Anatole France
Il giglio rosso

II.

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               II.

Era quasi buio, quando uscirono dal mezzanino di via Spontini. Roberto Le Ménil fece segno ad un vetturino che passava; e, gettando sulla bestia e sull'uomo uno sguardo inquieto, salì con Teresa nella carrozza. L'uno contro l'altra, correvano fra ombre vaghe, solcate da luci brusche, attraverso la città fantasma, avendo nell'anima soltanto delle impressioni dolci e languenti, come quei chiarori che venivano a smorzarsi sui vetri annebbiati. Tutto, al di fuori, sembrava loro confuso e fuggente, e sentivano nell'anima un vuoto dolcissimo. La vettura arrivò vicino al Ponte Nuovo, sul Lungo Senna, agli Augustins.

Discesero. Un freddo secco ravvivava quel tempo grigio di gennaio. Teresa aspirò giocondamente, sotto la veletta, i soffii che, attraversando il fiume, spazzavano rasente il suolo una polvere acre e bianca come il sale. Era contenta di andare libera fra le cose sconosciute. Le piaceva vedere quel paesaggio di pietre, avvolto nel chiarore debole e profondo dell'aria; camminare in fretta lungo l'argine in cui gli alberi spiegavano la trama nera dei loro rami sull'orizzonte arrossato dai fiumi della città; guardare, china sul parapetto, lo stretto braccio della Senna che svolgeva le sue acque tragiche; gustare quella tristezza del fiume senza sponde, senza salici faggi. Già, nelle lontananze del cielo, le prime stelle scintillavano.

– Si direbbe – ella osservò – che il vento sta per spegnerle.

Anch'egli notò che scintillavano straordinariamente. Non pensava che fosse un indizio di pioggia come credevano i contadini: aveva notato, al contrario, che, nove volte su dieci, lo scintillio delle stelle annunzia il bel tempo.

Avvicinandosi al Piccolo Ponte, trovarono alla loro destra delle bottegucce di ferravecchi, illuminate da lampade fumose. Essa vi corse, frugò collo sguardo la polvere e la ruggine degli oggetti in mostra. Col suo istinto di cercatrice risvegliato, svoltò l'angolo della strada e s'avventurò fin verso una baracca di legno, nella quale, sotto le travi umide del soffitto, pendevano dei cenci scuri. Dietro i vetri sporchi, una candela rischiarava delle casseruole, dei vasi di porcellana, un clarinetto e una corona da sposa.

Egli non riusciva a capire il piacere di lei:

– Ti attaccherai del sudiciume. Cosa mai può interessarti, dentro?

– Tutto. Penso alla povera sposa la cui corona è sotto una campana di vetro. Hanno fatto il pranzo di nozze alla porta di Maillot. C'era nel corteo una guardia repubblicana: ce ne sono in quasi tutti i matrimoni che si vedono al Bosco, al sabato... Non ti commuovono, amico mio, tutti questi poveri esseri ridicoli e miserabili, che entrano a loro volta nella grandezza del passato?

Fra tazzine fiorite, slabbrate e scompagnate, essa scoprì un coltellino il cui manico d'avorio raffigurava una donna schiacciata e lunga, pettinata alla Maintenon. Lo comprò per pochi soldi: quel che l'incantava, era che aveva la forcella. La Ménil confessò che non s'intendeva affatto di ninnoli da antiquario; ma sua zia di Lannois era molto intenditrice. A Caen gli antiquari non parlavano che di lei. Essa aveva restaurato e mobiliato il suo castello in perfetto stile. Era l'antica casa di campagna di Giovanni Le Ménil, consigliere al parlamento di Rouen, nel 1779. Quella casa, che esisteva prima di lui, era menzionata in un atto del 1690, col nome di «casa di bottiglia». In una sala a pianterreno, si trovavano ancora, in fondo agli armadi bianchi, sotto una grata, i libri raccolti da Giovanni Le Ménil. Sua zia di Lannoisdiceva – aveva voluto metterli in ordine; ma ci aveva trovato delle opere frivole, adorne da incisioni così licenziose, che era stata costretta a bruciarle.

– È dunque così bestia, vostra zia? – chiese Teresa.

Da un po' di tempo, queste storie della signora di Lannois la seccavano. Il suo amico aveva in provincia una madre, delle sorelle, delle zie; una numerosa famiglia, che essa non conosceva e che l'irritava. Egli ne parlava con ammirazione; ciò che la urtava. S'impazientiva per i frequenti soggiorni ch'egli faceva in quella famiglia, e dai quali riportava, secondo lei, un odor di rinchiuso, delle idee meschine, dei sentimenti che la ferivano. E, da parte sua, egli si stupiva ingenuamente e soffriva di questa antipatia.

Egli tacque. La vista di un'osteria, i cui vetri sfavillavano attraverso le sbarre, gli ricordò ad un tratto il poeta Choulette, che passava per un ubbriacone. Chiese con un po' di malumore a Teresa se vedeva ancora questo Choulette, che le faceva delle visite in palandrana, con un cravattone rosso che gli arrivava sopra gli orecchi.

Essa rimase contrariata che parlasse come il generale Larivière. Non gli confessò che non aveva più visto Choulette dall'autunno scorso, e che egli la trascurava coll'indifferenza di un uomo occupato, capriccioso, che non si curava della vita di società.

– Ha molto ingegno, – disse – della fantasia, e un temperamento originale. Mi piace.

E poich'egli le rimproverava di avere un gusto bizzarro, rispose vivacemente:

– Io non ho un gusto, ma dei gusti. Voi non li biasimate tutti, credo.

No, non la biasimava; temeva soltanto che non facesse troppo bella figura nel ricevere un artista disperato di cinquant'anni, che non si trovava a posto in una casa rispettabile.

Ella protestò:

– Non è a posto in una casa rispettabile, Choulette? Non sapete dunque che egli va, tutti gli anni, a passare un mese in Vandea, dalla marchesa di Rieu... sì, dalla marchesa di Rieu, la cattolica, la realista la vecchia chouanne reazionaria, come si dichiara lei stessa. Ma, dal momento che Choulette v'interessa, state a sentire la sua ultima avventura, come me l'ha raccontata Paolo Vence. Io la comprendo meglio in questa via, dove ci sono delle camiciuole e dei vasi di fiori alle finestre.

«Quest'inverno, una sera che pioveva, Choulette incontrò da un liquorista, in una via di cui non ricordo il nome, ma che deve somigliare a questa per la miseria, una disgraziata ragazza, che i garzoni del liquorista avrebbero disprezzato, e che egli amò per la sua umiltà. Si chiamava Maria. Non è il suo nome: è quello che trovò sopra una targhetta inchiodata sulla sua porta, in cima alla scala di una camera mobiliata dov'era andata ad alloggiare. Choulette rimase commosso per quella perfezione di povertà e d'infamia. La chiamò «sorella», e le baciò le mani. Da quel momento, non la lascia più. La conduce, senza cappello e con un fazzoletto in testa, nei caffè del quartier latino, dove gli studenti ricchi leggono le riviste. Le dice delle cose dolcissime. Egli piange; lei piange. Bevono; e, quando hanno bevuto, si picchiano. Egli l'ama; la chiama la castissima, sua croce e sua salvezza. Essa era scalza; egli le ha dato una matassa di grossa lana e i ferri per farsi delle calze. Egli stesso mette alle scarpe di quella disgraziata dei chiodi enormi. Le insegna dei versi molto facili a capirsi. Teme di sciupare la sua bellezza morale, levandola dall'abbiezione in cui vive in una semplicità perfetta e in una mirabile abnegazione.

Le Ménil alzò le spalle.

– Ma è pazzo, quello Choulette, e il signor Paolo Vence vi racconta delle belle storie! Io non sono un puritano, certamente; ma ci sono delle immoralità che mi disgustano.

Camminavano a caso. Ella diventò pensierosa:

– Sì, lo so, la morale, il dovere!... Ma che cosa sia il dovere, il diavolo soltanto lo sa. Vi assicuro che, per tre quarti del tempo, non so proprio dove stia di casa il dovere. È come il riccio di Miss, a Joinville: passavamo la sera a cercarlo sotto i mobili; e quando l'avevamo trovato, andavamo a letto.

Secondo lui, c'era del vero, in quel che lei diceva, e più ancora che non credesse. Ci pensava, quand'era solo.

– È per questo che rimpiango qualche volta di non esser rimasto nell'esercito. Prevedo quel che mi direte: in quel mestiere ci si abbrutisce. Senza dubbio, ma si sa esattamente quel che si deve fare; ed è già molto, nella vita. Io trovo che l'esistenza di mio zio, il generale La Briche, è una bellissima esistenza, tutta onore, e assai piacevole. Ma, adesso che il paese intero s'ingolfa nell'esercito, non ci sono ufficiali soldati. Somiglia ad una stazione, alla domenica, quando gli impiegati spingono in vettura i passeggeri storditi. Mio zio La Briche conosceva personalmente tutti gli ufficiali e tutti i soldati della sua brigata: ha ancora i loro nomi in un gran quadro nella sua sala da pranzo. Li rilegge ogni tanto per distrarsi. Ma al giorno d'oggi, come volete che un ufficiale conosca i suoi uomini?

Essa non lo ascoltava più. Guardava, all'angolo della via Galande, una venditrice di patate fritte, che, rannicchiata dietro un'intelaiatura a vetri, col viso illuminato, in mezzo a grandi ombre, da un fuoco di brace, affondava la schiumarola nella frittura bollente, ne levava degli spicchi dorati con cui riempiva un cartoccio di carta gialla dove brillavano dei fili di paglia, mentre una ragazza coi capelli rossastri, attenta, tendeva un pezzo da due soldi nella sua mano rossa.

Quando la ragazza se ne fu andata col suo cartoccio, Teresa, gelosa, s'accorse che aveva fame, e volle assolutamente assaggiare quelle patate fritte.

Egli dapprima resistè.

– Non si sa di che cosa sieno fatte.

Ma poi dovette chiedere alla venditrice un cartoccio da due soldi, pregando che vi mettesse del sale.

Mentre Teresa, colla veletta rialzata sul naso, mordeva gli spicchi dorati, egli la trascinava nelle stradette deserte, lontano dai fanali a gas. Si trovarono così ricondotti sulla riva della Senna, e videro la massa nera della Cattedrale, che s'inalzava di dallo stretto braccio del fiume. La luna, sospesa sulla cresta merlata della cupola, inargentava il pendio del tetto.

Notre-Dame! – diss'ella. – Guardate: è pesante come un elefante e fine come un insetto. La luna si arrampica sopra, e la guarda con una malizia da scimmia. Non sembra la luna campagnuola di Joinville. A Joinville, ho il mio sentiero, un sentiero piano, colla luna in fondo. Non c'è tutte le sere; ma ci ritorna fedelmente, piena, rossa, familiare. È una vicina di campagna, una signora dei dintorni. Le vado incontro con molta serietà, per cortesia e per amicizia: ma questa luna di Parigi, non c'è gusto a frequentarla. Non è una persona di buona compagnia. Quante ne ha viste, da quando striscia sui tetti!

Egli sorrise teneramente:

– Oh! il tuo piccolo sentiero, in cui passeggiavi sola e che dicevi di amare perchè aveva il cielo in fondo, non troppo alto, non troppo lontano, lo vedo come se ci fossi!

Era al castello di Joinville, invitato da Montessuy ad una caccia, ch'egli l'aveva vista per la prima volta, che l'aveva subito amata, voluta. Fu , una sera, sul margine del piccolo bosco, che le aveva detto di amarla, e che essa lo aveva ascoltato, muta, colla bocca dolorosa e gli occhi vaganti nel vuoto.

Questo ricordo del piccolo sentiero in cui passeggiava sola, in quelle notti d'autunno, lo commosse, lo turbò, gli fece rivivere le ore incantevoli dei primi desideri e delle timide speranze. Cercò la mano di lei nel suo manicotto e le strinse il polso esile sotto la pelliccia.

Una ragazzina, che portava delle violette in un cestello intrecciato di rami d'abete, indovinò due innamorati, e venne ad offrir loro dei fiori. Egli prese un mazzolino da due soldi e l'offerse a Teresa.

Ella andava verso la Cattedrale. Pensava: È una bestia enorme; una bestia dell'Apocalisse...»

All'altro lato del ponte, una fioraia, tutta rughe, barbuta, quella, grigia d'anni e di polvere, li inseguì col suo paniere carico di mimose e rose di Nizza. Teresa, che in quel momento teneva in mano le sue violette, cercando di farle scivolare nel corsetto, rispose gaiamente alle offerte della vecchia:

Grazie; ho già quel che mi occorre.

– Si vede bene che siete giovane! – le gridò in tono canagliesco la vecchia, allontanandosi.

Teresa comprese quasi subito, e le venne sulle labbra e all'occhio un piccolo sorriso. Passavano nell'ombra del vestibolo davanti alle figure di pietra che, allineate nelle nicchie, portavano degli scettri e delle corone.

Entriamodisse.

Egli non ne aveva voglia. Provava confusamente una specie di turbamento, quasi del timore, ad entrare con lei in una chiesa. Affermò che era chiusa; lo credeva, lo voleva. Ella spinse il battente, e s'inoltrò nella navata immensa, in cui gli alberi inanimati delle colonne salivano verso le alte tenebre. In fondo, si muovevano dei ceri, davanti a fantasmi di preti, sotto gli ultimi gemiti degli organi che tacquero. Ella ebbe un brivido nel silenzio, e disse:

– La tristezza delle chiese, di notte, mi commuove; vi sento la grandezze del nulla.

Egli rispose:

– Eppure, noi dobbiamo credere a qualche cosa. Se non ci fosse Dio, se la nostra anima non fosse immortale, sarebbe troppo triste.

Ella rimase per qualche tempo immobile, sotto i velari d'ombra che pendevano dalle vôlte, poi disse:

– Mio povero amico, non sappiamo che fare di questa vita così corta, e voi ne vorreste un'altra che non finisse mai!

Nella vettura che li ricondusse, egli disse allegramente che aveva passato una buona giornata. L'abbracciò, contento di lei e di . Ma Teresa non condivideva quel buon umore. Era una cosa che succedeva il più delle volte, fra loro. Gli ultimi momenti che passavano insieme erano guastati, per lei, dal presentimento che egli non direbbe, partendo, la parola che sarebbe stato necessario dire. Di solito, la lasciava bruscamente, come se in lui le cose non avessero un seguito. A ciascuna di queste separazioni, ella aveva il sentimento confuso d'una rottura. Ne soffriva in anticipo e diventava irritabile.

Sotto gli alberi del Corso della Regina, le prese la mano, mettendovi sopra dei piccoli baci.

– Non è vero, Teresa, che è raro amarsi come noi ci amiamo?

Raro, non so; ma credo che mi amiate.

– E voi?

– Anch'io vi amo.

– E mi amerete sempre?

– Che ne sappiamo?

E vedendo il viso del suo amico oscurarsi:

– Sareste più tranquillo, con una donna che giurasse di non amare che voi nella vita?

Egli restava inquieto, coll'aria addolorata. Ella fu buona, e lo rassicurò interamente:

– Lo sapete bene, amico mio, non sono una donna leggera. Non sono una scialacquatrice, come la principessa Seniavine.

Quasi in fondo al Corso della Regina, si salutarono, sotto gli alberi. Egli tenne la vettura, per farsi condurre in Via Reale. Cenava al Circolo e andava a teatro; non aveva tempo da perdere.

Teresa tornò a casa a piedi. In vista della collina del Trocadero, che lanciava dei fuochi come una collana di diamanti, si ricordò la fioraia del Piccolo Ponte. Quella parola, gettata nel vento oscuro: «Si vede bene che siete giovane!», le tornava alla memoria, non più beffarda ed allegra, ma inquietante e triste. «Si vede bene che siete giovane!» – Sì, era giovane, era amata; – e si annoiava.

              


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