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Era una sera piovigginosa quand'io, dopo aver vagato per Parigi dove mi ero fermato a tutte le porte dei mercanti di quadri sicché pareva andassi all'elemosina, entrai "chez Sagot", un negoziante che abita in Rue Laffitte. Fra tutti i mercanti della strada, Sagot era il più scaltro. Guardando le cartelle dei disegni aveva quell'aria che da noi prendono i chirurghi di fronte alle pustole.
Là ho veduto Zandomeneghi con la granata in mano.
Sagot era un omettino segaligno, con un visettino appennatino il quale se la ghignava all'ombra di un cappelluccio nero, tutto pepe e scatti come un burattino. Il vecchietto arzillo, si divertiva – non altro – a passare qualche ora con i giovani pittori.
La mia cartella era polpa d'acqua, i cartoni si erano qua e là sgallati, Sagot stesso sciolse i legaccioli; per esaminar meglio i miei lavori s'appinzò sul naso le lenti e nell'osservare i fogli sembrò un usciere quando legge la sentenza. Dopo poco il vecchietto friggeva gli occhi e dondolava il capo come quando una lucertola mastica il tabacco. Dopo l'esame dei primi schizzi abbassò la testa verso l'impiantito, le lenti si ribaltarono sul naso ed egli sembrò cercare un moscone che ronzava per la bottega: con questi più che con la voce chiese ausilio ad un giovane nero, cappello a torero, il quale, vanerello di sé stesso, ammirava in una parete dei dipinti che seppi poi essere suoi, ed egli chiamarsi Picasso.
Quei saltimbanchi allupati, quei pagliacci dalla bocca larga e dal naso infiammato, coi loro figli biascicati dai patimenti, quei ventri delle lor madri mareggianti dentro le maglie nere lacca e arancione, la corte delle cagne dalle poppe frolle dondolanti i capezzoli per la terra, degli orsi ammenciti dal vomito verde, delle scimmie con le natiche sbruciacchiate, le piattelle, i tamburi, i cembali, caricati sul carretto insieme ai bimbi di fascia e ai topi d'India, non erano dipinti con la superiore indifferenza del creatore, che adegua le gemme alla lordura, la pestilenza ai fiori, l'albero di Giuda alla croce di Cristo. Ma erano dipinte con il deprecato torbido affettivo.
I segni mai esasperati ed estremi, la pittura mai dominata dalla costante unità di visione; assente il senso di misura, norma incorruttibile della grande arte, quella tenaglia a bande piatte, la poesia che travolge, la scienza che esamina e disciplina.
Venne dopo, il lavorìo del cervello! L'ossatura del Sansone cieco spuntò sotto l'esile corpo di Picasso, la mostruosa mascella d'asino fe' guasto: crollarono tradizione, compostezza, disciplina e i dipinti furon costretti in tavole d'algebra, di ragion dura di calcolo, di calcolo gelido.
L'omettino segaligno fe' il resto.
Il nome di Picasso fu palleggiato, tirato, rimbalzato.
Le gretole delle persiane, i cartocci di fumo, i pentagoni, le mattonelle smaltate, i numeri della tombola, le sezioni coscienti, le scomposizioni liriche, valicaron l'Alpi e andarono di là dal mare.
Il frate cercatore, testa rapata, aspetto sornione di gatto che fa le fusa, ordiva la sua tela nel Boulevard Clichy. In quello studio il matematico si levava da dosso la pelle del passato. Dove si è rivoltolato il ciuco, ci rimane il pelo. Udite! Fui introdotto nell'Areopago. L'uomo era slavato, così almeno lo intravedevo dall'anticamera mentre egli, di là chiariva le sue conclusioni a dei neofiti: chiome stoppose, carne di cera, occhi di vetro:
Un uomo rapato come lui stava nell'anticamera con la dimessa cera di un comprimario: custode, cugino, corniciaio?
Al muro erano appesi dipinti di una sorprendente normalità, teste fatte dal vero impastate col carnicino, lo stil grais, la lacca carminiata, i lustri negli occhi, e tondeggianti come fossero state tirate al tornio, né mancava il colpetto carnoso sulla punta del naso.
«O questa roba?»
«Opere giovanili del Maestro» rispose il comprimario.
«Dove si è rivoltolato il ciuco ci rimane il pelo.» Con questa massima che mi calò nel cranio, fui introdotto nel tempio.
Luce a mezzogiorno, velario bianco sulle vetriate, ampie poltrone; la Venere di Milo di questa singolar setta – un manichino col ventre di cencio, le gambe, la testa e le braccia di legno verniciato color rosa, le giunture di gomma – era sopra a un basamento di castagno; una noce di cocco barbuta con due pezzi di legno santo per occhi, era collocata sulla cimasa di un armadio. – Da ragazzo io svuotavo i cocomeri e, praticando sulla verde sfera due fori e una bocca a sega e accesavi sotto una candela per collocar lo spauracchio ai quadrivii, e spaventar le donne che ritornavano dalla novena, – non sospettavo mai di avere la statura di questo eresiarca.
«Regardez en haut, Messieurs.»
Dei dipinti erano collocati sui cavalletti: un occhio nero concluso in un triangolo torbo, reciso da un foglio accartocciato, in cima al quale un altro triangolo si bilanciava con delle sezioni di stufa, dei numeri, dei solidi e una varata di coni, un violino sezionato, dei pioli, delle corde, il ponticello, erano intarsiati su dei piani monocroni; altrove degli scheggioni d'ardesia, delle parole e dei segni cabalistici, l'interpretazione disinteressata delle forme.
Mentre osservavo questi dipinti avulsi dalla descrittiva, dalla aneddotica, dalla psicologia, pittura né morale, né sentimentale, né pedagogica, né decorativa, pensavo a noi miserabili, speculatori avidi e venali che col frutto della nostra interessata interpretazione delle forme avevamo riempito una calza di napoleoni e rimpiattata poi nel fondo del saccone di sfogli, mentre Lui, il Francescanello dell'arabesco decorativo...
Il confonditore di crisi, lo spauracchio dei filistei, lo sconcertatore, lì in pantofole, pijama e mestichino, mi fissava mentro io scrutavo i suoi quadri.
«Voi non avete una preparazione spirituale per penetrare questi dipinti» mi disse.
«Sì» gli risposi.
Dopo degli anni, ripassai da Parigi: «Sai, Picasso copia Ingres» mi disse un amico.
«Non cercherà mica il pelo che gli cascò dalla groppa quando era giovane?»
Signor disinteressato interprete di forme, se avessi avuto la fortuna vostra di essere della patria di Sancio e di Chisciotte, dopo una capatina a Parigi sarei andato al Campo del Montiello e cibandomi di cacio pecorino, di quel che arsiona la bocca e invoglia alla bevuta, e di cipolle, avrei fatto a piedi tutte le stazioni dell'eroica via Crucis del Cavaliere, dormendo sotto ai larici, in riva ai fiumi e in mezzo alla tenera erba dei prati. A che o incantatore, stare nella città che è luce, tra Apollinaire e Jacob? Perché non a fianco di Galeone e Amadigi, ombre che si cibano disinteressatamente d'aria?
Picasso rivaleggia ora con la pittura dell'età alessandrina.
Muraglione di piombo ricamato di edera nera, aspetto di cimitero, di convento, di meditazione e di pena: Matisse. Varcata la soglia di una porticina che dà su un giardinetto tutto verde e ombra, inargentato di ghiaino, si ode il parlare sommesso degli ospiti, gli eletti. Studio gelido, ambo i sessi assimilati da una tunica grigia uguale, uguali gli occhiali di tartaruga, le capigliature, i volti. Ricordo di Accademia, l'anatomia del Cigoli sostituita dal manichino: braccia e testa di legno, ventre di cuoio. I disegni degli alunni tutti uguali. Il precettore, camice bianco, fluente barba di rame, carnagione linda rosea, occhiali a stanghetta, capelli a spazzola, scruta. Lo sguardo filtrato dagli occhiali illumina i volti dei pazienti. Riportai dalla visita questa strana impressione peschereccia: gli alunni mi sembrarono una motta di pesci sciortoni ai passaggi della primavera, sguscianti intorno all'esca del manichino, e lui un pescator di tramagli.
Salita ripida de la Rue Lepique, sulla porta color tabacco inciso in ottone, Leandre. La casa sembra quella di un esploratore de' tropici, balestre, pelli incartapecorite, velli fulvi, freccie, lance, spade. Egli mi venne incontro grave, portando pari pari la sua rotonda adipe. Sulla spalla aveva una scimmietta seduta, con una coda lunga come un ricciolo di ringhiera, essa strilla a tutti gli ospiti, fischia, digruma, rifrange; quand'egli mi tese la mano grassoccia la scimmia saltò in terra, prese dei pezzetti di fusain, li frantumò coi denti, tracciò dei segni sul pavimento simili a quelli dei ragazzi prodigiosi.
«Ça, c'est rigolo, amusant» poi apre la cartella dei miei disegni, mi osserva attento e con lunga meditazione ripete «ça c'est rigolo, amusant». Dopo mi fece osservare la collezione dei suoi, stampati sul Rire. Io mi sforzai di ripetere le sue parole: «ça c'est rigolo, amusant».
Il giardino del Lussemburgo tra cespugli, aiole erbose, varietà di alberi annosi che annodano nel cielo i rami, al cui rezzo son statue di marmo verdi di muschio, ospita, nasconde, incita, coppie di innamorati, ed uomini che si riducono lì per le ultime meditazioni prima di gettarsi a capofitto nella Senna. Il Museo è nel fondo dell'immenso giardino. Un giorno io correvo ansioso pei vialetti, sgretolando il ghiaino con le scarpe pesanti. Il Museo del Lussemburgo per quel che ne avevo sentito dire, occupava una discreta area nel cielo della mia fantasia. L'edificio lo vedevo alto, a cinque, a sei, a sette piani. Ha invece la discreta dimensione di una serie di camere d'incenerimento: dense edere verdi lo ricoprono fino al tetto e risgrondano dalle canale sui basamenti di un ordine di statue fuse nel bronzo. Quando mi si parò davanti questa massiccia tettoia, dubitai d'esser davanti al celebre Museo. Chiesi schiarimenti a una guardia; bisognava sentire come egli si crogiolò su per la gola il nome del Museo.
«Mais oui, mais oui, mais oui.»
Un cieco venditore di legaccioli da scarpe era poggiato sulla schiena d'un albero, chinando il capo sul petto tendeva un braccio magro in avanti e di sul palmo vizzito della mano porgeva in becchime agli uccelli delle briciole di pane. Gli uccelli zirlando gli roteavano intorno voraci e gli beccottavano quella grazia di Dio: il meschino aveva del santo Francesco che fosse uscito di sotto una chiavica. Quando il poveretto si sentiva i beccotti sulla pelle traeva dalla tasca ancora del cibo e coll'altra mano lo seminava sul palmo vuoto. Gli uccelli a stormi gli ciciurlavano negli orecchi.
Davanti alla porta di ingresso del Museo c'è un cortile recinto d'una cancellata ove son basate parecchie sculture. Non si sa se fu con pretesa simbolica che un grosso cane da pastori, nel tempo, fu collocato proprio di fianco al cancello e sembra uggiolare a quanti varcano la soglia.
Due figure di freddolosi uggiscono sotto la tettoia in cantonata e sembra che implorino d'esser riparati nel tiepido salone centrale. Di fianco, un colossale gruppo funerario conferisce al luogo il solito aspetto di cimitero. Il salone centrale, sia detto senza irriverenza agli italiani che soffrono di mal francese, a me sempliciotto com'ero, ma che tuttavia avevo già visto in Italia terra scoperta, mi fece l'effetto della Casa di Gaghe.
Nella galleria delle sculture mi colpì subito un turco audace, un ribaldo in turbante il quale trae o rinsacca nella vagina una scimitarra e il Génie gardant le sécret du tombeau par Saint Marceaux, il quale stringe al seno una coppa di lacrime, e una Tanagra di Gérome. Il pezzo forte Rodin spara qui con tutti i calibri del suo parco d'assedio, dal Bacio piazzato sulle ciantelle, al 75 leggero: la Vecchia, ai tonitruanti mortai: Rochefort e Victor Hugo. Una patina verde veronese che ossida il bronzo lo indolcisce e lo adegua alla carta pesta patinata. Il marmo non è fulminato dalle scalpellature che lasciano l'impronta del lacerante martirio, ma è levigato tornito pulimentato, ci sono gli occhi perfino traforati col violino, assai noto ai nostri scalpellini.
Un'inquieta ombra si aggira nella collezione Rodin, turbina al di fuori; è il Gigante che gli ripugna amalgamarsi al groviglio nodoso delle muscolazioni sgallate e all'ingrugnature barbariche che rinceppano i volti rodiniani.
Le articolazioni dilogate, le tenaglie delle mani che s'affondano grevi nelle carni, i piè roncoliti e i piatti, i gesti pesanti, l'andatura greve della gente del Nord conturbano la mostruosa Ombra.
La materia stessa non vulnerata dallo scalpello, come una scorza sulle membra compiute, in Michelangelo s'accende ella stessa delle irradiazioni potenti del suo spirito eroico. Gli austeri cipigli velati d'ombra, la contenuta baldanza che fiorisce sulle labbra del Bruto, i gesti vendicativi delle cariatidi qui si liquefanno su una superficie agitata di statue che non hanno la base del "precedente". La calda impronta di una fanciulla di Medardo Rosso portava in questa sala mortuaria un palpito di vita. Pensavo, in questa sala, alle composte statue serene sparse nei cimiteri o sulle discrete piazze di casa nostra, al Canova e al Bartolini, al Vela, al Grandi e al Duprè.
Girando a destra s'entra nell'angusta sala degli Impressionisti dove è raccolta la pittura antieroica degli ultimi anni del secolo scorso. Sapevo che dato il concetto informatore dell'impressionismo, solidamente materialistico, nelle loro tele il senso dello stile era negletto, ma non pensavo che si fosse così isolato il cuore dal cervello. La compiuta opera d'arte è irragionevole interpretazione della natura, scevra di scientifiche speculazioni e di logica pura.
La luce amalgama e subordina i toni nella sua irradiazione sì che ferendo i corpi ne sfalda la concretezza e la solidità architettonica. L'arabesco policromo può dare piacevoli sensazioni anche se non mosso da un concetto formale, ma la grande arte, quella in cui spira un'aura di immortalità è rampollata dalle anime calde e gagliarde e non colata mai dal setaccio delle cervella gelate dalla logica.
Pertanto coloro che bevvero di quest'acqua, oggi sono ritornati col filo a piombo a reticolare le statue.
Dirimpetto c'è una saletta riservata ai pittori stranieri. Con la prudenza che distingue i dirigenti del Ministero delle Belle arti, questo bugigattolo che dovrebbe contenere tutto l'assaggio di ciò che si opera oltre i confini della Francia, l'Italia, l'Italia del Fontanesi, del Faruffini, di Toma, del Segantini, di Fattori, di Ranzoni, del Sernesi, di Signorini e di Previati, è lì rappresentata da un quadretto del Chialiva: "Anitre starnazzanti in uno stagno".
Passando tra mezzo ai busti di Victor Hugo e Rochefort, messi a guisa di cariatidi ai pilastri d'una porta, s'entra in una sala di pittura in cui sono a concilio i nomi più correnti: Ribot, una specie di Ribera affumicato, Detaille con il grande quadro "Il sogno", una stenderia di soldati addormentati sotto l'aculeo delle bajonette affascettate sui quali passa in alto tra uno sciamar di nuvole a pecorelle, la "Victoire": il quadro più austero è quello di Puvis de Chavannes: "Le pauvre pecheur"; questo contegnoso artista si è ispirato ai primitivi italiani anche nelle opere di più ragguardevoli dimensioni come i dipinti che decorano il Pantheon, ma essi sono più rilassati di questo quadro in cui non si schiarisce bene la linea che divide l'ingenuità, virtù leonina, dalla povertà. Le figure smilze non sagomate né arse dalla passione, si mortificano nella maestà della natura, i rosa anemici i bleu scialiti i grigi perla fanno sovente tirare dei lunghi sospiri a delle donne allampanate con il marchio della divorante intellettualità stampato sulla fronte: Vous savez, là dedans je me sens a mon aise.
Più oltre, i quadri di Carrière: il sentimento materno avvoltolato in una bambagia di penombra che lo colloca tra la veglia e il sonno, poi, un ritratto fatto a Verlaine, il quale mi colpì per la inverosimile somiglianza col nostro fratello Ceccardo.
Quante volte mi son sentito domandare dalle belle:
«No.»
«Oh la la, non conoscete Verlaine?»
«No. »
E allora in tono minore come una romanza lene cantata a fior di labbra, quante volte mi è stato intonato
de l'automne...
In tutti i Musei quando si è visto sei, sette, otto sale, le altre si filan via quasi di corsa; così mi accadde anche al Lussemburgo. Uscendo rifeci il salone della scultura, il cortile, il giardino, ma la cosa più emozionante e più bella e più poetica rimase il venditore di stringhe cieco, quella fantastica statua di cera plasmata dal dolore dal patimento e dalla rassegnazione. Egli era ancora addossato al tronco, gli uccelli s'erano invece alzati verso le rame degli alberi e fischiavano più vicini al cielo, ma lui tendeva ancora la mano sulla quale fiorivano delle briciole di pane.
Quando da giovinetto leggevo Victor Hugo, il più che mi commoveva era Notre Dame de Paris. Quei periodi suonanti come una salva di batterie, di cui si può udire il colpo di partenza e quello di arrivo mi rimbombavano sempre negli orecchi.
"Il libro e la cattedrale: questo – colpo di partenza – vincerà quella" – colpo d'arrivo.
"Lacchè – mi disse –: il lacchè era lui."
"Da quest'uovo uscirà una barbarie, da quest'altro una umanità."
"Qui Cartagine, là Gerusalemme."
"Cartagine emerge dal monte, Gerusalemme dal mare."
Quasimodo dall'occhio di ciclope sordo come un ciocco, dalle membra nodose, l'arcidiacono spettrale bianco e nero ed Esmeralda dai capelli color di gaggia e dagli occhi celesti come il mare si riaffacciavano dalla caligine della memoria quando vidi per la prima volta la nera mole turrita. La Senna intorbata dagli spurghi della città scorre lenta come un fiume di pece, i rullii dei veicoli sopra i ponti s'attuffano nel fiume. La Morgue appiattita come una bodda cucciara dietro l'abside della cattedrale, aspetta a bocca aperta. Il selciato della piazza è come una enorme pozza di piombo fuso che allaga la spianata, la statua di Carlo V sul cavallo di bronzo par che contempli impassibile l'alzarsi di questa lava. Il livello della piazza rialzato dai ribollimenti dei secoli ha divorato i gradini della cattedrale, e par che la mole sarà un giorno inghiottita. Le torri, i portali sovraccarichi di mostri urlanti e il pinnacolo centrale che si eleva come un albero maestro danno alla cattedrale l'aspetto di un vascello in perdizione.
Nell'interno le colonne gravate dal peso della vôlta sprofondano nell'impiantito, la luce filtrata dai finestroni appannati si espande fra i colonnati come la nebbia nell'intrigo di una foresta. Un organo riempie il tempio d'armonie e di tetraggine. Appena dentro, mi sentii incombere sul mio spirito il gravame delle mura e mi sentii il corpo addiacciato e il cervello frizzare per l'odore misto d'incenso e di tabacco.
Salii le scale a trivella di una delle torri laterali e dopo aver molinato un quarto d'ora come un moscone caduto dentro una bottiglia, potei uscire da quel tire-bouchon di pietra e spaziare il mio sguardo dilatato sopra Parigi. La bolgia mandava il rotolìo d'un temporale ne' mari del norde, un caligo cenere e pece avvolgeva la città, l'isola era come una gran nave affondata nella melma e naufragata a fior d'acqua in mezzo alla Senna. Le ciminiere nere, le picche, l'aste, l'intelaiature di piombo congegnate ad antenne incatramate, tetti coperti di lastroni di lavagna davano l'idea di clipei, d'aste, alzate da un esercito che desse l'arrembaggio alla città alta; su quel grande strepito come di sopra al mare in tempesta il Louvre, il Trocadero, il Pantheon, l'Arc de Triomphe, la Borsa, il Palazzo di Giustizia, il pennone di San Dionigi e San Germano, avevano l'aspetto di navi pirate che a lumi spenti puntassero verso il faro del Sacro Cuore. Gattonai il tetto per contemplare la città da tutte le parti: tetti, muraglie, torri, prigioni, chiese, case avvolte in una fumacea lampeggiante di giallo e un tremendo muglìo d'oceano. Su quel grigiore la Senna lenta come un filo di corrente nel mare, colava nella piana di Parigi.
La notte di Natale mentre per le vie di Parigi faceva guasto il réveillon con lazzi, urli e finzioni, una specie di carnevale inscenato per festeggiare la nascita di Gesù, io partivo per il Belgio. Mi sovveniva con tristezza quando da ragazzo tormentavo mia madre perché in quella notte memorabile mi portasse alla messa a veder nascere Gesù Bambino. L'abbaglio dei ceri accesi sull'altar maggiore e la nenia della pastorella intonata dall'organo:
con tanta povertà,
Questo canto lene intonato da tutti i fedeli mi profondava nel sonno a mani accoppiate. Mi destava mia madre di soprassalto: «Svégliati; è nato il Padrone del mondo».
Passato a Mons il confine, la neve ammorbidiva il paese, gli alberi n'erano fioriti, le case coperte di quel candore distruggevano il colorito del paesaggio. Tutto era bianco e nero, soltanto dalle cappe dei camini uscivano delle faville d'oro che subito diventavano cenere celeste. Anche i molini a vento le cui pale mosse si agitavano come vele illuminate. La gente doveva essere al focolare, raccolta intorno al ceppo odoroso e crepitante. In tutte le stazioni c'era delle famigliette che attendevano i loro congiunti: grande cuffia, figaro e gonnelle larghe le donne, pantaloni larghi, zoccoli gli uomini; proprio come si veggono ricamati a punto in croce nei tappeti dei salotti buoni. Giunsi a Bruxelles la mattina che saranno state le dieci, ma sembrava notte. La neve intorbata, molinata da un vento gelato toglieva il fiato. Le campane di tutte le chiese suonavano dei doppi larghi che schiarivano l'anima, note d'argento salenti in alto a cercare l'azzurro sterminato del cielo. Giunsi alla Rue Haute dove abitava Cesare, il figlio del mio maestro di scuola. Salii le scale, bussai alla porta, rispose egli concitato.
«Sono io» gli dissi.
«Lorenzo» mi riconobbe alla voce.
Egli era allungato smisuratamente, lassù alta, la faccia che un tempo era bianca come lo sparmaceto, si era incuoiata e una barba spelazzata gli allungava il viso; gli occhi erano inalterati. Ci eravamo lasciati a’ tempi ch'egli sul mare mi cantava a suo modo il poema della Comune ed io l'ascoltavo trasecolato. Il volto allora gli si coloriva di rosa quando mi diceva: «Parigi è la nostra città». Ci sedemmo a una stufa, e di là in camera udivo sua moglie che carezzava un bimbo. Cesare volle essere ragguagliato sulla vita che conducevo a Parigi. Con altro tono io gli parlai del tragico muro dei Federati; m'interruppi per trarre da un portafoglio sdrucito alcuni fioretti rossi che avevo strappato da una corona.
«È stato colto dove fu inchiodato a schioppetate Aristarco, ricordi? »
«Ricordo.»
«È un muro lungo quanto il muro che rasenta la nostra pineta, coperto di corone, di nastri, di fiori, al di là dal quale si vede Parigi tumultuaria ed ardente diventata di cielo.» Gli narrai che avevo veduto il colonnello della Comune: Amilcare Cipriani.
«Narra, narra, narra.» A Cesare gli era rifiorita l'anima del fanciullo e pareva che ascoltasse ancora il battito della maretta che frangesse le mie parole.
«L'ho veduto alla redazione della Humanité. Un enorme casone squallido dove sono le redazioni di più giornali. Un muglìo come di terremoto vien su dai sotterranei rintronando i cortili: quando passai di sopra a certe graticole stese su dei pozzi fondi m'avvamparono le vampate della benzina, degli inchiostri, dell'antimonio; i cortili sono ingombri di mostruosi rotoli di carta.»
«Narra.»
«Cipriani era all'ultimo piano come un falco in gabbia. Una stanza nuda come una cella arredata di una sedia e di un tavolo: aveva ancora il cappello di Domokos largo e nero, la chioma grigia scendeva giù a ciocche partite sulle spalle come penne maestre, la fronte larga, ossea, rugosa, potente e audace tagliava due terribili occhi neri, il viso arso dominato dai ponti degli zigomi; tra la barba steccosa s'intravvedeva il taglio reciso della bocca, il corpo arso della carne era intabarrato in un cappotto di casentino color rame, forme e colori ricordavano il leone. Quand'io entrai egli scriveva, poggiava le mani scarnite sopra un foglio. Quando si voltò verso di me la carnagione olivastra fece una macchia sulla parete e ci risaltarono gli occhi smaltati di bianco.»
«Narra.»
«"In che cosa vi posso essere utile?" mi chiese secco.
«"In niente". Egli chinò il capo sul foglio ed io dopo essermelo stampato bene nella mente mi precipitai giù per le scale.»
Nel tempo cui narravo, Cesare attizzava il fuoco. Quand'ebbi terminato, egli aveva ammannito una ciotola di caffè, ne bevemmo un po' per uno.
«Quante illusioni son cadute!» disse allungandosi verso il soffitto.
«Le cose da vicino mutano aspetto» dissi io.
«Cosa vuoi, è la maledettissima vita.»
«Queste cose si capiscono soltanto ora: magari vecchio ma io ritorno là» e accennò verso l'Italia; «cosa vuoi, quello è proprio il nostro paese, qui la gente ha un altro sangue. Allora» riprese fiero «ora ti farò vedere Bruxelles. Calzati bene e usciamo.»
Nel frattempo la moglie era sopraggiunta con in braccio un bimbo.
«Son questi» disse Cesare carezzando il figlio. «Usciamo.»
Lui indossò un cappotto color terra che lo allungava ancora di più e si pose in capo un cappello duro. Io ero vestito di una rendigote nera foderata di raso, che sembrava un serbatoio del freddo. Avevo in testa un cappello verde come una foglia d'ontano, sul petto di celluloide ci strideva il nevischio come sopra il vetro d'una finestra. Quando uscimmo sulla strada i nostri abiti furono molinati dal vento e dentro quei panni ci sentimmo marmare. Era il giorno di Natale, le vie erano deserte, la gente se ne stava tranquilla intorno ai tavoli bene inzavorrati di vivande e di birra. Per le strade c'erano soltanto quelli nel cui canto del fuoco c'era appisolato il gatto tra la cenere diaccia. Mi portò al Museo Wierz: il pittore dei colossi, mi chiariva Cesare. Al tepore delle sale riscaldate, il cervello si spollinò. La prima cosa che volle mostrarmi fu la saletta dove dentro un armadio aperto, sul quale era imbullettata una reticella, eran conservati gli indumenti che Wierz indossava durante il lavoro. In basso era custodita la tavolozza larga come un cuore innamorato, tutta imbarcata, i colori vi eran seccati sopra, bianco, giallo, rosso, celeste, terra gialla, rossa bruciata, la teoria dei cobalti, dei bleu, il nero; un mazzo di pennelli era là in un canto insieme a un bastoncino di bambù tamponato in cima come la vetta di un pero innestato. Non so perché, quella roba mi dette un senso macabro, mi sembrò la pelle di Wierz attaccata a un gancio.
Tutta la sua arte è un intruglio d'orrido ripugnante: degli spauracchi imbottiti spalmati di colori acidi; un Napoleone all'inferno lapidato con teste, braccia, tibie, tronconi mi dette la sensazione che non lungi da questo paese sotto il diaccio era appiattata la bestia del Nord. L'incorniciature rozze e stravaganti appesantivano la pittura; da una finta porta incastrata nel muro, per il buco della chiave si vedeva un quadro in cui una pazza bolliva delle membra umane; di dietro a una persiana vera, occhieggiava una portinaia maliziosa e scaltrita, un orrore: una cassa da morto su cui erano aggranfiati dei ragazzi spingeva fuori dalla sala.
Correndo, mi portò verso il giardino per farmi vedere le "Passioni umane" di Jef Lambeau, un gruppo di gigantesche dimensioni per il quale erano nate polemiche temporaliste, tanto che il Governo lo aveva recinto di una stecconata fitta. Quel giorno ci fu facile svelgere una tavola e, in solitudine s'ammirò il lavoro, una sarabanda di nudi, dei petti turgidi, delle anche tornite, dei ventri flussuosi, molta carne e poca passione.
Di lì traverso vialoni bianchi fiancheggiati d'alberi sulle cui rame fischiavano branchi d'uccelli mi portò davanti al "Cavallo che beve" di Menièr; cavallo e cavaliere avevano addosso una tale soma di neve che sembravano ancora da sformare.
Portati dal freddo, dal vento e dal desiderio di vedere ogni cosa, giungemmo al Museo Nazionale. Tutta l'opera di Costantino Menièr è ivi esposta, dai primi disegni di minatori, ai grandi basso-rilievi di granito che dovevano essere posti al monumento di Zola. Qua e là erano sparsi dei dipinti monocromi.
La terra lavata dal sangue, purificata dall'incendio! Ma Suvarine costretto, con il dosso della mano dritta al fianco e la mancina inerte alla rotula, in estatica contemplazione, mi fece rimanere perplesso sull'opera di questo gigante.
Cesare era diventato un pozzo di sapienza, il temperamento del solfo che aveva sortito dalla sua progenie lì tra quella gente pacata e tenace, s'era temprato. A repentaglio con la vita molte foglie eran cadute dai rami delle sue illusioni, così brucato s'era sprofondato negli studi. Il sapere lo aveva secchito, una voragine di nomi e di date me lo fecero sembrare un albero divelto sollevato da un uragano e riconfitto in terra con la fronda, e le radici aggrumate di terriccio rivolte al cielo. Anch'io mi sentivo in quei giorni sbarbicato dalla terra, ero anch'io sollevato da un temporale, ma tenevo ancora la fronda alta sempre rivolta al cielo. Il temporale mi riportò verso la via di Parigi.