la gente dalla carne sbiacciuchente, e dal sangue inacquerito, egli che da ragazzo aveva udite le iene, e le sue mani avevano soffocato le serpi, mentre lo frustavano a sangue attorcigliate ai malleoli. La sua gola arsa, sitiva sangue nostrale.

 

 

 

 

 


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