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Nella cameretta oscura, silenziosa, soffocata da tende, portiere, cuscini, pelli d'orso e tappeti orientali, le spade, ai bagliori del fuoco ravvivato, scintillavano sulla tappezzeria delle pareti, fra i cartoni di tiro a bersaglio e gli sbiaditi orpelli delle vesti di tre inverni. Uno stipo di legno di rosa era sormontato da una coppa d'argento, un premio vinto da qualche società sportiva. Sulle lastre di porcellana dipinta del tavolinetto, un vaso di cristallo ornato di fregi in bronzo dorato, portava dei rami di lilla bianco; e da ogni parte delle luci palpitavano nell'ombra calda. Teresa e Roberto, cogli occhi abituati all'oscurità, si muovevano facilmente tra quegli oggetti familiari. Egli accese una sigaretta, mentr'ella riannodava i suoi capelli, in piedi, colla schiena verso il fuoco, davanti allo specchio in cui si vedeva appena. Ma non voleva lampade nè candele. Prendeva le spille nella piccola coppa di vetro di Boemia che era sulla tavola, a portata di mano, da tre anni; Egli la guardava passare rapidamente, nelle onde d'oro fulvo della sua capigliatura, le dita luminose, mentre il viso, duro e abbronzato dall'ombra, prendeva un'espressione misteriosa, quasi inquietante. Ella non parlava.
Le disse:
– Sei ancora in collera, cara?
E, insistendo perchè rispondesse, perchè dicesse qualcosa:
– Che volete che dica, amico mio? Non posso che ripetere quel che vi ho detto venendo. Trovo strano che debba essere informata dei vostri progetti dal generale Larivière.
Egli sapeva bene ch'era ancora irritata, ch'era rimasta vicino a lui fredda e contrariata, senza l'abbandono che di solito la rendeva così deliziosa. Ma finse di credere che si trattasse di un piccolo broncio che stava per finire.
– Mia cara, vi ho già spiegato la cosa. V'ho detto e vi ripeto che; quando ho incontrato Larivière, avevo ricevuto proprio allora una lettera di Caumont che mi ricordava la mia promessa d'andare a cacciare la volpe nel suo bosco, e gli avevo risposto a volta di corriere. Contavo di avvertirvi oggi. Mi dispiace che l'abbia fatto prima il generale Larivière, ma la cosa non ha importanza.
Colle braccia alzate ad ansa sulla testa, Teresa voltò su lui uno sguardo tranquillo, ch'egli non comprese.
– Allora partite?
– La settimana prossima, martedì o mercoledì. Resterò assente dieci giorni al massimo.
Ella si metteva il cappellino di lontra, sul quale era appuntato un rametto di vischio.
– È proprio una cosa che non potete rimandare?
– Oh, no! La pelle di volpe non varrebbe più niente fra un mese. Eppoi Caumont ha invitato dei buoni amici ai quali la mia assenza dispiacerebbe.
Appuntandosi il cappello sulla testa con un lungo spillo, ella corrugò le sopracciglia.
– Questa caccia è proprio molto interessante?
– Sì, interessantissima, perchè la volpe ha delle astuzie che bisogna sventare. L'intelligenza di quegli animali è veramente straordinaria. Ho osservato, la notte, delle volpi che davano la caccia ai conigli. Avevano organizzato una vera battuta, con i loro battitori. Vi assicuro che non è facile sloggiare una volpe dalla sua tana. Queste partite di caccia sono molto allegre. Caumont ha un'eccellente cantina. Per conto mio m'importa poco, ma essa è molto apprezzata. Figuratevi che uno dei suoi coloni è venuto a dirgli che aveva imparato da uno stregone il segreto di acchiappare la volpe, pronunziando delle parole magiche. Non mi servirò certo, di quest'arma; e m'impegno di portarvi una mezza dozzina di belle pelli.
– Che cosa volete che me ne faccia?
– Se ne fanno dei graziosi tappeti.
– Ah!... E caccerete per otto giorni?
– Non tanto. Trovandomi vicino a Sémanville, andrò a passare due giorni da mia zia di Lannoix. M'aspetta. L'anno scorso, a quest'epoca, c'era là una bella compagnia. C'erano con lei le sue due figlie e le sue tre nipoti, coi loro mariti; sono tutt'e cinque belle, allegre, graziose e inappuntabili. Le troverò certamente, ai primi del mese prossimo, tutte riunite per la festa di mia zia, e mi fermerò due giorni a Sémanville.
– Ma, amico mio, restateci pure quanto vi pare e piace. Mi dispiacerebbe molto che doveste abbreviare un soggiorno così piacevole, per colpa mia.
– Ma voi, Teresa?
– Quanto a me, amico mio, me la caverò in qualche modo.
Il fuoco s'affievoliva, e l'ombra s'addensava fra loro. Ella disse in tono fantastico, e come in una vaga attesa:
– Veramente, non è troppo prudente lasciare una donna sola.
Si avvicinò a lei, cercando il suo sguardo nell'oscurità, e le prese la mano.
– Mi ami?
– Oh! vi assicuro che non amo nessun altro... Ma...
– Che vuol dire?
– Niente. Penso... penso che siamo separati tutta l'estate; che, d'inverno, vivete colla vostra famiglia e coi vostri amici la metà del tempo; e che, se ci si deve veder così poco, non val la pena di vederci affatto.
Egli accese le candele. Il suo viso s'illuminò duro e franco. La guardava con una fiducia che derivava meno dalla fatuità comune a tutti gli amanti, che non da un bisogno di dignità regolare che era in lui. Credeva in lei per un pregiudizio d'educazione forte e d'intelligenza semplice.
– Teresa, io t'amo, e tu mi ami; lo so. Perchè vuoi tormentarmi? Qualche volta hai delle cattiverie, delle durezze veramente penose.
Ella scosse bruscamente la sua testolina.
– Che volete? Io sono aspra e ostinata. L'ho nel sangue: deriva da mio padre. Voi conoscete Joinville, avete visto il castello, i soffitti di Lebrun, le tappezzerie fatte al Maincy da Fouquet; i giardini disegnati sui piani di Le Nôtre, il parco, le cacce, – dicevate che in Francia non ce n'erano di più belle; – ma non avete visto il gabinetto da lavoro di mio padre: una tavola di legno bianco e una scansia di mogano. Tutto esce di lì, amico mio. Su quel tavolo, davanti a quegli scaffali, mio padre ha scritto delle cifre per quarant'anni, prima in una piccola camera, in piazza della Bastiglia, poi nell'appartamento di Via di Maubeuge, dove sono nata. In quei tempi, non eravamo ancora molto ricchi. Ho visto il piccolo salotto di damasco rosso col quale mio padre ha messo su casa, e che mia madre amava tanto. Sono una figlia di borghesi arricchiti, o di conquistatori, che è la stessa cosa. Siamo della gente interessata, noi. Mio padre ha voluto guadagnar del danaro, possedere quello che si paga, cioè tutto. Io voglio guadagnare e conservare... che cosa?... non lo so... la felicità che provo... e che mi manca. Sono cupida a modo mio, avida di sogni, d'illusioni. Oh! so bene che tutto questo non vale la pena che ci procuriamo; ma è la pena in sè, che vale, perchè la mia pena, sono io, è la mia vita. Sono avida nel godere quello che amo, quello che ho creduto di amare. Non voglio perdere. Sono come papà: reclamo quel che mi viene. Eppoi...
– Eppoi, ho dei sensi, io. Ecco, mio caro! V'annoio: che farci?... Non bisognava prendermi.
Questa vivacità di linguaggio, a cui egli non era abituato, gli avvelenava il piacere. Ma non se ne allarmava. Sensibile a tutto quello che essa faceva, non l'era altrettanto a ciò che diceva, e non dava importanza alle parole, specialmente quando venivano da una donna. Essendo di poche parole, era mille miglia lontano dall'immaginarsi che le parole sono anch'esse delle azioni.
Benchè la amasse, o piuttosto perchè l'amava con forza e con fiducia, credeva dover resistere a delle fantasie che giudicava assurde. Gli riusciva far da padrone quando non la contrariava; e, ingenuamente, lo faceva sempre.
– Sai bene, Teresa, che io non voglio contrariarti in niente. Non fare dunque dei capricci con me.
– E perchè non ne farei con voi? Se mi sono lasciata prendere... o data, non è stato certo per ragione, nè per dovere. È stato per... capriccio.
Egli la guardò, sorpreso e addolorato.
– La parola vi rincresce, amico mio? Mettiamo pure che sia stato per amore. E veramente è stato di cuore e perchè sentivo che mi amavate. Ma l'amore dev'essere un piacere, e se io non ci trovo la soddisfazione di quello che chiamate i miei capricci, e di quello che è il mio desiderio, la mia vita, il mio amore stesso, non ne voglio più sapere, preferisco viver da sola. Siete straordinario! I miei capricci! C'è forse qualche altra cosa nella vita? La vostra caccia alla volpe, non è forse un capriccio?
Roberto rispose, con grande sincerità:
– Se non l'avessi promesso, ti giuro, Teresa, che ti sacrificherei molto volentieri questo piccolo piacere.
Ella sentì che diceva la verità. Lo sapeva molto preciso nel mantenere i suoi impegni nei più piccoli affari. Sempre legato, dalla sua parola, portava nelle relazioni mondane una minuziosa esattezza di coscienza. Sentì che, insistendo, avrebbe ottenuto di non farlo partire. Ma era troppo tardi: non voleva più vincere. Non cercava ormai che il piacere violento di perdere. Fece mostra di prender sul serio quella ragione, che trovava assai frivola:
– Ah! se avete promesso!
E cedette, perfidamente.
Dapprima sorpreso, egli si compiacque ben presto dentro di sè di averle fatto capir la ragione. L'afferrò per la vita, le mise sulla nuca e sulle palpebre dei piccoli baci puri come una ricompensa. Mostrò una certa premura a consacrarle le sue giornate di Parigi.
– Noi possiamo, mia cara, rivederci tre o quattro volte prima della mia partenza, e più ancora, se vuoi. Ti aspetterò da me qualunque momento che vorrai venire. Vuoi domani?
Ella si prese la soddisfazione di non poter tornare, nè all'indomani, nè gli altri giorni. Con molta dolcezza, spiegava gli impedimenti. L'ostacolo sembrava dapprima leggero: delle visite da restituire, un vestito da provare, una vendita di beneficenza, delle esposizioni, delle stoffe che voleva vedere, e forse comprare. Esaminandole, le difficoltà s'ingrandirono, si accumularono: le visite non potevano rinviarsi; non era una vendita, ma tre vendite a cui doveva andare; le esposizioni stavano per chiudersi, gli arazzi partivano per l'America. Insomma, era impossibile che lo rivedesse prima della sua partenza.
Siccome era nel suo carattere di dare importanza a delle ragioni di questo genere, egli non s'accorse che per Teresa non era naturale di sollevarle. Avvolto in quel tessuto leggero di obblighi mondani, non resistè, rimase muto e addolorato.
Col braccio sinistro, alzato sul capo, ella sollevò la portiera, posò la mano destra sulla chiave della porta; e là, tra le grandi tende di tela orientale color zaffiro e rubino, la testa voltata verso l'amica che abbandonava, gli disse, in tono un po' canzonatorio e quasi tragico:
– Addio, Roberto! divertitevi molto. Le mie visite, i miei giri, i vostri piccoli viaggi, è roba da poco. È vero, però, che la fatalità è formata da queste piccolezze. Addio!
Uscì. Egli avrebbe voluto accompagnarla, ma aveva scrupolo a farsi vedere per la strada con lei, quand'ella non lo costringeva assolutamente.
Fuori, Teresa si sentì ad un tratto sola, sola al mondo, senza gioia e senza dolore. Tornò a casa a piedi, come al solito. Era notte, l'aria era gelata e tranquilla. Ma le grandi strade che seguiva in un'ombra costellata di luci, l'avvolgevano in quel tepore delle città, così dolce, e che si prova anche nel freddo dell'inverno. Camminava tra file di casette, di chioschi, e di bicocche, resti dei tempi campestri d'Auteuil, interrotte qua e là da alte case che mostravano come annoiate le loro pietre addentellate. Quelle botteghe di piccoli esercenti, quelle finestre monotone, non le dicevano nulla. Eppure si sentiva avvolta nel mistero dell'amicizia delle cose, e le sembrava che le pietre, le porte delle case, quelle luci, là in alto, dietro i vetri, le fossero favorevoli. Era sola e voleva esser sola.
Quei passi che faceva tra le due file di case, che le erano familiari, quei passi che aveva fatto tante volte, oggi le sembravano senza ritorno. Perchè? Che cos'era successo di nuovo, in quella giornata? Appena una contrarietà, nemmeno una lite. Eppure, quella giornata aveva un sapore scialbo, strano, persistente, un gusto sconosciuto che non svanirebbe più. Cos'era successo? Niente. E questo niente cancellava tutto. Essa provava una specie d'oscura certezza che non sarebbe mai più tornata in quella camera, che fino a pochi minuti prima racchiudeva quel che c'era di più segreto e di più caro nella sua vita. Era un legame serio. S'era data colla gravità d'una gioia necessaria. Fatta per l'amore, e molto ragionevole, non aveva perduto, nell'abbandono della sua persona, quell'istinto di riflessione, quel bisogno di sicurezza che erano in lei molto forti. Non aveva scelto: difficilmente si sceglie. Nemmeno s'era lasciata prendere a caso e di sorpresa. Aveva fatto quello che aveva voluto, per quanto è possibile fare ciò che si vuole, in certe cose. Non rimpiangeva niente. Erano stati, per lei quello che si doveva essere: bisognava giustamente riconoscerlo, verso un uomo molto ricercato in società e che aveva tutte le donne che voleva. Eppure sentiva, malgrado tutto, che era finita, e che ciò era naturale. Pensava con fredda malinconia: «Tre anni della mia vita, un onest'uomo che mi ama e che io amavo, poichè lo amavo davvero. Era necessario, perchè mi dessi a lui. Non sono una donna perduta.» Ma non poteva più ritrovare i sentimenti di quel tempo, gl'impulsi della sua anima e della sua carne quando s'era data. Si ricordava delle circostanze piccole e affatto insignificanti: i fiori della tappezzeria e i quadri della camera; era una camera d'albergo. Ricordava le parole un po' ridicole e quasi commoventi ch'egli le aveva detto. Ma le sembrava che l'avventura fosse successa ad un'altra donna, ad un'estranea ch'essa non amava molto, che non comprendeva bene.
E quel ch'era avvenuto poco fa, quelle carezze che recava ancor sopra di sè, tutto questo era lontano. Il letto, i lilla nel vaso di cristallo, la piccola coppa di vetro in cui trovava i suoi spilli: vedeva tutto come attraverso una finestra, quando si passa per la via. Era senza amarezza, ed anche senza tristezza. Non aveva niente da perdonare, ahimè! Quell'assenza d'una settimana, non era un tradimento, non era una colpa verso di lei, era niente, ed era tutto. Era la fine. Lo sapeva; voleva romperla; lo voleva, come la pietra che cade, vuol cadere. Era un consenso a tutte le forze segrete del suo essere e della natura. Diceva fra sè: «Io non ho motivi per amarlo meno. Forse non l'amo più? L'ho mai amato?» Non lo sapeva, e le era indifferente saperlo.
Tre anni, durante i quali s'era data due e quattro volte per settimana. C'erano stati dei mesi in cui s'erano visti tutti i giorni. Non era dunque nulla, tutto questo? Ma la vita non è gran cosa; e quel che vi si mette dentro, che miseria!
Infine, non aveva da lamentarsi. Ma era meglio farla finita. Tutte le sue riflessioni la riconducevano a questo punto. Non si trattava di una risoluzione; le risoluzioni si cambiano. Era una cosa più grave: uno stato d'animo e del cuore.
Giunta sulla piazza che ha in mezzo una vasca, e ad un lato della quale si eleva una chiesa in stile rustico, lasciando vedere la sua campana in un'arcata aperta sul cielo, si ricordò il mazzo di violette da due soldi ch'egli le aveva offerto una sera, sul Piccolo Ponte, vicino a Notre-Dame. Quel giorno, forse, s'erano amati con un abbandono e una fantasia maggiori del solito. Il suo cuore s'intenerì a quel ricordo. Cercò, ma non trovò niente. Il mazzolino restava solo, povero scheletrino di fiori, nel suo ricordo.
Mentre camminava fantasticando, dei passanti, ingannati dalla semplicità del suo vestito, la seguivano. Uno di loro le fece delle proposte: una cena in un gabinetto particolare e il teatro. Dentro di sè, ne fu lusingata e distratta. Non era affatto sconvolta: non si trattava di una crisi. Pensò: «Come fanno le altre donne? Ed io che mi rallegravo di non sperperare la mia vita... Per quello che vale, la vita!»
In vista della lanterna neo-ellenica del Museo delle Religioni, trovò il suolo sconvolto da lavori sotterranei. Sopra una trincea profonda, fra mucchi di terra nera, di ciottoli e di pezzi di pietra, una passerella era gettata, fatta da una tavola stretta e flessibile. Vi s'era incamminata, quando vide all'estremità, davanti a lei, un uomo fermo ad aspettarla. L'aveva riconosciuta e la salutava. Era Dechartre. Le parve notare, passando davanti a lui, che fosse felice di quell'incontro; lo ringraziò con un sorriso. Egli le chiese il permesso di far qualche passo con lei. Ed entrarono insieme in un largo spazio pieno d'aria viva. In quel punto le alte case indietreggiano, si staccano e scoprono una parte del cielo.
Egli le disse che l'aveva riconosciuta da lontano, al ritmo della linea e dei movimenti, che erano tutti suoi.
– I bei movimenti – aggiunse – sono la musica degli occhi.
Teresa rispose che le piaceva molto camminare; che era il suo piacere e la sua salute.
Anch'egli provava piacere nelle lunghe corse a piedi, nelle città popolose e nelle belle campagne. Il mistero delle grandi strade lo attraeva. Amava i viaggi: benchè diventati adesso comuni e facili, conservavano per lui il loro fascino possente. Aveva visto dei giorni dorati e delle notti trasparenti, la Grecia, l'Egitto, e il Bosforo. Ma è in Italia che tornava sempre, come alla patria dell'anima sua.
– Ci vado la settimana prossima – disse. Voglio rivedere Ravenna, addormentata fra i pini neri della riva sterile. Siete mai stata a Ravenna, signora? È un sepolcro incantato, in cui appariscono dei fantasmi scintillanti. La magia della morte è là. I mosaici di San Vitale, e dei due Sant'Apollinare, coi loro angeli barbari e le loro imperatrici aureolate, fanno provare le delizie mostruose dell'Oriente. Spogliata oggi dalle sue làmine d'argento, la tomba di Galla Placidia è spaventevole, sotto la sua cripta luminosa e tetra. Quando si guarda da una fessura del sarcòfago, par di vedere ancora la figlia di Teodosio, seduta sulla sua seggiola d'oro, dritta nella sua veste costellata di brillanti e ricamata di scene dell'Antico Testamento; il suo bel viso crudele conservato duro e nero dagli aromati, e le sue mani d'ebano immobili sulle ginocchia. Per tredici secoli, conservò quella funebre maestà, finchè un ragazzo, passando una candela dall'apertura della tomba, bruciò il corpo colla dalmatica.
La signora Martin-Bellème chiese che cosa aveva fatto da viva quella morta, così ostinata nel suo orgoglio.
– Due volte schiava, – disse Dechartre – tornò due volte imperatrice.
– Era senza dubbio bella – disse la signora Martin. – Me l'avete fatto ben capire dalla sua tomba: essa mi fa paura. Non andrete a Venezia, signor Dechartre? O siete stanco delle gondole, dei canali fiancheggiati da palazzi e dei colombi di Piazza San Marco? Vi confesso che amo ancora Venezia, dopo esserci stata parecchie volte.
Egli le diede ragione: amava anch'egli Venezia. Ogni volta che ci andava, da scultore diventava pittore e faceva degli studi. È l'aria, che avrebbe voluto dipingere.
– Altrove – egli disse – anche a Firenze, il cielo è lontano, altissimo, molto in fondo. A Venezia, è dappertutto; accarezza la terra e l'acqua, avvolge con amore le cupole di piombo e le facciate di marmo, e lancia nello spazio iridato: le sue perle e i suoi cristalli. La bellezza di Venezia sta nel suo cielo e nelle sue donne. Le Veneziane, che deliziose creature! e che personale! e quelle forme sottili e snelle, che si indovinano così piene, sotto lo scialle nero! Anche se di quelle donne non restasse che un osso, si ritroverebbe in quest'osso il fascino della loro squisita struttura. La domenica, in chiesa, formano dei gruppi ridenti, agitati, un insieme di fianchi un po' sporgenti, di nuche eleganti, di sorrisi fioriti, di sguardi infiammati. E tutto questo, s'inchina con una morbidezza felina di giovani animali, al passaggio d'un prete dalla testa di Vitelio, che, chino il mento sulla pianeta, porta il Calice, preceduto da due chierici.
Egli camminava con passo ineguale, secondo le sue idee, talvolta tumultuose, talvolta lente. Ella camminava più regolarmente e tendeva a sorpassarlo. E, guardandola di profilo, le trovava l'andatura morbida e ferma ch'egli amava. Notava la piccola scossa che ogni tanto la sua testa dava ai rametti di vischio appuntati al cappello.
Senza pensarci, subiva il fascino di quell'incontro quasi intimo, con una giovine signora quasi sconosciuta.
Erano arrivati al punto in cui la larga strada dispiega le sue quattro file di platani. Seguivano il parapetto di pietra sormontato da una siepe di busso che copre fortunatamente la bruttezza delle costruzioni militari stendentisi di faccia sull'argine. Di là, s'indovinava il fiume, da quel vapore lattiginoso che, nei giorni senza nebbia, riposa sulle acque. Il cielo era limpido. Le luci della città si mescolavano alle stelle. Al sud, brillavano i tre chiodi d'oro del Balteo d'Orione.
– L'anno scorso, a Venezia, tutte le mattine, uscendo di casa, trovavo davanti alla sua porta, che era tre gradini più alta del canale, una ragazza meravigliosa, dalla testa piccola, il collo tondo e forte, il fianco armonioso. Stava là, nel sole e nel sudiciume, pura come un'anfora, inebriante come un fiore. Sorrideva: che bocca! Il gioiello più ricco nella luce più bella. Mi accorsi poi che quel sorriso era diretto ad un garzone macellaio, fermo dietro di me, col paniere in testa.
All'angolo della breve strada che scende sull'argine, tra due file di giardinetti, la signora Martin rallentò il passo.
– È vero; – disse – a Venezia le donne sono belle.
– Sono quasi tutte belle, signora. Parlo delle ragazze del popolo, delle sigaraie, delle piccole operaie delle vetrerie. Le altre sono come dappertutto.
– Le altre, volete dire le signore; non le amate, quelle?
– Le donne di mondo? Oh! ce ne sono delle graziose. Quanto ad amarle, è un'altra cosa.
– Credete proprio?
Gli tese la mano e voltò bruscamente l'angolo della strada.