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In mezzo alla tavola, un vaso artistico chiudeva un mazzo di fiori nel suo largo cerchio di bronzo dorato, in cui le aquile spiegavano il volo fra stelle ed api, sotto le anse massicce in forma di cornucopie. Ai lati, delle Vittorie alate sostenevano le braccia fiammeggianti dei candelabri. Quell'alzata di stile Impero era stata regalata da Napoleone, nel 1812, al conte Martin de l'Aisne, nonno dell'attuale conte Martin-Bellème. Martin de l'Aisne, deputato al Corpo Legislativo nel 1809, fu nominato l'anno dopo membro della Commissione delle finanze, i cui lavori assidui e segreti convenivano al suo spirito laborioso e timido. Benchè liberale d'origine e di tendenze, egli piacque all'imperatore per la sua assiduità e per una esatta probità che sapeva non rendersi importuna. Per due anni, fu sotto una pioggia di favori. Nel 1813, fece parte di quella maggioranza moderata che approvò il rapporto nel quale Lainé, dando all'Impero vacillante delle lezioni tardive, censurava ad un tempo la potenza e la sventura. Il 1° gennaio 1814, accompagnò i suoi colleghi alle Tuileries. L'Imperatore fece loro un'accoglienza spaventosa. Fece una carica a fondo nelle loro file. Violento e cupo, nell'orrore della sua forza presente e della sua caduta imminente, li investì colla sua collera e il suo disprezzo.
Andava e veniva nelle loro file costernate; quando, ad un tratto, afferrò a caso il conte Martin per le spalle, lo scosse, lo trascinò, gridando: «Un trono, son forse quattro pezzi di legno coperti di velluto? No! un trono è un uomo, e quest'uomo sono io! Voi avete voluto gettarmi nel fango. È forse il momento di farmi delle rimostranze, quando duecentomila cosacchi varcano le nostre frontiere? Il vostro signor Lainé è un cattivo soggetto. I panni sporchi si lavano in famiglia.» E mentre il suo furore si sfogava, sublime e triviale, egli torceva nella sua mano il bavero ricamato del deputato dell'Aisne. «Il popolo mi conosce. Voi, non vi conosce affatto. Io sono l'eletto della nazione: voi siete i delegati oscuri di un dipartimento.» Predisse loro la sorte dei Girondini. Il rumore dei suoi speroni accompagnava gli scatti della sua voce. Il conte Martin ne rimase tremante e balbuziente, per tutto il resto della sua vita; e fu tremando che, tappato nella sua casa di Laon, egli chiamò i Borboni dopo la disfatta dell'imperatore. Invano le due restaurazioni, il governo di Luglio e il secondo impero, coprirono di croci e di cordoni il suo petto sempre oppresso. Inalzato alle più elevate funzioni, coperto d'onori da tre re e da un imperatore, egli sentì sempre sulla sua spalla la mano del Côrso. Morì senatore di Napoleone III, lasciando un figlio agitato dal tremito ereditario.
Questo figlio aveva sposato la signorina Bellème, figlia del primo presidente della corte di Bourges; e, con lei, le glorie politiche di una famiglia che aveva dato tre ministri alla monarchia temperata. I Bellème, magistrati sotto Luigi XV, rialzarono le origini giacobine dei Martin. Il secondo conte Martin fece parte di tutte le assemblee fino alla sua morte, avvenuta nel 1881. Carlo Martin-Bellème, suo figlio, conquistò, senza fatica, il suo seggio alla Camera. Avendo sposato la signorina Teresa Montessuy, la cui dote venne a rafforzare la sua fortuna politica, si segnalò discretamente fra quei quattro o cinque borghesi titolati e ricchi che, avendo aderito alla democrazia e alla Repubblica, furono ricevuti senza troppa cattiva grazia dai repubblicani di carriera, lusingati dall'aristocrazia dei nomi e rassicurati dalla mediocrità degli spiriti.
Nella sala da pranzo, in cui, sulle porte, s'indovinava qua e là, nell'ombra, il pelo screziato dei cani d'Oudry, davanti al trionfo seminato di stelle e d'api dorate, fra le due Vittorie che reggevano dei lampadari, il conte Martin-Bellème faceva gli onori della tavola, con quella buona grazia un po' taciturna, quella cortesia triste, ancora indicata all'Eliseo per rappresentare, di fronte ad una grande corte del Nord, la Francia isolata e raccolta. Egli rivolgeva, ogni tanto, delle parole scialbe, a destra, alla signora Garain, moglie dell'ex-guardasigilli; a sinistra, alla principessa Seniavine; che, carica di brillanti, si annoiava in modo tremendo. In faccia a lui, dall'altro lato del gran vaso di fiori, la contessa Martin, avendo ai fianchi il generale Larivière e Schmoll, dell'Accademia delle Iscrizioni, accarezzava coi soffi del ventaglio le sue spalle fini e pure. Ai due lati in semicerchio, in cui si prolungava la tavola, sedevano Montessuy, robusto, dall'occhio azzurro e il colorito vivo; una giovane cugina, signora Bellème de Saint-Nom, imbarazzata colle sue lunghe braccia magre; il pittore Duvicquet, Daniele Salomon, Paolo Vence, il deputato Garain, il signor Bellème de Saint-Nom, un senatore sconosciuto, e Dechartre, che pranzava per la prima volta in quella casa. La conversazione, dapprima debole e stentata, si rialzò, si prolungò in un mormorio confuso, sul quale dominò la voce di Garain:
– Ogni idea falsa è pericolosa. Si crede che i sognatori non facciano del male, ma ci si sbaglia: ne fanno molto. Le utopie più innocue in apparenza, esercitano realmente un'azione nefasta. Esse tendono ad ispirare il disgusto della realtà.
– Fors'anche – disse Paolo Vence – perchè la realtà è tutt'altro che bella.
L'ex-guardasigilli protestò che egli era l'uomo disposto a tutti i miglioramenti possibili. E, senza ricordare che aveva chiesto, sotto l'Impero, la soppressione degli eserciti permanenti, e, nel 1880, la separazione della Chiesa dallo Stato, dichiarò che, coerente al suo programma, restava il servitore devoto della democrazia. La sua divisa, diceva, era: «Ordine e Progresso». Credeva realmente di averla scoperta lui.
Montessuy replicò, colla sua bonomia rude:
– Via, signor Garain, siate sincero. Confessate che non c'è nessuna riforma da fare, e che tutt'al più si può cambiare il colore dei francobolli. Buone o cattive, le cose sono quelle che devono essere. Sì – aggiunse – le cose sono quelle che devono essere. Dopo il 1870, la situazione finanziaria del paese ha attraversato quattro o cinque rivoluzioni, che gli economisti non avevano previsto e che non comprendono ancora. Nella società, come nella natura, le trasformazioni avvengono dal di dentro.
In materia di governo, egli aveva delle vedute corte e nette. Fortemente attaccato al presente e poco preoccupato dell'avvenire, i socialisti non lo turbavano molto. Senza preoccuparsi se il sole e il capitale, un giorno, dovessero estinguersi, intanto li godeva. Secondo lui, bisognava lasciarsi condurre dagli avvenimenti. Non c'erano che gli imbecilli, che resistevano alla corrente, e i pazzi che la precedevano.
Ma il conte Martin, triste per natura, aveva dei cupi presentimenti. Annunziava con frasi velate delle catastrofi.
Le sue parole paurose vennero, attraverso il vaso di fiori, ad impressionare Schmoll, che cominciò a gemere ed a profetare. Spiegò che i popoli cristiani erano incapaci, da soli e per se stessi, di uscire completamente dalla barbarie, e che, senza gli Ebrei e gli Arabi, l'Europa sarebbe oggi ancora, come ai tempi delle crociate, immersa nell'ignoranza, nella miseria, nella crudeltà.
– Il medio-evo – disse – non è finito che nei manuali di storia, che si danno agli scolari per falsare il loro spirito. In realtà, i barbari sono sempre barbari. La missione d'Israele è di istruire le nazioni. Fu Israele che, nel medioevo, portò in Europa la saggezza dell'Asia. Il socialismo vi fa paura. È un male cristiano, come il monachismo. E l'anarchia? Non vi riconoscete la vecchia lebbra degli Albigesi e dei Valdesi? Soltanto gli Ebrei, che istruirono e riordinarono l'Europa, possono oggi salvarla dal male evangelico da cui è divorata. Ma essi sono venuti meno al loro dovere. Si son fatti cristiani fra i cristiani: e Dio li punisce. Egli permette che sieno esiliati e spogliati. L'antisemitismo fa dappertutto dei progressi spaventosi. In Russia, i miei correligionari sono perseguitati come delle bestie feroci. In Francia gli impieghi civili e militari sono chiusi agli ebrei: essi non possono più entrare nei circoli aristocratici. Mio nipote, il giovane Isacco Coblentz, ha dovuto rinunziare alla carriera diplomatica, dopo aver brillantemente superato l'esame d'ammissione. Le signore di parecchi miei colleghi, quando mia moglie fa loro visita, spiegano sotto i suoi, occhi, con ostentazione, dei giornali antisemiti. E credereste che il ministro della pubblica istruzione m'ha rifiutato la croce di commendatore che gli avevo chiesto? Ecco l'ingratitudine! ecco l'aberrazione! L'antisemitismo è la morte, comprendete bene, la morte della civiltà europea.
Quel piccolo uomo era un tipo che superava ogni arte. Grottesco e terribile, costernava i convitati colla sua sincerità. La signora Martin, che si divertiva, si congratulò con lui:
– Almeno – gli disse – voi difendete i vostri correligionari; voi non siete, signor Schmoll, come una bellissima signora ebrea di mia conoscenza, che, avendo letto in un giornale che essa riceveva il fiore della società israelita, andò a gridare dappertutto che la insultavano.
– Sono sicuro che voi non sapete, signora, quanto la morale ebraica sia bella e superiore alle altre morali. Conoscete la parabola dei Tre Anelli?
Questa domanda si perdette nel rumore dei dialoghi in cui s'incrociavano la politica estera, le esposizioni di pittura, gli scandali eleganti e i discorsi accademici. Si parlò del nuovo romanzo e della prossima rappresentazione. Era una commedia: Napoleone v'entrava in un episodio.
La conversazione volse su Napoleone, messo molte volte sul teatro e nuovamente studiato in libri molto letti, oggetto di curiosità, personaggio alla moda, non più eroe popolare, semidio della patria in stivaloni, come ai tempi in cui Norvins e Béranger, Charlet e Raffet creavano la sua leggenda; ma personaggio curioso, tipo divertente nella sua intimità vivente, figura il cui stile piaceva agli artisti, le cui avventure interessavano gli sfaccendati.
Garain, che aveva fondato la sua fortuna politica sull'odio contro l'Impero, giudicava sinceramente che questo ritorno del gusto nazionale non era che un entusiasmo assurdo. Non vi trovava nessun pericolo e non sentiva timore. In lui la paura esplodeva improvvisa e feroce. Per il momento, era perfettamente tranquillo: perchè non parlò di proibire le rappresentazioni, nè di sequestrare i libri, nè di arrestare gli autori, nè di reprimer niente. Calmo e severo, non vedeva in Napoleone che il «condottiero» di Taine; che diede a Volney un calcio nel ventre.
Ognuno, volle definire il vero Napoleone. Il conte Martin, in faccia al vaso imperiale e alle Vittorie alate, parlò con rispetto di Napoleone organizzatore e amministratore, e lo esaltò come presidente del Consiglio di Stato, in cui la sua parola portava la luce cui punti oscuri.
Garain affermò che in quelle sedute troppo famose, Napoleone, col pretesto di prendere una presa di tabacco, domandava ai consiglieri le loro tabacchiere d'oro ornate di miniature, guernite di diamanti, che non restituiva più. Alla fine, al Consiglio non portavano più che delle tabacchiere di corno. L'aneddoto gli era stato raccontato dallo stesso figlio di Monnier.
Montessuy apprezzava in Napoleone il sentimento dell'ordine.
– Gli piacevano le cose ben fatte – disse. – È un gusto che s'è perduto.
Il pittore Duvicquet, che aveva delle idee da pittore, era imbarazzato. Non ritrovava sulla maschera funebre portata da Sant'Elena le caratteristiche di quella bella faccia possente, che le medaglie e i busti avevano consacrato. Ognuno poteva constatarlo, adesso, che il bronzo di quella maschera, levato dalle soffitte, si vedeva appeso da tutti gli antiquari, in mezzo ad aquile e a sfingi di legno indorato. E secondo lui, poichè il vero viso di Napoleone non era napoleonico, la vera anima di Napoleone poteva anche non essere napoleonica. Era forse quella di un buon borghese: qualcuno lo aveva detto, ed egli propendeva a crederlo. Del resto, Duvicquet, che si vantava di aver fatto i ritratti più illustri del secolo, sapeva che gli uomini celebri non somigliano molto all'idea che ce ne facciamo.
Daniele Salomon fece osservare che la maschera di cui parlava Duvioquet, il calco preso sul volto inanimato dell'imperatore e portato in Europa dal dottore Antonmarchi, era stato per la prima volta fuso in bronzo e riprodotto per sottoscrizione sotto Luigi Filippo, nel 1833, e che allora aveva ispirato sorpresa e diffidenza. Si sospettava quell'italiano, farmacista da commedia, chiacchierone e affamato, d'essersi burlato del mondo. I discepoli del dottor Gall, le cui teorie erano allora in voga, ritenevano che la maschera fosse sospetta. Non vi trovavano le protuberanze del genio; e la fronte, esaminata secondo la teoria del maestro, non presentava nella sua conformazione niente di notevole.
– Precisamente – disse la principessa Seniavine. – Napoleone non è degno di nota che per aver dato un calcio nel ventre di Volney, e per avere rubato delle tabacchiere ornate da brillanti. È il signor Garain che ce l'insegna.
– E ancora – aggiunse la signora Martin – non si è ben sicuri che abbia dato quel calcio.
– Come tutte le cose si vengono finalmente a sapere! – riprese allegramente la principessa – Napoleone non ha fatto niente: non ha nemmeno dato una pedata a Volney, e aveva la testa d'un cretino.
Il generale Larivière sentì che toccava ora a lui lanciarsi alla carica. Gettò questa frase:
– Quanto a Napoleone, la sua campagna del 1813 è molto discussa.
Il generale aveva in mente di piacere a Garain e non aveva altre idee; tuttavia, con un po' di sforzi, pervenne a formulare un giudizio d'insieme:
– Napoleone ha commesso degli errori; nella sua posizione non doveva commetterne.
E tacque, molto rosso in viso.
– E voi, signor Vence, che ne pensate di Napoleone?
– Signora, io non ho molta simpatia per i «musi da sciabola»; e i conquistatori mi sembrano semplicemente dei pazzi pericolosi. Malgrado tutto, questa figura d'Imperatore m'interessa come interessa il pubblico. Vi trovo del carattere e della vita. Non c'è poema nè romanzo d'avventura, che valga il Memoriale, che pure è scritto in modo ridicolo. Quello che penso di Napoleone, se volete saperlo, si è che, nato per la gloria, vi si mostra nella semplicità brillante di un eroe d'epopea. Un eroe dev'essere umano: Napoleone fu umano.
– Oh! oh! – fecero parecchi.
– Egli era violento e leggero; e per questo profondamente umano. Intendo dire uguale a tutti. Volle con una forza singolare tutto quello che la maggioranza degli uomini stima e desidera. Ebbe egli stesso le illusioni che diede ai popoli: fu la sua forza e la sua debolezza; fu la sua bellezza. Egli credeva alla gloria. Pensava della vita e del mondo, press'a poco quello che ne pensava uno dei suoi granatieri. Conservò sempre quella gravità infantile che si compiace dei giuochi delle sciabole e dei tamburi, e quella specie di candore che forma i buoni soldati. Stimava sinceramente la forza. Fu l'uomo degli uomini, la carne della carne umana. Non ebbe un pensiero che non si traducesse in azione, e tutte le sue azioni furono grandi e comuni. È questa volgare grandezza che forma gli eroi; e Napoleone fu l'eroe perfetto. Il suo cervello non andò mai di là dalla sua mano, quella mano piccola e bella che sconvolse il mondo. Egli non ebbe per un solo momento il desiderio di ciò che non poteva raggiungere.
– Allora, secondo voi., – disse Garain – non è un genio intellettuale. Sono del vostro parere.
– Certamente – riprese Vence – egli aveva il genio che occorre per volteggiare brillantemente nel circo civile e militare del mondo. Ma non aveva il genio speculativo. Questo genio è un altro paio di maniche, come dice Buffon. Noi possediamo la raccolta dei suoi scritti e delle sue parole. Lo stile ha il movimento e l'immagine. E in quell'ammasso di pensieri non si trova una curiosità filosofica, nessuna preoccupazione dell'inconoscibile, non un'inquietudine del mistero che avvolge il destino. A Sant'Elena, quando parla di Dio e dell'anima, sembra uno scolaretto quattordicenne. Gettata nel mondo, la sua anima si trovò pari al mondo e lo abbracciò tutto; niente di quell'anima andò a perdersi nell'infinito. Limitò alla terra il suo sogno possente della vita. Nella sua puerilità terribile e impressionante, credette che un uomo potesse essere grande, e questa convinzione infantile non lo abbandonò nemmeno col tempo e la sventura. La sua giovinezza, o piuttosto la sua sublime adolescenza, durò quanto lui, perchè i giorni della sua vita non s'erano aggiunti gli uni agli altri per formare una maturità cosciente. È la condizione prodigiosa degli uomini d'azione. Essi sono tutti interi nel momento in cui vivono, e il loro genio si concentra in un punto. Si rinnovano perennemente, e non si prolungano. Le ore della loro esistenza non sono collegate fra loro da una catena di meditazioni gravi e disinteressate. Essi non continuano a vivere; si succedono in un seguito d'azioni. Perciò mancano di vita interiore. Questo difetto è particolarmente sensibile in Napoleone, che non visse mai dentro di sè. Da ciò quella leggerezza di carattere che gli fece sopportare facilmente il peso enorme dei suoi mali e dei suoi errori. La sua anima sempre nuova, rinasceva ogni mattino. Ebbe più degli altri la capacità della distrazione. Il primo giorno che vide il sole sorgere sul suo scoglio funebre di Sant'Elena, saltò da letto fischiando un'aria di romanza. Era la pace di un'anima superiore alla fortuna, era sopratutto la leggerezza di uno spirito pronto a rinascere. Viveva esteriormente.
Garain., che non amava troppo questa ingegnosa piega di spirito e di linguaggio, volle affrettare la conclusione:
– In una parola, – disse – c'era del mostro in quell'uomo.
– I mostri non esistono – replicò Paolo Vence. – E gli uomini che passano per dei mostri, ispirano l'orrore. Napoleone fu amato da tutto un popolo. Fu la sua forza, di sollevare dietro i suoi passi l'amore degli uomini. La gioia dei suoi soldati era di morire per lui.
La contessa Martin avrebbe voluto che Dechartre dicesse pure il suo parere. Ma egli si schermì con una specie di sgomento.
– Conoscete – disse Schmoll – la parabola dei Tre Anelli, ispirazione sublime d'un ebreo portoghese?
Garain, pur felicitando Paolo Vence dei suoi brillanti paradossi, rimpiangeva che lo spirito si esercitasse così a spese della morale e della giustizia.
– C'è un principio fondamentale; – disse – ed è che gli uomini devono essere giudicati dalle loro azioni.
– E le donne? – chiese bruscamente la principessa Seniavine – le giudicate voi secondo le loro azioni? E come potete sapere quello che fanno?
Il suono delle voci si mescolava al tintinnio chiaro dell'argenteria. Un'aria calda, aggravata da vapori, bagnava la sala. Le rose, come appesantite, si sfogliavano sulla tovaglia. I pensieri salivano più ardenti ai cervelli.
Il generale Larivière si mise a sognare.
– Quando m'avranno tagliato l'orecchio – disse alla sua vicina – andrò a vivere a Tours, a coltivare dei fiori.
E si vantò d'essere un buon giardiniere. Avevano dato il suo nome ad una rosa, ed egli ne era lusingato.
Schmoll domandò ancora se conoscevano la parabola dei Tre Anelli.
Intanto la principessa stuzzicava il deputato.
– Non sapete dunque, signor Garain, che le stesse cose possono farsi per motivi ben differenti?
– È ben vero quello che dite, signora, che le azioni non provano niente. Questo pensiero colpisce in un episodio della vita di don Giovanni, che non è stato conosciuto ne da Molière, nè da Mozart, e che è rivelato da una leggenda inglese che m'ha insegnato il mio amico James Lovell, di Londra. Essa narra che il grande seduttore perdette il suo tempo con tre donne. Una di loro era una buona borghese, che amava suo marito; l'altra una religiosa, che non consentì a violare i suoi voti. La terza, che aveva da molto tempo condotto una vita dissoluta, diventata brutta, faceva la serva in un bugigattolo qualunque. Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto quello che vedeva, l'amore non l'interessava più. Queste tre donne tennero la stessa condotta per ragioni ben differenti. Un'azione non prova niente per se stessa. È l'insieme delle azioni, il loro peso, la loro somma, che forma il valore d'un essere umano.
– Alcune nostre azioni – disse la signora Martin – hanno il nostro aspetto, il nostro viso: sono figlie nostre. Altre invece non ci somigliano affatto.
Si alzò e prese il braccio del generale.
Passando in salotto a braccetto di Garain, la principessa disse:
– Ha ragione, Teresa... Delle altre non ci somigliano affatto. Sono come delle piccole negre che si sono avute dormendo.
Le ninfe degli arazzi sorridevano vanamente, nella loro freschezza appassita, agli ospiti che non le vedevano.
La signora Martin servì il caffè insieme alla sua giovane cugina, signora Bellème di Saint-Nom. Fece a Paolo Vence dei complimenti per quello che aveva detto a tavola.
– Avete parlato di Napoleone con una libertà di spirito che è assai rara nelle conversazioni che ascolto. Avevo notato che i bambini, se sono molto belli, hanno l'aria, quando fanno il broncio, di Napoleone la sera di Waterloo. Voi m'avete fatto sentire le ragioni molto profonde di questa somiglianza.
Poi, voltandosi verso Dechartre:
– Signora, io non amo la Rivoluzione. E Napoleone, è la Rivoluzione in stivaloni da soldato.
– Perchè non lo avete detto, signor Dechartre, durante il pranzo? Ma capisco: voi vi degnate di avere dello spirito soltanto negli angoli appartati.
Il conte Martin-Bellème condusse gli uomini nel salotto da fumo. Paolo Vence rimase solo colle signore: La principessa Seniavine gli chiese se aveva finito il suo romanzo e qual'era il soggetto. Era uno studio, in cui egli tentava di raggiungere quella verità formata da un seguirsi logico di verosimiglianze che, aggiuntele une alle altre, assumono l'aspetto dell'evidenza.
– In questo modo – egli disse – il romanzo acquista una forza morale che, nella sua pesante frivolezza, la storia non ha avuto mai.
Ella volle sapere se era un libro adatto per le signore, e lo scrittore disse di no.
– Avete torto, signor Vence, di non scrivere per le signore. È tutto quello di meglio che un uomo superiore può fare per loro.
E poich'egli voleva sapere come avesse quell'idea:
– Perchè – rispose – vedo tutte le donne intelligenti prendere degli imbecilli. – Che le annoiano...
– Senza dubbio. Ma gli uomini superiori le annoierebbero di più. Avrebbero maggiori risorse per riuscirvi... Ma raccontatemi il soggetto del vostro romanzo.
– Ci tenete proprio?
– Io non tengo a niente.
– Ebbene! ecco: è uno studio di costumi popolari, la storia di un giovane operaio sobrio e casto, bello come una fanciulla, con un'anima da vergine, un'anima chiusa. È cesellatore e lavora bene. La sera, accanto a sua madre, che ama, egli studia; legge dei libri. Nel suo spirito semplice e nudo, le idee penetrano come delle palle in un muro. Egli ha pochi bisogni; non ha le passioni nè i vizi che ci attaccano all'esistenza. È solitario e puro. Dotato di forti virtù, ne prova orgoglio. Vive in mezzo a dei miserabili bruti. Vede soffrire. Ha della devozione senza umanità; quella carità fredda che si chiama altruismo; non è umano, perchè non è sensuale.
– Ah! Bisogna essere sensuale, per essere umano?
– Certamente, signora. La pietà è nelle viscere, come la tenerezza è sulla pelle. Egli non è abbastanza intelligente per dubitare. È un credente: crede quello che ha letto. Ed ha letto che per realizzare la felicità universale bastava distruggere la società. La sete del martirio lo divora. Una mattina, dopo avere baciato sua madre, esce; va ad appostare il deputato socialista del suo collegio, lo vede, si getta sopra di lui e gli pianta un bulino nel ventre, gridando «Viva l'anarchia!». Lo arrestano, lo misurano, lo fotografano, lo interrogano, lo giudicano, lo condannano a morte e lo ghigliottinano. Ecco il mio romanzo.
– Non sarà molto divertente – disse la principessa. – Ma non è colpa vostra: i vostri anarchici sono altrettanto timidi e moderati quanto tutti gli altri Francesi. I Russi, quando ci si mettono, hanno assai più audacia e più fantasia.
La contessa Martin venne a chiedere a Paolo Vence se conosceva quel signore molto mellifluo, che non diceva niente e girava intorno a sè i suoi sguardi da cane sperduto. Lo aveva invitato suo marito; essa non sapeva nè il suo nome, nè niente.
Paolo Vence poteva dire soltanto che era un senatore. Lo aveva visto, un giorno, per caso, nel palazzo del Luxembourg, nella galleria che serve da biblioteca ai senatori.
– Ero andato là per esaminare la cupola in cui Delacroix ha dipinto, sopra uno sfondo di mirti azzurrognoli, gli eroi ed i savi dell'antichità. Aveva questa stessa aria povera e meschina; si scaldava. Mandava un odore di panni fradici. Discorreva con dei vecchi colleghi, e diceva, fregandosi le mani: «Per me, quello che prova che la Repubblica è il migliore dei governi, è il fatto che, nel 1871, ha potuto fucilare in una settimana, sessantamila insorti, senza diventare impopolare. Dopo una simile repressione, qualunque altro regime sarebbe stato impossibile».
– Ma allora è un pessimo soggetto – disse la signora Martin. – Ed io che provavo pietà per lui, vedendolo così timido e così imbarazzato!
La signora Garain, col mento mollemente chinato, sul petto, sonnecchiava nella pace della sua anima casalinga, e pensava al suo orto sul poggio della Loira, in cui venivano a salutarla i musicanti del paese.
Giuseppe Schmoll e il generale Larivière uscirono dal salotto dei fumatori, coll'occhio ancora scintillante per i discorsi grassi che avevano fatto. Il generale si sedette fra la principessa Seniavine e la signora Martin.
– Ho incontrato stamattina al Bosco la baronessa Warburg, che cavalcava una bestia superba. M'ha detto: «Generale, come fate dunque per avere sempre dei bei cavalli?» Le ho risposto: «Signora, per avere dei bei cavalli, bisogna essere o molto ricco, o molto furbo.»
Era così soddisfatto di questa risposta, che la ripetè due volte, strizzando l'occhio.
Paolo Vence si avvicinò alla contessa Martin:
– Ho saputo il nome del senatore: si chiama Loyer, è vice-presidente d'un gruppo, e autore d'un libro di propaganda intitolato: Il Delitto del 2 Dicembre.
– Faceva un tempo da cani. Mi sono rifugiato sotto la tettoia. C'era Le Ménil. Ero di cattivo umore; ed egli, in cuor suo, si rideva di me: l'ho capito. Egli s'immagina, perchè sono generale, che debba amare il vento, la grandine e la neve. È assurdo! M'ha detto che il cattivo tempo non gli dispiaceva, e che la settimana ventura sarebbe andato alla caccia della volpe con degli amici.
Vi fu un momento di silenzio; poi il generale riprese
– Gli auguro buon divertimento, ma non lo invidio. La caccia alla volpe è tutt'altro che piacevole.
– Ma è utile – disse Montessuy.
– La volpe non è dannosa per il pollaio che in primavera, quando ha i piccoli da nutrire.
– La volpe – replicò Montessuy – preferisce la conigliera aperta, al pollaio. È una cacciatrice di frodo che fa meno danno ai fittavoli che ai cacciatori. Io me n'intendo.
Teresa, distratta, non ascoltava la principessa che le parlava. Pensava:
«Non m'ha nemmeno avvisato che se n'andava!»
– A niente d'interessante.