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L'implacabile cisternone m'aspettava a porta spalancata. Aprii l'uscio del mio studio: sull'impiantito c'erano tre o quattro lettere che presi e senza aprirle le posai sopra il tavolo. Il vuoto dello studio senza il mio alito si era freddato anche di più, sembrava di essere in fondo a un pozzo. La notte infatti mi sognai una cosa strana che mi era capitata da ragazzo: un ubriaco, il quale teneva più al suo gatto che ai suoi occhi, perché io glielo avevo percosso, mi prese a mezza vita e mi tirò nel pozzo del suo orto. Nell'impeto egli fece la mezza e precipitò dietro di me; fu la mia salvazione, ché l'acqua me mi avrebbe ricoperto e a lui invece arrivava soltanto all'altezza delle clavicole. Mi prese in collo e cominciammo a urlare come anime perse, il pozzo sembrava di bronzo tanto le acque e le voci erano sonore. Il limo verde metteva raccapriccio a toccarlo, il cielo lo si vedeva come di dentro al tubo di un cannocchiale, un disco luminoso lontano lontano; le prime persone che si affacciarono sull'orlo viste di giù sembravano uccelli. Ci calarono un canapo, l'ubriaco mi legò con esso e fui tratto sopra, poi il canapo fu ricalato ed egli si dette volta sotto le ascelle; ricordo che a tirar la fune c'era una ventina di donne e qualche vecchio, e ogni tanto stanchi, legavano il canapo al calcio di un fico; finalmente tira tira, apparve l'uomo intriso di limo verde, svergazzato dal freddo, impolpato d'acqua come un rospo colossale. Quand'egli si poté aggranfiare all'orlo del pozzo si tirò su da sé, rotolò tremante sulla terra e fu preso da convulsioni.
Per tutta la notte ebbi la sensazione d'essere precipitato in un pozzo. Quando mi destai mi pareva di essere tutto fradicio e dell'acqua dolce mi sciambrottava in bocca.
Cominciai seriamente a pensare alla morte; non potevo più appisolarmi senza vedere dannati che con le braccia smagrite levate al cielo domandavano il perdono di Dio. Avvallare scheletri tristi, lordi d'ogni sozzura, ardenti di sete come il cane rabbioso, dilaniarsi con l'ugne avvelenate. Gente con gli occhi bruciati e le bocche aggrumate di salive sozze.
Quando mi destavo mi sedevo sull'ottomana come un anacoreta, mi guardavo le gambe smagrite e i piedi intirizziti che non avrebbero potuto più fare il lungo viaggio di Marsiglia, dove avrei potuto trovare da imbarcarmi sopra un bastimento del mio paese. Questo pensiero soltanto, grandi vele bianche aperte sulla distesa celeste del mare, il sartiame, l'antenne e la pece mi rianimava e, benché le muscolazioni fossero indolenzite e rotte uscivo per il quartiere, salendo le scarpate delle fortificazioni perché la contemplazione della pianura mi dava la sensazione del mare. Terribili sere, quando siamo vuoti e un tocco di campana rintrona nella nostra testa e tutto il corpo sembra sonoro, i fischi degli uccelli e gli uccelli medesimi con lieve fruscìo d'ali par che entrino dal foro di un orecchio e riescano dall'altro sciamando, quando i capelli sembrano erba verde alitata dal vento e i battiti del cuore, le fitte martellate di un fabbro sopra un'incudine di acciaio, quando siamo più del mondo di là che di qua e l'amicizie sono vaghi ricordi color di terra, i parenti favole, il padre e la madre nebbie dipanate dai secoli; quando il cielo fa celeste il sangue medesimo.
Riscosso dalla tetraggine delle campane vere, mi alzavo col sangue pesante; slegato ritornavo verso l'orrido casone, divoravo con gli occhi le vivande ammannite nelle vetrine, mi ristoravo con l'alito del brodo che esalava dalle graticole aperte sui marciapiedi davanti alle trattorie. Questo soave profumo sembrava avere anche il volume del pasto e dilatare lo stomaco vuoto; rincasando, il sacco si svuotava come un otre forato. Allora il troncone aggobbiva e gli arti inferiori sentivano il peso di questa cosa morta e lo avrebbero volentieri scaricato insieme alla testa in un mucchio di lordura. Quelle ore in cui il cervello perde la padronanza sull'articolazione e le gambe vanno una di qua e una di là, il torso si sciverta e la testa dondola. E ci risvegliamo sdraiati sopra un marciapiede con una guardia al fianco che ci chiede il nostro nome.
Finalmente arrivò la primavera, là verso la fin di marzo. Sulle boscaglie di Clamart il cielo si tinse di viola, nuvole bianche, vele tombate dal vento filavano sopra i lecci neri. La cruda terra rorida di guazza divenne vermiglia e celeste; rasa dal sole mostrava una peluria verde sui solchi rotti dal vomero, qualche fiore giallo e celeste consolò l'arida sterpaia. Quando i contadini erpicavano sulle scassate sollevavano ribollimenti di terra rossa, il gagliardo sangue della madre rampollava dalle fenditure, gli alberi ossidati accesero fiammelle verdi come giganteschi candelabri.
Quello scheletraccio di ferro battuto che sporgeva le rame stecchite al finestrone del mio studio e che quando era mulinato dal sinibbio percoteva i cristalli con le dita secche, alle prime lusinghe della primavera messe delle gemme che poi esplosero fogliette di tenero verde. Solo allora mi accorsi che era un pioppo, un tenero pioppo italico di quelli che processionano lungo i nostri fiumi e dialogano col fremito delle foglie con l'acqua franta e rifranta sul greto. Le foglie buttaron su tutti i rami, si aprirono come farfalle e invasero la finestra e vi cantavano notte e giorno. Le rondini e i passerotti le trapuntavano di strilli argentei.
Le fumate bianche della terra spandevano il profumo della germinazione sopra la città morta. Presi il randello del pellegrino, un boccon di pane e mi detti al bosco, assetato d'aria. Il vorace desiderio di terra rotta, franta, capovolta, mi prese così forte che per molti giorni non voltai mai la testa verso Parigi. Passavo intiere giornate passeggiando e dormendo al rezzo dei boschi, pensai ai santi, ai penitenti e lì mi venne pensiero di voler vivere d'acque e d'erbe e pensai di andarmi a stare in un bosco e cominciai a dire da me medesimo: "Che farai tu in un bosco? che mangerai tu?" rispondevo così da me a me parafrasando un italico santo: "Bene sta: io mangerò dell'erba quando avrò fame, e quando io avrò sete berrò dell'acqua". Ritornare in Parigi, mi sembrava un sacrilegio. I faggi, i lecci, gli ontani, l'edera abbarbicata dal calcio ai cimelli, e le fogliette pitturate di cielo davano purificazione al mio cuore; in terra tra la soffice borraccina verde, le felci si piegavano tenerelle sul regamo, la salvestrella s'attortigliava alla nepitella ruvida, cespugli di rombice, salvia e trifoglio, s'annodavano ai piè degli alberi. Da tutto veniva un odore che rendeva dolce il pane. Rospi verdi, gialli, rilucenti, godevano il fresco azzurro sotto le prunaie. Gli uccelli ciciurlavano da per tutto. Come era dolce e fresca quell'acqua bevuta a giomellate, chinone sopra uno stagno terso nel cui fondo si vedevano le foglie secche e fresche, quell'acqua che sa di cielo e di scorza d'albero. Passeggiavo estasiato sotto le ontanete fitte e il mio passo si spengeva tra il fogliame denso; lontano, una famiglia di querce era tagliata da una spera di sole. Apparve l'uomo, il creatore di città e di imperi. Un campione della specie industriosa, era lì senza camicia col suo scheletro coperto di carne. La schiena ruvida mostrava le suture del costato, le pelli si afflosciavano gialle sulla cresta del bacino, dai denti delle vertebre si sarebbe preso un misero penitente; sopra la nuca monda come un mazzuolo ci aveva a sghimbescio un cappello sodo, i pantaloni se li era sgusciati fin sotto le rotule delle ginocchia, le coscie secche aveva accapponite. Dal fondo delle brache i piedi magri e gialli spuntavano induriti dall'unghie: egli scivertando le braccia indietro si sdruciava la pelle con l'ugne adunche, ma non potendosi erpicare lungo il fil delle reni si alzò carponi e andò a tasto al calcio scabro d'una quercia e cominciò a sfregarsi la schiena e a dibisciarsi. Il sangue gli colava giù e lo beveva la terra.
Mi cominciai a impressionare della Morte. Quando siamo stati sdraiati sulla pietra, l'ossa prendono il gelo e la pesantezza della pietra. Chinai il collo come il bove al giogo: nel Faubourg Saint-Denis abitava un editore di musica il quale aspettava al varco gli sventurati. Commetteva egli delle copertine di partiture di musica e le pagava lire tre. Consegnava un pietrone da litografare della pesantezza di venticinque chili sul quale gli si doveva disegnare a matita le figure e le parole. Mi presentai a lui, mi fece aspettare un'ora, ritto. Egli scriveva, poi alzò il capo e mi osservò tutto senza muoversi dal bureau. Dopo avermi lungamente scrutato si alzò e mi fe' cenno di seguirlo: entrammo in una stanza umida dove c'erano delle stive di pietre come da noi nel dietro stanza di uno scalpellino; mi accennò di sollevarne una. La presi, la soppesai e gobboni la portai fuori. L'uomo prima di consegnarmela volle ch'io declinassi il mio nome, cognome e indirizzo. Quando sentì che abitavo alla Ruche risté un po' dall'appuntare, sospirò e dopo disse dubitoso: «Prendete pure».
Mi caricai il piastrone sulle spalle e ritornai a piedi verso casa: dovetti attraversare tutto Parigi. Ogni chilometro il pietrame aumentava di peso e quando fui a cinquecento metri della Ruche mi spiombava le spalle; quella pietra mi pareva che pesasse quanto uno scheggione. Feci traballando le scale, aprii la porta, la scaricai nello studio e sudato fradicio mi buttai sull'ottomana e piansi per la prima volta: sulle spalle mi sembrava d'averci sempre il pietrone e mi schiacciava e non potevo levarmi più il suo peso da dosso. Disperato m'addormentai.
Facendo penitenze e digiuni, in un mese riuscii ad appicciare il viaggio.
Il pioppo davanti al finestrone del mio studio aveva buttato tante foglie che non si vedeva più un tondino di cielo, un'ombra soave dipingeva di verde la rovina del mio studio. Io avevo un vestito di rigatino del colore e dello spessore della scorza d'ontano; me lo sentivo freddo sulla carne in amore.
La primavera con ondate di nuvole bianche e rosee veleggiava nel cielo, un albore d'estate ardeva sulle boscaglie di Clamart. Sentivo già il profumo denso e dinervante che esalava dal viale dei tigli il quale partendosi davanti alla casa di mia madre si infociava nella pineta, e quello delle acacie fiorite di cielo.
I denari del viaggio mi fecero come l'olio nel lume. Dovevo essere ringiovanito di vent'anni quando bussai alla porta di Matteo Ruiz d'Alégria. Egli era seduto sopra la sua ottomana; una statua di creta avvoltolata con stracci d'ombrello neri fradici aveva preso l'aspetto di una vecchia mendica, un colletto di celluloide con il quale egli si presentava a domandar del lavoro, era appeso al muro: sotto, a piombo, le scarpe lucide e sulla spalliera di una sedia il tait e i pantaloncini ammenciti e sopra, il cappello. Matteo stava lì, vestito di una giubbetta sfoderata dalle maniche corte che gli allungavano le mani gialle e scarne ed era in mutande, scalzo e in pianelle. L'invernata l'aveva ridotto uno scheletro, la fame gli aveva scavato gli occhi dalle orbite e i denti di bocca. Sul tavolinetto ci aveva due cipolle che lo guardavano come gli occhi di una civetta e più in là un secchiello colmo d'acqua.
«Dio cibola» mi disse con parole fradicie d'acqua.
Mi accostai a lui, mi sedetti al suo fianco; abbracciai il costato secco e le scapole smagrite: sentendo questa tenerezza egli mi guardò stupito coi denti bianchi e con gli occhi verdi e neri. Esitai un po', lo fissai dolcemente, mi tremavano le labbra e le parole mi si diacciavano in bocca, finalmente gli sussurrai in un orecchio: «Parto».
Trasalì; «Quando?».
«Ora.»
Mi squadrò da capo a piedi: «Così?».
«Sì.»
Chinò il capo tra le mani e dei singhiozzi gli scassarono il torace. Risalii nel mio studio, rotolai i disegni che portai a nascondere dietro un albero della sterpaia insieme alla cassetta dei colori, un fagotto lo feci calare al di là del muro, sulla strada.
Mentre con un pezzo di giacchetta mi pulivo le scarpe, entrò Matteo vestito e guardò avido il mio letto.
«Riprendo tutto io.»
«Se vuoi.»
Scrutammo guardinghi dalla finestra: la concierge svituperava con altre donne nel vicinato. Pigliammo l'ottomana, la calammo giù dalle scale e la infilammo nello studio di Matteo. Si ritornò su svelti svelti come ladri: io feci una bracciata dei lenzuoli e Matteo dei guanciali; una seminata di penne rimaste su tutti i gradini delle scale. Mentre Matteo rassettava la mia roba nel suo studio io risalii le scale; mi ero dimenticato del palloncino alla veneziana, lo staccai e ritornai da Matteo: «Ecco,» gli dissi «attaccalo, ti porterà fortuna». Mettemmo due sedie una sull'altra ed io stesso vi salii sopra e appesi il filo a un travicello. Poi uscimmo, e l'atelier A, il mio, mi sembrò avesse la porta di cielo: preso da una vertigine rifeci una diecina di scalini. Mi sembrava di essere rimasto chiuso dentro lo studio.
«Ti sei dimenticato qualcosa?» disse Matteo.
«No» gli consegnai la chiave del mio atelier e gli dissi: «Stanotte apri e lascia aperto».
Man mano che il treno correva verso il verde della pianura, Parigi diventava celeste, quel pietrame ammonticchiato perdeva la solidità con la quale aveva gravato per tanto tempo sulla mia carne, sulle mie ossa, sull'anima mia. L'immane ergastolo era tutto azzurro e dilagava da ogni parte diventando una città di nebbia. A un tratto sparì, dopo un declivio erboso. Mi sdraiai sulla panca, la città mi rintuonava ancora nel capo; pareva ce la ribadissero i colpi pesanti del treno. Passai così intormentito buona parte della Francia.
Le giogaie della Svizzera ripulite dalle aure fresche, spiccavano bianche sul cielo, il nero delle selve più basso e il verde acre delle prata su cui pascolavano le mucche bianche maculate di terra gialla e i fiumicelli, lavacri d'indaco col loro chioccolio invogliavano le bestie a bere. Le case bianche coi tetti acuti attingevano il cielo terso, i laghi espandevano una pace di paradiso, il mondo sembrava purificato. La gente che osservava il treno, con quei cappelli a pan di zucchero grigi e la piuma verde su quelle facce color latte e sangue, dagli occhi celesti, soffondevano del loro chiarore il lutulento Parigi. Con questa beatitudine mi addormentai un'altra volta. Nel frattempo dovemmo raggiungere la dogana, ma io non avevo bagagli da frugare e mi voltai dall'altra parte. Il treno rullò molto tempo sotto un tunnel, poi uscì avvoltolato in una boccata di fumo sopra una valle che fiatava nebbia grigia, oltre la quale i triangoli delle Alpi si solidificavano nel cielo. Mi destai intontito, guardai di qua e di là, sbadigliando. Il controllare era uno sbracalato bisunto col cappello schiacciato sul capo e la visiera scucita, il quale aggruppato sopra una panca risucchiava una pipa aggrumata e ogni tanto gorgogliava e sputava. Di sfuggita, impalati davanti alla porta di una piccola stazione innanzi alla quale il treno filò via, intravidi due stangoni neri e rossi che parevano moltiplicati all'infinito dal rapido alternarsi dei finestrini. Di scatto m'alzai e chiesi al conduttore: «Ma siamo in Italia?». Egli aprì un occhio e mi guardò di sotto in su: dal labbro posteriore gli colava un filo di bava sulla camicia, ma non rispose verbo.
Uno scossone del treno mi fece andare di traverso al sedile. Un ubriaco scalciante e urlante lo strippavano traverso l'apertura di uno sportello una quantità di gente, il conduttore, il controllore, i parenti, il facchino della stazione. Quando riuscirono a infilarlo dentro, egli si sdraiò tutto sopra un sedile. La testa gli penzolò sul petto e le gambe gli cioncarono sull'impiantito. L'uomo aveva una fiasca di vino a tracolla, ogni tanto, arsionato, tentava di portarsela alla bocca che puppava l'aria; le mani aveva prese come dal paralitico e non riusciva a infilarsi il collo in bocca, lo sollevò fino all'altezza della clavicole e gli diè la volta. Il vino giù per il pelame del petto traverso la fossetta dei muscoli e per le coscie gli colava giù dagli stinchi; in poco tempo sull'impiantito ci fu una pozza rossa, sicché pareva che l'uomo l'avessero pugnalato. Un tanfo d'aceto appestò tutto il vagone.
"Siamo proprio in Italia" pensai triste. Ritornai, con circospezione questa volta, alla carica: «Senta conduttore, da queste parti c'è forse il paese chiamato Arona?».
«Ci si riva tra una venticinquina di minuti.»
Ritornai sul sedile. Mentre guardavo, mi riscosse un urlo:
«Arona!»
Ostentando una naturale curiosità, mi affacciai al finestrino: "Non scendo!". Poche case, una chiesa, un campanile. "Nella grande città c'è sempre posto per gli stomachi avventurosi: qui son tosto visto e preso" e puntai dritto su Milano che era un centinaio di chilometri. Però fu mestieri che mi ritirassi a contemplar la patria dal lavandino, ed ivi mi chiusi a chiavaccio.
Non conoscevo Milano. Quando scesi in piazza del Duomo, questa era stipata di gente. Il monumento a Vittorio in arcioni a spada sfoderata che par voglia scapezzare il tritume delle guglie, fu la prima cosa che mi colpì. Dalla Galleria sfociava una nera mareggiata di teste. Un amico vagamondo mi aveva insegnato di tenermi sempre al centro delle città: «Sempre nel centro, mai alla periferia, ricordatelo».
A quell'ora in Galleria ci si strippava. Sul forbicìo delle lingue spiccavano bene i gorgheggi di certi usignoli cicciosi e lardosi, baritoni, bassi, tenori. Sballonzolato di qua di là, feci buio. Mi ritrassi in un canto e senza togliermi le mani di tasca, contai i soldi che mi erano rimasti. Gironzolando torno torno alla Galleria, mi capitò sotto gli occhi uno stemma: fondo rosso, croce bianca, corona dipinta di biacca e le parole gialle. Osservai ben bene il nome della piazza per tenermi debitamente lontano. Filai svelto ma mi capitò peggio, la Fiaschetteria Toscana. Il titolo mi tese un'insidia. Pensai da sempliciotto: qui siamo in famiglia. Guardai sulla porta, ma ci mancava la fresca del pin secco e la veste del fiasco; ma tuttavia entrai. Ratto il cameriere mi tolse di dosso il pastrano ed io rimasi lì in vergogna con il vestito di rigatino. Mi sedetti, come Sarti sulla mia ottomana. Consultai la carta dalla parte dei prezzi, e al primo due e cinquanta che trovai feci la spola sul titolo: «questo» dissi sotto voce al cameriere.
La notte, una dolciastra notte di giugno la passai tra Corso Torino, Via Dante e il Catello, andavo a passo svelto onde evitare certe domande: «Giovanotto... dico a te... fermati o ti sparo... le carte... sfaccimme... ti scasso il grugno... faccia di rospo... abbúffati» quando all'altro uomo spuntano sul viso gli occhi della iena. Andavo perciò senza baloccarmi di qua e di là. Feci le prime ore della mattina indisturbato; coll'istinto del cane che rinasce in noi quando siamo dispersi per il mondo, mi orientai verso la stazione. Con un biglietto d'ingresso salii sopra il diretto di Genova. Entrai dinoccolato in un lavandino e mi tirai giù rovescio: or boccone, or per lato mi martirizzai tutte l'ossa. A Genova mi fu facile uscire dalla stazione: ero in casa mia.
La cima delle acacie di piazza Colombo eran dorate dal sole, il porto soffuso da una tufagna di fumo nero, gli alberi delle navi svettavano oltre quel caligo e parevano arroventati dal sole. Le bandiere bianche, celesti, rosse e verdi sciamavano come farfalle, il mare palpitante di bianco allagava di cobalto l'infinito. Vidi il cielo anche le montagne dei miei paesi. Chinai il capo e alzai le mani: me le sentii intiepidite dal sole.
Passati gli scafi ferrigni con la linea d'acqua dipinta di minio o insanguinata dai battiti delle acque sciabordate, lo strepito degli argani, dei ghindò, delle catene, delle eliche che turbinando ribolivano l'acque fonde, i bramiti delle sirene, i risucchi dei silos, i cumuli delle granaglie del cotone e delle carrube, mi si presentarono gli scali dove prendono volta le barche del mio paese: le vele quadre dei navicelli, quelle a triangolo delle tartane, l'ordine dei pennoni aperti sugli alberi maestri degli scuneri, le rande delle menaite, i pollacconi delle paranze percossi, agitati, scalpellati dal vento mandavano profumo di ragia di pino e di bacche di ginepro, i nomi scritti sullo specchio di poppa: Eulo, Cassandra, Icaro, Dedalo, l'Ardita, mi fecero vedere al di là del sartiame il crocchio delle casette tra le quali era la mia, la pineta e l'Alpi.
Mi sdigiunai sul carabotto di prua di una tartana. Il guardiano mi aveva riconosciuto: «Ma tu non sei quello che una volta s'andò a aberintare a Parigi?».
«Sì.»
Così seduto, sentii esalare dai miei panni la pestilenza della Ruche.
«O di dove viene ridotto in questo stato? dalle secche di Barberìa?»
Io guardai di qua e di là e poi dissi piano: «Da Parigi».
Il guardiano mi guardò trasecolato: «Ma a casa tua t'aspettano?».
«No.»
Senza radermi, presi un treno del pomeriggio per giungere a casa di notte. Uscii dalla stazione del mio paese dalla parte delle merci: un vagabondo dormiva addossato al muro, il vetturale di servizio che non aveva fatto lo spaccio schioccò la frusta e messe la brenna di corsa. La darsena era inselvita d'alberi. La torre suonò le otto: l'ora di cena. Entrai in casa, i miei erano a tavola:
«Lorenzo?» dissero tutti in coro.
Chi mi prese un braccio, chi la testa e i nepoti le ginocchia. Mia madre piangendo sotto il grembiule, aspettò che fossi solo poi s'abbarbicò a me e mi chiese piano in un orecchio: «T'ha visto nessuno?».
«No.»
Il mio fratello maggiore mi osservava sconturbato: «Spogliati!».
Io macchinalmente mi levai la giubba, la tirai in un canto e mi sfilai la camicia, poi a torso nudo andai nell'orto, cavai dal pozzo delle secchiella d'acqua e mi digrumai in una conca; lì al buio mi sfilai anche i pantaloni e le mutande, slegai le scarpe e sbrucai i calzini: rimasi nudo come Dio m'aveva fatto. Lì mi portarono le mutande e la camicia. Mia madre fece una bracciata degli abiti di Parigi e li buttò in fondo all'orto.
Mi ultimai di vestire in camera: mio fratello mi dette il suo abito nuovo. Quando scesi giù, mia madre si affacciò sull'uscio dell'orto e gridò al vicinato: «È ritornato il mi' Lorenzo da Parigi: come sta bene!».
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