Anatole France
Il giglio rosso

I.

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               I.

Ella diede un'occhiata alle poltrone riunite davanti al camino, al tavolinetto da , che brillava nell'ombra, e ai grandi mazzi di fiori pallidi che s'innalzavano dai vasi cinesi. Tuffò la mano nei rami fioriti dell'oppio per far tremolare le loro bacche argentate. Ad un tratto, si guardò, da lontano, in uno specchio con intensa attenzione. Diritta e snella di personale, colla guancia china sulla spalla, ella seguiva coll'occhio le ondulazioni della sua forma flessuoso nella guaina di raso nero, intorno alla quale fluttuava una tunica leggera, cosparsa di perle in cui tremolavano delle fiamme cupe. Poi si avvicinò allo specchio, curiosa di veder bene il suo viso di quel giorno. Lo specchio le riflettè uno sguardo tranquillo, come se quella amabile donna, che essa esaminava e che non le dispiaceva, vivesse senza grande gioia e senza profonda tristezza.

Sulle pareti del grande salotto vuoto, le figure degli arazzi, vaghe come ombre, impallidivano fra i loro giochi antichi, nelle loro grazie morenti. Com'esse, le statuette di terracotta sulle colonnette, i vecchi ninnoli di Sassonia e le pitture di Sèvres, allineate nelle vetrine, parlavano di cose passate. Sopra un piedistallo guernito di bronzi preziosi, il busto di marmo di qualche principessa reale, travestita da Diana, col volto capriccioso, il seno provocante, sembrava sfuggire dai suoi panneggiamenti complicati, mentre nel soffitto una Notte, incipriata come una marchesa e circondata da Amorini, spargeva dei fiori. Tutto sonnecchiava, e si sentiva soltanto lo scoppiettio del fuoco e il tintinnar leggero delle perle sui veli.

Distolto lo sguardo dallo specchio, andò a sollevare l'angolo d'una tendina, e dalla finestra vide, attraverso gli alberi neri dell'argine, in una luce grigiastra, la Senna che fluiva colle sue onde gialle e vellutate. Il tedio del cielo e dell'acqua si riflettevano nelle sue pupille di un delicato color grigio. Un battello passò: la «Rondinella», sboccando da un arco del ponte dell'Alma e portando degli umili viaggiatori verso Grenelle e Billancourt. Essa lo seguì collo sguardo mentre si allontanava dalla riva nella corrente fangosa; poi lasciò ricadere la tendina, ed essendosi seduta nel solito angolo del divano, sotto i fasci di fiori, prese un libro che si trovava sulla tavola, a di mano. Sulla copertina di tela paglierina brillava in oro questo titolo: Isotta la Bionda, di Viviana Bell. Era una raccolta di versi francesi scritti da una inglese e stampati a Londra. L'aperse e lesse a caso:

Allorchè la campana, come la gente pia,
Canta nel ciel commosso: «Ti saluto, Maria»,
La vergine, vedendo gli alberi del verziero,
Freme come all'annunzio d'ignoto messaggero,
Che reca un giglio rosso, risvegliante un desiro,
Di morir di profumo nel suo dolce respiro.
Nel chiuso orlo la vergine, nella tranquilla sera,
Sente alle labbra l'anima salirle, e par che miri
Fluir la vita come un rivo in primavera,
Che scorra nel suo petto, tra flebili sospiri.

Leggeva, indifferente, distratta, aspettando le sue visite e pensando più alla poetessa che alla poesia, a quella Miss Bell che era forse la sua più piacevole amica e che non vedeva quasi mai; che, a ciascuno dei loro incontri, così rari, la baciava chiamandola «darling»1, le batteva bruscamente il naso sulla guancia, e gorgheggiava; che, brutta e seducente, leggermente ridicola e veramente squisita, viveva a Fiesole da esteta e da filosofo, mentre l'Inghilterra la celebrava come la sua poetessa prediletta. Come Vernon Lee e Maria Robinson, costei s'era innamorata della vita e dell'arte toscana; e senza nemmeno terminare il suo Tristano, la cui prima parte aveva ispirato a Burne Jones dei suggestivi acquarelli, scriveva dei versi provenzali e dei versi francesi su pensieri italiani. Aveva mandato la sua Isotta la Bella a «darling» con una lettera in cui l'invitava a passare un mese a Fiesole da lei. Aveva scritto: «Venite; vedrete le più belle cose del mondo, e le abbellirete ancora colla vostra presenza

E «darling» diceva fra che non sarebbe andata, dovendosi trattenere a Parigi. Ma l'idea di rivedere Miss Bell e l'Italia le sorrideva. Sfogliando il libro, si fermò per caso a questo verso

Amore e cor gentil sono una cosa.

Si chiese, con un'ironia leggera e dolcissima, se Miss Bell avesse amato e quali potessero mai essere i suoi amori. La poetessa aveva a Fiesole un cicisbeo, il principe Albertinelli. Bellissimo, egli sembrava troppo grossolano e volgare per piacere ad una esteta che metteva nel desiderio d'amare il misticismo di un'Annunziazione.

Buongiorno, Teresa! Sono sfinita.

Era la principessa Seniavine, flessuosa nella pelliccia che avvolgeva la sua carne bruna e selvaggia. Si sedette bruscamente e, colla sua voce rude eppur carezzevole, che aveva delle modulazioni virili e garrule, disse:

Stamattina, ho attraversato a piedi tutto il Bosco col generale Larivière. L'ho incontrato nel viale dei Potins e l'ho accompagnato fino al ponte d'Argenteuil, dove voleva assolutamente comprare dal guardiano del Bosco, per regalarmela, una gazza ammaestrata, che fa gli esercizi con un piccolo fucile. Sono spossata.

– Ma perchè dunque avete condotto il generale fino al ponte d'Argenteuil?

Perchè aveva la gotta a un dito del piede.

Teresa alzò le spalle sorridendo:

– Voi sprecate la vostra malignità. Siete una scialacquatrice.

– E voi vorreste, cara, che economizzassi la mia bontà e la mia cattiveria, nella speranza di collocarle seriamente?

Bevette un po' di vino di Tokay.

Preceduto dal rumore affannoso del suo respiro, il generale Larivière si avanzò, con passo pesante, baciò la mano alle due signore e si sedette fra loro, con aria dura e soddisfatta, coll'occhio sollevato all'estremità, ridendo con tutte le piccole rughe delle tempie.

– Come sta il signor Martin-Bellème? È sempre occupato?

Teresa rispose che credeva fosse alla Camera, e che anzi stava facendo un discorso.

La principessa Seniavine, che mangiava dei sandwichs al caviale, domandò alla signora Martin perchè non fosse venuta ieri dalla signora Meillan, dove avevano rappresentato una commedia.

– Un lavoro scandinavo. È piaciuto?

– Sì. Non so. Ero nel salottino verde, sotto il ritratto del duca d'Orléans. Il signor Le Ménil m'è venuto incontro e m'ha reso un servizio prezioso: m'ha liberato dal signor Garain.

Il generale, che era pratico degli annuari e immagazzinava nella sua grossa testa tutte le informazioni utili, tese l'orecchio a questo nome.

Garain; – domandò – il ministro che faceva parte del Gabinetto, all'epoca dell'esilio dei principi?

– Proprio lui. Io gli piacevo molto. Mi parlava dei bisogni del suo cuore e mi guardava con una tenerezza spaventosa. E ogni tanto contemplava sospirando il ritratto del duca d'Orléans. Gli ho detto: «Signor Garain, voi confondete. È mia cognata, che è orleanista io non lo sono affatto.» In questo momento, il signor Le Ménil è venuto per condurmi al buffet. M'ha fatto dei grandi complimenti... sui miei cavalli. M'ha detto anche che non c'era niente di più bello dei boschi, d'inverno. M'ha parlato dei lupi e dei lupacchiotti. Tutto questo m'ha distratto.

Il generale, che non amava i giovani, disse che aveva incontrato Le Ménil, il giorno prima, al Bosco, che galoppava furiosamente.

Aggiunse che soltanto i vecchi cavalieri conservavano la buona tradizione, e che i giovani eleganti del giorno d'oggi avevano il torto di cavalcare come dei fantini.

– Così pure è per la scherma. Ai miei tempi...

La principessa Seniavine l'interruppe bruscamente:

Generale, guardate un po' com'è bella la signora Martin. È sempre graziosa, ma in questo momento più che mai, perchè si annoia. Niente le s'addice meglio della noia. Da quando siamo qui, la secchiamo senza dubbio. Guardatela: la fronte corrugata, lo sguardo vago, la bocca dolorosa: una vera vittima!

Scattò in piedi, baciò tumultuosamente Teresa, e se ne andò, lasciando il generale meravigliato.

La signora Martin-Bellème lo supplicò di non dar retta a quella pazza.

Allora egli si rimise e domandò

– E i vostri poeti, signora?

Perdonava a malincuore alla signora Martin il suo gusto per della gente che scriveva e che non apparteneva al suo mondo.

– Sì, i vostri poeti? Che cosa n'è di quel signor Choulette, che vi fa delle visite in cravattone rosso?

– I miei poeti mi dimenticano, mi abbandonano. Non bisogna fare assegnamento su nessuno. Gli uomini, le cose; non c'è niente di sicuro. La vita è un tradimento continuo. Non c'è che quella povera Miss Bell che non mi dimentica. M'ha scritto da Firenze, e mandato il. suo libro.

Miss Bell, non è quella giovane signora, che ha l'aria, coi suoi capelli gialli inanellati, d'un cagnolino da salotto?

Fece un calcolo mentale e gli parve che adesso dovesse ben avere trent'anni.

Una vecchia signora, che portava con modesta dignità la sua corona di capelli bianchi, e un omìno vivace, dallo sguardo acuto, entrarono uno dietro l'altra: la signora Marmet e il signor Paolo Vence. Poi, tutto impettito, col monocolo, apparve il signor Daniele Salomon, l'arbitro dell'eleganza. Il generale se la svignò.

Si parlò del romanzo della settimana. La signora Marmet aveva parecchie volte pranzato coll'autore, un giovane amabilissimo. Paolo Vence trovava il libro noioso.

– Oh! – sospirò la signora Martin – tutti i libri sono noiosi; ma gli uomini sono più noiosi dei libri. E sono più esigenti.

La signora Marmet fece sapere che suo marito, che aveva molto buon gusto letterario, aveva conservato sino alla morte un sacro orrore del naturalismo.

Vedova d'un membro dell'Accademia delle Iscrizioni, metteva in mostra, nei salotti, la sua illustre vedovanza; dolce e modesta, del resto, nella sua veste nera e sotto i suoi bei capelli bianchi.

La signora Martin disse al signor Daniele Salomon che voleva consultarlo intorno ad un gruppo di bambini.

– È di Saint-Cloud. Mi direte se vi piace. Anche voi, signor Vence, mi darete il vostro parere, a meno che non disprezziate queste piccolezze.

Il signor Daniele Salomon guardò Paolo Vence attraverso il monocolo, con un'alterigia sgarbata.

Paolo Vence passava in rassegna, collo sguardo, il salotto:

– Avete delle belle cose, signora. Questo non sarebbe nulla: ma tutte queste belle cose sono una degna cornice per voi.

Ella non nascose la sua gioia nel sentirlo parlare così. Stimava Paolo Vence per il solo uomo veramente intelligente che frequentasse il suo salotto. Lo aveva apprezzato prima che i suoi libri gli avessero dato una grande rinomanza. La sua salute delicata, il suo umor nero, il suo assiduo lavoro, lo tenevano lontano dalla vita di società. Quel piccolo uomo bilioso non era molto piacevole. Eppure essa lo vedeva volentieri: stimava molto la sua profonda ironia, la sua fierezza selvaggia, il suo ingegno maturato nella solitudine, e lo ammirava con ragione come un eccellente scrittore, l'autore di magnifici saggi sopra le arti e i costumi.

A poco a poco, il salotto s'era empito di una folla brillante. C'erano adesso, nel gran cerchio delle poltrone, la signora De Vresson, della quale si raccontavano delle storie spaventose, e che conservava, dopo vent'anni di scandali mal nascosti, degli occhi infantili e delle guance verginali; la vecchia signora De Morlaine, che lanciava in gridi acuti i suoi motti di spirito, vivace, stordita, agitante le sue forme mostruose come una nuotatrice circondata da vesciche; la signora Raymond, moglie dell'Accademico; la signora Carain, moglie dell'ex-ministro; tre altre signore ancora; e, in piedi contro il camino, il signor Berthier d'Eyzelles, redattore del Journal des Débats, deputato, che si accarezzava le basette bianche e si pavoneggiava, mentre la signora De Morlaine gli gridava:

– Il vostro articolo sul bimetallismo è una perla, un gioiello! Specialmente la fine, una delizia!

In piedi, in fondo al salotto, alcuni giovanotti eleganti, molto serii, bisbigliavano fra loro:

– Che cosa ha fatto, per avere il posto d'onore alle cacce del principe?

– Lui? niente. Sua moglie, tutto.

Avevano la loro filosofia. Uno di essi non credeva alle promesse degli uomini:

– Vi sono degli altri tipi che non mi piacciono affatto. Dicono, con un'aria di leale sincerità: «Volete iscrivervi al Circolo? Vi prometto di votar palla bianca...» Palla bianca? Non c'è dubbio: un globo d'alabastro, una palla di neve! Si vota: Crac! un tartufo! La vita, a pensarci bene, è una cosa sudicia.

– E allora non pensarcidisse un terzo.

Daniele Salomon, che si era aggiunto a loro, mormorava all'orecchio, colla sua voce casta, dei segreti d'alcova. E ad ogni rivelazione strana sulla signora Raymond, sulla signora Berthier d'Eyzelles e sulla principessa Seniavine, aggiungeva con indifferenza:

– Lo sanno tutti.

Poi, a poco a poco, la folla dei visitatori si diradò. Non restavano più che la signora Marmet e Paolo Vence.

Questi si avvicinò alla contessa Martin e le chiese:

– Quando volete che vi presenti Dechartre?

Era la seconda volta che glielo domandava. Essa non amava vedere delle facce nuove. Rispose con molta noncuranza:

– Il vostro scultore? Quando vorrete. Ho visto, di lui, al Campo Cinque Marzo, dei medaglioni veramente belli. Ma produce poco. È un amatore, non è vero?

– È uno spirito delicato. Non ha bisogno di lavorare per vivere. Egli accarezza le sue figure con una lentezza amorevole. Ma non v'ingannate, signora: egli sa e sente: sarebbe un maestro, se non vivesse solo. Lo conosco dall'infanzia. Lo credono indolente e triste; invece è un passionale ed un timido. Quel che gli manca, quel che gli mancherà sempre per raggiungere il sommo dell'arte sua, è la semplicità di spirito. Egli s'inquieta, si turba e sciupa le sue più belle impressioni. Secondo me, era meno adatto per la scultura che per la poesia e la filosofia. È molto còlto, e rimarreste stupita della sua grandezza di spirito.

La signora Marmet approvò, benevola. Essa piaceva in società e sembrava a sua volta compiacersene. Ascoltava molto e parlava poco. Attribuiva molto valore alla sua grande compiacenza e sembrava farla un po' desiderare. Sia che avesse veramente simpatia per la signora Martin, sia che sapesse mostrare, in ogni casa dove andava, delle maniere discrete di preferenza, si riscaldava, contenta, come un'avola, nell'angolo di quel camino di puro stile Luigi XVI, che si addiceva alla sua bellezza di vecchia signora indulgente. Non le mancava altro, , che il suo cagnolino.

– Come sta Tobia? – le chiese la signora Martin. – Signor Vence, conoscete Tobia? Ha dei lunghi peli di seta e un nasino che è un amore, nero.

La signora Marmet gradiva le lodi tributate a Tobia, quando un vecchio roseo e biondo, dai capelli ricciuti, miope, quasi cieco dietro i suoi occhiali d'oro, corto di gambe, che urtava contro i mobili, salutava le poltrone vuote, si buttava contro gli specchi, spinse il suo naso aquilino fino in faccia alla signora Marmet che lo guardò, indignata.

Era il signor Schmoll, dell'Accademia delle Iscrizioni. Egli sorrideva, tutto smorfioso e compìto; lanciava dei madrigali alla contessa Martin con quella voce ereditaria, rude e grassa, colla quale gli Ebrei suoi antenati perseguitavano i loro debitori, i contadini d'Alsazia, della Polonia e della Crimea. Strascicava a lungo, pesantemente, le sue frasi. Quel grande filologo, membro dell'Istituto di Francia, sapeva tutte le lingue, eccettuato il francese. E la signora Martin si divertiva a quelle galanterie pesanti e arrugginite come le ferramenta che mettono in mostra i rigattieri, e fra le quali cadeva qualche fiore appassito dell'Antologia. Il signor Schmoll amava i poeti e le donne, e aveva dello spirito.

La signora Marmet finse di non conoscerlo ed uscì senza rendergli il saluto.

Quand'ebbe esauriti i suoi madrigali, Schmoll diventò cupo e compassionevole. Si mise a gemere pietosamente. Compianse profondamente se stesso: non era abbastanza decorato, convenientemente alloggiato a spese dello Stato, lui, la signora Schmoll e i loro cinque figli. Si lamentò con accento solenne: un po' dell'anima di Ezechiele e di Geremia era in lui.

Disgraziatamente, strisciando lungo la tavola coi suoi occhiali d'oro, scoperse il libro di Viviana Bell.

– Ah! Isotta la Bionda: – esclamò amaramente, – voi leggete questo libro, signora. Ebbene, sappiate che la signorina Viviana Bell m'ha rubato un'iscrizione, e, che per di più, l'ha alterata, mettendola in versi! La troverete a pagina 109 del libro:

– Deh! cessa il pianto, o tu che amai:
Quello che è morto non fu giammai.
Lasciami piangere; il pianto sgombra
Le pene: un'ombra pianger può un'ombra.

Avete sentito, signora? Un'ombra pianger può un'ombra. Ebbene! queste parole sono tradotte testualmente da un'iscrizione funebre che io ho pubblicato ed illustrato per il primo. L'anno scorso, un giorno che pranzavo da voi, trovandomi a tavola a fianco della signorina Bell, le citai questa frase, che le piacque molto. Dietro sua domanda, il giorno dopo, tradussi in francese l'intera iscrizione e gliela inviai. Ed ecco che la trovo, mutilata e snaturata, in questo volume di versi, con questo titolo: Sulla via sacra!... la via sacra, son io!

E ripetè, col suo ridicolo cattivo umore:

– Sono io, signora, la via sacra.

Era contrariato perchè la poetessa non aveva parlato di lui a proposito di quell'iscrizione. Avrebbe voluto leggere il suo nome in testa alla poesia, nei versi, in rima. Egli voleva sempre vedere il suo nome dappertutto, e lo cercava nei giornali di cui aveva gonfie le tasche. Ma non conservava rancore, e non l'aveva colla signorina Bell. Convenne di buona grazia che era una persona molto distinta, e la poetessa che oggi onorava maggiormente l'Inghilterra.

Quando fu partito, la contessa Martin chiese molto ingenuamente a Paolo Vence se sapeva perchè la buona signora Marmet, di solito così benevola, avesse guardato Schmoll con tanta collera e in silenzio. Egli era sorpreso che non lo sapesse.

– Io non so mai niente.

– Eppure la disputa fra Giuseppe Schmoll e Luigi Marmet, che fece così gran chiasso all'Istituto, è rimasta famosa. È finita soltanto colla morte di Marmet, che il suo implacabile collega perseguitò fino al cimitero del Père-Lachaise.

«Il giorno in cui fu sepolto quel povero Marmet, cadeva della neve mista a pioggia. Eravamo inzuppati e gelati fino alle ossa. Sull'orlo della fossa, fra la bruma, il vento, il fango, Schmoll lesse, sotto l'ombrello, un discorso pieno di crudeltà gioviale e di compassione trionfante, che poi portò ai giornali in una carrozza di ritorno dal corteo funebre. Un amico imprudente lo fece vedere alla buona signora Marmet, che cadde svenuta. Possibile, signora, che non abbiate mai sentito parlare di questa disputa sapiente e feroce?

«Il motivo fu la lingua etrusca. Marmet s'era dedicato interamente al suo studio. Lo chiamavano Marmet l'Etrusco. lui altri conoscevano una sola parola di questa lingua della quale si sono perdute le ultime vestigia. Schmoll ripeteva continuamente a Marmet: – «Voi sapete bene che non sapete affatto l'etrusco, caro collega; è per questo che siete uno scienziato onorevole ed un uomo di spirito.» – Punto da queste lodi maligne, Marmet volle dimostrare di sapere un po' d'etrusco. Lesse ai colleghi dell'Accademia delle Iscrizioni una memoria sulla funzione delle flessioni nell'idioma degli antichi toscani

La signora Martin domandò che cos'era una flessione.

– Oh! signora, se vi degli schiarimenti, finiremo coll'imbrogliare tutto. Vi basti sapere che, in quella memoria, il povero Marmet citava dei testi latini, e li citava tutti alla rovescia. Ora, Schmoll è un latinista di prima forza e, dopo Mommsen, il primo epigrafista del mondo.

«Egli rimproverò al suo giovane collega (Marmet, non aveva ancora cinquant'anni) di leggere troppo bene l'etrusco e male il latino. Da quel momento, Marmet non ebbe più pace. In ogni seduta era preso in giro con un'allegra ferocia e dileggiato in modo tale che, malgrado la sua dolcezza di carattere, si arrabbiò. Schmoll non conserva rancore: è una virtù della sua razza. Non vuol male a coloro che perseguita. Un giorno, salendo le scale dell'Istituto, insieme a Renan e ad Oppert, incontrò Marmet e gli tese la mano. Marmet rifiutò di prenderla e disse: – «Io non vi conosco.» – «Mi prendete forse per un'iscrizione latina?» – ribattè Schmoll. È un po' per questa frase che il povero Marmet è morto e seppellito. Comprenderete adesso perchè la vedova, che conserva religiosamente il suo ricordo, veda con orrore il suo nemico.

– Ed io che li ho fatti pranzare insieme, proprio vicini uno all'altra!

Signora, non è stata una cosa immorale, no, ma crudele.

Caro signore, forse quel che dico vi urterà; ma se proprio occorresse scegliere, preferirei fare una cosa immorale che una cosa crudele.

Un giovane, grande, magro, bruno di viso, con due lunghi baffi, entrò, salutando con brusca disinvoltura

Signor Vence, credo che conosciate il signor Le Ménil.

Infatti, s'erano già trovati insieme dalla signora Martin, e si vedevano qualche volta nella sala d'armi, di cui Le Ménil era assiduo. Anche il giorno prima, s'erano incontrati dalla signora Meillan.

– La signora Meillan, ecco una casa dove ci si annoiadisse Paolo Vence.

– Eppure vi si ricevono degli Accademicidisse Le Ménil. – Non voglio esagerare il loro valore; ma, insomma, sono delle persone di merito.

La signora Martin sorrise:

Sappiamo, signor Le Ménil, che dalla signora Meillan vi siete occupato più delle donne che degli accademici. Avete condotto la principessa Seniavine al buffet e le avete parlato di lupi.

– Come? di lupi?

– Di lupi, di lupe e di lupacchiotti, e dei boschi resi cupi dall'inverno. C'è parso che, con una persona così graziosa, fosse un argomento un po' feroce.

Paolo Vence si alzò.

– Così, me lo permettete, signora: vi condurrò il mio amico Dechartre. Ha un gran desiderio di conoscervi e spero che non vi dispiacerà. Ha del brio e della vivacità di spirito: è pieno d'idee.

La signora Martin l'interruppe:

– Oh! io non chiedo tanto. Le persone che hanno un carattere, e lo dimostrano sinceramente, non mi annoiano quasi mai; e qualche volta mi divertono.

Quando Paolo Vence fu uscito, Le Ménil attese che fosse svanito il rumore dei suoi passi nell'anticamera e ricaduto il battente della porta; poi, avvicinandosi a lei:

Domani alle tre nel nostro nido, è vero?

– Mi ami dunque ancora?

La sollecitò a rispondere finchè erano soli; ella replicò, un po' scherzosamente, ch'era tardi, che non aspettava più visite, e che soltanto suo marito, adesso, poteva entrare.

Egli insistè, supplichevole. Allora, senza farsi più pregare

– Vuoi? Ascolta: domani sarò libera tutta la giornata. Aspettami in Via Spontini alle tre. Poi andremo a passeggiare.

La ringraziò con uno sguardo. Avendo poi ripreso il suo posto davanti a lei, all'altro angolo del camino, le domandò chi era quel Dechartre che si faceva presentare.

– Non sono io, che me lo faccio presentare: me lo presentano. È uno scultore.

Egli si lamentò che avesse bisogno di vedere delle facce nuove.

– Uno scultore? Di solito, sono un po' grossolani, gli scultori.

– Oh! quello , scolpisce così poco! Ma se non volete che lo riceva, non lo riceverò.

– Mi dispiacerebbe se le vostre relazioni vi prendessero una parte del tempo che dovete a me.

Amico mio, non potete lamentarvi che io sia troppo mondana. Ieri non sono nemmeno andata dalla signora Meillan.

Fate bene ad andarci il meno possibile non è una casa per voi.

Si spiegò. Tutte le signore che ci andavano avevano avuto qualche avventura che si sapeva, che si raccontava. Del resto, la signora Meillan favoriva gli intrighi. Citò qualche esempio per dimostrarlo.

Nel frattempo, Teresa, colle mani lungo i bracciuoli della poltrona, in un dolce riposo, la testa china da un lato, guardava morire il fuoco. Il suo pensiero era volato lontano: non ne restava più niente nel suo viso un po' triste e nel suo corpo illanguidito, più desiderabile che mai in quel sonno dell'anima. Conservò per qualche tempo un'immobilità profonda, che aggiungeva all'attrattiva della sua carne il fascino delle cose create dall'arte.

Egli le domandò a che cosa pensasse. Sottraendosi un poco alla melanconica magia delle braci e delle ceneri, ella disse:

Domani, se volete, andremo nei quartieri lontani, in quei quartieri bizzarri in cui si vede vivere la povera gente. Mi piacciono le vecchie strade di miseria.

Le promise di soddisfare il suo gusto, pur lasciando capire che lo trovava assurdo. Quelle passeggiate in cui lo trascinava, qualche volta lo annoiavano, e le giudicava pericolose: potevano esser visti.

– E dal momento che siamo riusciti finora a non far parlare di noi...

Ella scosse il capo.

Credete proprio che non si sia parlato di noi? Si sappia o non si sappia, la gente parla. Non si sa tutto, ma si dice tutto.

Ricadde nella sua fantasticheria. Egli la credette malcontenta, irritata per qualche ragione che non diceva, e si chinò sui begli occhi vaghi che riflettevano i bagliori del focolare. Ma essa lo rassicurò:

– Non so affatto se si parla di me. E del resto, che cosa m'importa? Niente via niente.

Egli la lasciò. Andava a cena al circolo, dove il suo amico Caumont, di passaggio da Parigi, lo attendeva. Essa lo seguì collo sguardo pieno d'una placida simpatia. Poi si rimise a leggere nelle ceneri.

Rivide i giorni della sua infanzia, il castello in cui passava le grandi estati tristi; i boschi tagliati, il parco umido e fosco, il bacino in cui dormivano le acque verdi, le ninfe di marmo sotto gl'ippocastani e la banchina sulla quale aveva pianto e desiderato di morire. Oggi ancora, ignorava la causa di quelle disperazioni giovanili, quando l'ardente risveglio della sua fantasia e il misterioso lavorio della sua carne la gettavano in un turbamento misto di desiderii e di timori. Da bambina, la vita l'attraeva e le faceva paura. E adesso sapeva che la vita non merita tanta inquietudine tanta speranza, essendo una cosa assai ordinaria e monotona. Avrebbe dovuto aspettarselo: perchè non l'aveva previsto? Pensava:

Vedevo la mamma. Era una buona signora, molto semplice e non troppo felice. Sognavo un destino ben diverso dal suo. Perchè? Sentivo intorno a me il sapore sciocco della vita, e aspiravo l'avvenire come un'aria piena di sale e d'aromi. Perché? Che cosa mai volevo, che cosa attendevo? Non dovevo già abbastanza comprendere la tristezza di tutto?

Era nata ricca, nello splendore sfarzoso d'una fortuna troppo recente. Figlia di quel Montessuy, che, dapprima impiegatuccio in una banca parigina, fondò, diresse due grandi istituti di credito, trovò per sostenerli nei momenti difficili le risorse di uno spirito fecondo, la forza invincibile del carattere, un insieme unico di furberia e di probità, e trattò da pari a pari col governo; era cresciuta in quello storico castello di Joinville, comprato, restaurato, mobiliato magnificamente da suo padre, e diventato in sei anni, col suo parco e la ricchezza delle sue acque, d'uno splendore pari a quello di Vaux-le-Vicomte. Montessuy faceva rendere alla vita tutto quello ch'essa poteva dare. Ateo istintivo e potente, voleva tutti i beni carnali e tutte le cose desiderabili che questa terra produce. Accumulò nella galleria e nei saloni di Joinville i quadri d'illustri autori e i marmi preziosi. A cinquant'anni, ebbe le più belle donne di teatro ed alcune mondane, delle quali pagò il lusso. Godeva di tutto ciò che v'è di prezioso nella società, colla brutalità del suo temperamento e la finezza del suo spirito.

Frattanto, la povera signora Montessuy, economa e laboriosa, languiva a Jonville. coll'aspetto gracile e meschino, sotto gli occhi delle dodici cariatidi gigantesche che, nella nicchia rinchiusa da balaustre d'oro, sostenevano il soffitto in cui Lebrun aveva dipinto i Titani fulminati da Giove. Fu , nel letto di ferro, drizzato ai piedi del grande letto di parata, che essa morì una sera, di tristezza e d'esaurimento, non avendo mai amato sulla terra che suo marito e il suo piccolo salotto di damasco rosso nella via di Maubeuge.

Non aveva avuto molta intimità colla figlia, sentendola, istintivamente, troppo lontana da lei, troppo libera di spirito, troppo ardita di cuore, e indovinando, in questa Teresa, pur così dolce e buona, il sangue forte di Montessuy, quell'ardore d'anima e di carne che l'aveva fatta tanto soffrire, e che perdonava più facilmente a suo marito che a sua figlia.

Ma egli, Montessuy, riconosceva sua figlia e l'amava. Come tutti i grandi carnivori, aveva le sue ore di gaiezza piacevole. Benchè vivesse molto fuori di casa, trovava modo di far colazione quasi tutti i giorni con lei, e qualche volta la portava a passeggio. Aveva il gusto dei ninnoli e delle stoffe. A colpo d'occhio vedeva e riparava, nella toelette della figlia, i disastri prodotti dal gusto infelice e vistoso della signora Montessuy. Egli educava, formava la sua Teresa. Brutale e sapiente, la divertiva e l'attraeva. Vicino a lei, il suo istinto, il suo appetito di conquiste, l'ispirava ancora. Egli che voleva sempre guadagnare, guadagnava pure sua figlia; la toglieva alla madre. Essa lo ammirava, lo adorava.

Nella sua fantasticheria, lo rivedeva in fondo al passato, come l'unica gioia della sua infanzia; ed era anche persuasa che al mondo non vi fosse un uomo amabile come suo padre. Entrando nella vita, aveva subito disperato di trovare altrove una tale ricchezza naturale, una tale pienezza di forze attive e pensanti. Questo sgomento l'aveva seguita nella scelta d'un marito, e forse, in seguito, in una scelta segreta e più libera.

Suo marito, veramente, non l'aveva scelto lei. Non sapeva nulla: s'era lasciata maritare da suo padre, che, allora vedovo, imbarazzato e inquieto della cura delicata di una figlia, in mezzo ad una vita affaccendata ed intensa, aveva voluto, secondo il suo solito, fare presto e bene. Egli considerò i vantaggi esteriori, le convenienze, apprezzò i ventiquattr'anni suonati di nobiltà imperiale che portava il conte Martin, colla gloria ereditaria d'una famiglia che aveva dato dei ministri al Governo di Luglio e all'impero liberale. Non gli era nemmeno venuta l'idea che essa cercasse l'amore nel matrimonio.

Si lusingava che vi troverebbe la soddisfazione dei desiderii fastosi ch'egli le attribuiva, la gioia d'essere e di apparire, quella grandezza comune e forte, quella dominazione materiale, che formavano per lui tutto il pregio della vita, non avendo affatto, del resto, idee troppo precise sulla felicità di una donna onesta in questo mondo, ma perfettamente sicuro che sua figlia rimarrebbe una donna onesta. Era questo, nella sua anima, un punto che non aveva mai approfondito, una certezza istintiva. Pensando a questa fiducia assurda e naturale, che si accordava così male coll'esperienza e colle idee di Montessuy sulle donne, ella sorrise con una malinconica ironia. E ammirava maggiormente suo padre, troppo saggio per crearsi una saggezza importuna.

Dopo tutto, non l'aveva così male maritata, a giudicare il matrimonio per quello che è nelle alte sfere. Suo marito ne valeva bene un altro. Era diventato pienamente sopportabile. Di tutto quanto essa leggeva nelle ceneri, alla luce velata delle lampade, di tutti i suoi ricordi, quello della vita coniugale era il più sbiadito. Ne ritrovava alcuni tratti isolati, d'una precisione penosa, alcune immagini assurde, un'impressione vaga e fastidiosa. Quel tempo aveva durato poco e non lasciava niente dietro di . Dopo sei anni, non si ricordava nemmeno più bene come avesse ripreso la sua libertà, tanto la conquista n'era stata pronta e facile, su quel marito freddo, malaticcio, egoista e sgarbato, su quell'uomo inaridito, ingiallito negli affari e nella politica, laborioso, ambizioso, mediocre. Egli amava le donne soltanto per vanità, e non aveva mai amato sua moglie. La separazione era stata franca, completa. E da allora, estranei l'uno all'altra, si erano grati tacitamente della loro mutua liberazione, ed essa avrebbe provato dell'amicizia per lui se non l'avesse trovato malizioso, subdolo e troppo scaltro nell'ottenere la sua firma quando aveva bisogno di danaro per delle imprese in cui metteva più ostentazione che avidità. All'infuori di ciò, quell'uomo col quale essa pranzava, discorreva tutti i giorni, conviveva, viaggiava, non rappresentava niente per lei, non aveva importanza.

Raccolta in se stessa, colla guancia sulla mano, davanti al focolare spento, come una curiosa che consultava una sibilla, mentre rievocava quegli anni di solitudine, rivide la figura del marchese di . La rivide, questa, così netta e precisa, che ne rimase sorpresa. Condotto presso di lei da suo padre che gliene aveva detto un gran bene, il marchese di le apparve grande e bello per trent'anni di trionfi e di glorie mondane. Le sue avventure gli mettevano intorno una specie d'aureola. Egli aveva sedotto tre generazioni di donne e lasciato nel cuore di tutte quelle che aveva amato un imperituro ricordo. La sua grazia virile, la sua eleganza sobria e l'abitudine di piacere, prolungavano la sua giovinezza molto al di del termine comune. Egli notò in modo speciale la contessa Martin. Gli omaggi di questo buon intenditore la lusingarono. In questo momento se li ricordava ancora con piacere. Egli aveva un modo meraviglioso di conversare. Le piacque: essa glielo lasciò capire, e da allora egli si propose, nella sua eroica frivolezza, di chiudere degnamente la sua vita felice col possesso di questa giovane signora che apprezzava sopra tutte, e che evidentemente aveva della simpatia per lui. Per averla, sfoggiò la sua arte più sottile. Ma Teresa riuscì a sfuggirgli molto facilmente.

Ella cedette, due anni dopo, a Roberto Le Ménil che l'aveva fortemente desiderata, con tutto l'ardore della sua giovinezza, tutta la semplicità dell'anima sua. Ella si diceva: «Mi sono data a lui, perchè mi amavaEra la verità. Ed era pur vero che un istinto sordo e possente l'aveva spinta, ed essa aveva obbedito alle forze oscure di tutto il suo essere. Ma non era dipeso da lei; quel che proveniva dalla sua volontà e dalla sua coscienza, era d'aver creduto, consentito, voluto, un affetto vero. Aveva ceduto appena s'era vista amata sino alla sofferenza. S'era data subito, con semplicità. Egli credette che si fosse data leggermente: s'ingannava. Aveva sentito lo sgomento dell'irreparabile, e quella specie di vergogna per avere ad un tratto qualcosa da nascondere. Tutto quello che era stato susurrato davanti a lei intorno alle donne che hanno un amante, le tornò a ronzare agli orecchi ardenti. Ma, fiera e delicata com'era, nella perfezione del suo gusto, ebbe cura di nascondere il valore del dono che faceva, e di non dir nulla che potesse impegnare il suo amico al di dei suoi sentimenti. Egli non sospettò quel malessere morale, che del resto durò appena pochi giorni, e si dileguò in una perfetta tranquillità. Dopo tre anni, non aveva da rimproverarsi per quella sua condotta innocente e naturale. Non avendo fatto torto a nessuno, non provava rimorsi. Era contenta: quella relazione era ancora quanto vi fosse di meglio nella vita. Amava, ed era amata. Certo: non aveva provato l'ebbrezza che sognava: ma si prova mai, nella vita? Era l'amica d'un buono ed onesto giovane, molto apprezzato dalle donne, molto ricercato in società, che passava per sdegnoso e difficile, e che le dimostrava un vero affetto. Il piacere che ella gli dava e la gioia d'esser bella per lui, la tenevano avvinta a quest'amico. Egli le rendeva la vita, non già sempre deliziosa, ma molto facile a sopportare, e, in certi momenti, veramente gradevole.

Quello che non aveva indovinato nella sua solitudine, malgrado l'avvertimento del suo malessere vago e delle tristezze senza motivo, la sua natura intima, il suo temperamento, la sua vera vocazione, egli glieli aveva rivelati: si conobbe, conoscendolo. Fu uno stupore felice. La loro simpatia reciproca non era nell'intelletto nell'anima: essa aveva per lui un gusto semplice che non si esauriva troppo in fretta. E, in quel momento stesso, si compiaceva all'idea di ritrovarlo, l'indomani, nel piccolo appartamento di via Spontini, in cui si vedevano da tre anni. Fu con una piccola scossa del capo assai violenta, con un alzar di spalle assai più brusco di quel che non si potesse aspettare da questa squisita signora, che, sola all'angolo del fuoco ormai estinto, disse tra : «Ecco: ho bisogno d'amore, io!»

              





1         In inglese: cara, diletta.



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