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Quella sera pranzava sola con suo marito. La tavola ristretta non portava nè il vaso dalle aquile d'oro, nè le Vittorie alate. I candelabri non illuminavano, sopra le corte, i cani d'Oudry. Mentre egli parlava delle cose del giorno, Teresa si sprofondava in una fantasticheria malinconica. Le sembrava di attraversare una nebbia, di andare, perduta e lontana da tutto. Era una sofferenza blanda e quasi dolce. Vedeva vagamente, attraverso la bruma, la piccola camera di Via Spontini trasportata da angeli neri sopra una delle vette dell'Himalaya. Ed egli, nello sconvolgimento d'una specie di fine del mondo, era scomparso, molto semplicemente, infilandosi i guanti. Si tastò il polso per sentire se non avesse la febbre. Bruscamente, un colpo limpido d'argenteria sulla tavola, la risvegliò. Sentì suo marito che diceva:
– Cara amica, Gavaut ha pronunziato oggi alla Camera un magnifico discorso sulla Cassa pensioni. È straordinario, come abbia migliorato le sue idee e come adesso tocchi nel giusto. Oh! ha fatto molto progresso.
Ella non potè a meno di sorridere.
– Ma, amico mio, Gavaut, è un povero diavolo che non ha mai pensato ad altro che ad uscire dalla massa degli affamati e ad arrivare. Gavaut ha il cervello nei gomiti... Ma lo prendono proprio sul serio, nel mondo politico? Credete pure che non è mai riuscito ad illudere nessuna donna, nemmeno sua moglie. Eppure, per dare delle illusioni di questo genere, ci vuole ben poco, ve l'assicuro io.
– Sapete che Miss Bell m'ha invitato a passare un mese da lei, a Fiesole? Ho accettato, e parto.
Meno sorpreso che malcontento, le chiese con chi partiva.
Egli non aveva niente a che ridire. La signora Marmet era una specie di dama di compagnia perfettamente onorevole, e designata in modo speciale per l'Italia, in cui suo marito, Marmet l'Etrusco, aveva fatto degli scavi nelle necropoli. Chiese soltanto:
– L'avete avvisata? E quando avete intenzione di partire?
Ebbe la furberia di non obiettar niente per il momento, pensando che l'opposizione non farebbe che rafforzare un capriccio senza consistenza, e temendo di dar corpo a quella idea pazzesca. Scivolò sull'argomento:
– Certo, i viaggi sono una piacevole distrazione. Ho pensato che si potrebbe, in primavera, visitare il Caucaso, il Turchestan, il Transcaspio. Ecco un paese interessante e poco conosciuto. Il generale Annenkoff metterebbe a nostra disposizione delle vetture, dei treni interi, sulla ferrovia che ha costruito. È un mio amico; ha molta simpatia per voi. Ci fornirà una scorta di cosacchi. Sarà una cosa interessante.
Si ostinava a volerla prendere dal lato della vanità, non potendo credere che non avesse l'anima mondana e, come lui, spinta dall'amor proprio. Essa rispose distrattamente che sarebbe forse un viaggio piacevole. Allora egli vantò le montagne del Caucaso, le città antiche, i bazars, i costumi, le armi. Aggiunse:
– Condurremo con noi qualche amico, la principessa Seniavine, il generale Larivière, fors'anche Vence e Le Ménil.
Essa rispose con un risolino secco, che c'era ben tempo a scegliere gli invitati.
– Voi non mangiate. Vi guasterete lo stomaco.
Senza credere ancora a quella pronta partenza, tuttavia n'era inquieto. Avevano ripreso ciascuno la propria libertà, ma egli non amava sentirsi solo. Non si sentiva a posto che con sua moglie e colla casa in ordine. Eppoi aveva deciso di dare due o tre grandi banchetti politici durante la sessione. Vedeva il suo partito far progressi. Era il momento di affermarsi, di comparire sfarzosamente. Disse con aria di mistero:
– Può presentarsi l'occasione in cui avremo bisogno del concorso di tutti i nostri amici. Non seguite il corso degli avvenimenti, Teresa?
– No, amico mio.
– Mi dispiace. Siete intelligente, avete una grande larghezza di spirito. Se aveste seguito il corso degli avvenimenti, sareste rimasta colpita dalla corrente che riconduce il paese alle idee moderate. Il paese è stanco di eccessi. Respinge gli uomini compromessi nella politica radicale e nelle persecuzioni religiose. Bisognerà, un giorno o l'altro, rifare un ministero Casimir-Perier con degli altri uomini, e quel giorno....
S'interruppe, perchè essa lo ascoltava veramente troppo poco e troppo male.
Teresa pensava, triste e delusa. Le sembrava che quella graziosa donna che, laggiù, nell'ombra calda della camera chiusa, tuffava i suoi piedi nudi nella pelliccia dell'orso bruno, ed alla quale un amico dava dei baci sulla nuca, mentre essa intrecciava i capelli davanti allo specchio, non fosse lei, non fosse nemmeno una donna che conoscesse molto, nè che volesse conoscere; ma una signora i cui affari non la interessavano. Uno spillone male appuntato nei suoi capelli, uno degli spilli della coppa di vetro di Boemia, le scivolò per il collo. Ebbe un brivido.
– Bisognerà pure – disse Martin-Bellème – dare tre o quattro pranzi ai nostri amici politici. Metteremo i vecchi radicali con della gente del nostro mondo. Sarà bene trovare anche qualche bella signora. Si può benissimo invitare la signora Bérard de la Malle: sono due anni che non si parla più di lei. Che ne pensate?
– Ma, amico mio, dal momento che parto la settimana prossima....
Egli rimase costernato.
Passarono entrambi, muti e cupi, nel salottino in cui Paolo Vence aspettava. Egli veniva spesso, la sera, familiarmente.
– Sono ben contenta di vedervi. Vi dico addio, un breve addio. Parigi è freddo e nero; questo tempo mi stanca e mi rattrista. Vado a passare sei settimane a Firenze, da Miss Bell.
Il signor Martin-Bellème alzò gli occhi al cielo.
Vence domandò se non era già stata parecchie volte in Italia.
– Tre volte. Ma non ho visto niente. Stavolta voglio vedere, buttarmi, tuffarmi nelle cose. Da Firenze farò delle gite in Toscana, nell'Umbria. E, per finire, andrò a Venezia.
– Farete bene. Venezia è il riposo della domenica, nella grande settimana dell'Italia creatrice e divina.
– Il vostro amico Dechartre m'ha parlato con entusiasmo di Venezia, dell'aria di Venezia, seminata di perle.
– Sì, a Venezia il cielo è colorista. A Firenze è spirituale. Un vecchio autore ha detto «Il cielo di Firenze, leggero e sottile, nutrisce le belle idee degli uomini.» Ho vissuto delle giornate deliziose, in Toscana. Vorrei viverne delle altre.
– Venite a trovarmi.
Egli sospirò:
– I giornali, le riviste, il lavoro quotidiano!...
Martin-Bellème disse che bisognava inchinarsi davanti a queste ragioni, e che si era troppo felici di leggere gli articoli e i libri di Paolo Vence, per volerlo distrarre dal suo lavoro.
– Oh, i miei libri!... Non si dice niente, in un libro, di quel che si vorrebbe dire. Esprimersi, è impossibile!... Eh! già, colla mia penna so parlare come un altro. Ma parlare, scrivere, che pietà! È una vera miseria, quando si pensa a quei piccoli segni da cui sono formate le sillabe, le parole, le frasi. Che diventa l'idea, la bella idea, sotto quei cattivi geroglifici, ad un tempo comuni e bizzarri? Che ne fa il lettore, della mia pagina di scritto? Un insieme di false interpretazioni, di controsensi e di nonsensi. Leggere, ascoltare, è tradurre. Vi sono delle belle traduzioni, forse; ma non ce ne sono di fedeli. Cosa m'importa che ammirino i miei libri, dal momento ch'è quello che essi vi han messo, che ammirano? Ogni lettore sostituisce le sue visioni alle nostre. Noi gli forniamo di che solleticare la sua immaginazione. È orribile, fornire argomento a simili esercizi: è una professione infame.
– Voi scherzate – disse Martin.
– Non credo – soggiunse Teresa. – Egli riconosce che le anime sono impenetrabili alle anime, e ne soffre. Si sente solo quando pensa, solo quando scrive. Qualunque cosa si faccia, si è sempre soli al mondo. Ecco quel che vuol dire. Ha ragione. Ci si spiega sempre; non ci si comprende mai.
– Vi sono i gesti – disse Paolo Vence.
– Non vi sembra, signor Vence, che si tratti di un altro genere di geroglifici?... Datemi notizie del signor Choulette. È un pezzo che non lo vedo.
Vence rispose che Choulette era molto occupato per il momento a riformare il terz'ordine di San Francesco.
– L'idea di quest'opera, signora, gli è venuta in un modo meraviglioso, un giorno che andava a visitare Maria nella strada dove abita, dietro l'Ospedale, una strada sempre umida, dalle case che pendono. Voi sapete che Maria è la santa e la martire che espia i peccati del popolo. Egli tirò il cordone del campanello, ingrassato da due secoli di visitatori: Sia che la martire si trovasse dal mercante di vino in cui era solita andare, sia che fosse occupata nella sua camera, non aprì. Choulette suonò a lungo, e così forte, che la maniglia colla cordicella gli restò fra le mani. Esperto nel concepire i simboli, e nel penetrare il significato occulto delle cose, comprese subito che quel cordone non s'era staccato senza il permesso delle potenze spirituali. Stette in meditazione. La cordicella era coperta da un grasso nero e vischioso. Se ne fece una cintura, e conobbe così che era chiamato a ricondurre alla primitiva purezza il terz'ordine di San Francesco. Rinunziò alla bellezza delle donne, alle delizie della poesia, agli splendori della gloria, e studiò la vita e la dottrina del Poverello d'Assisi. Frattanto ha venduto al suo editore un libro intitolato Le Blandizie, che racchiude, dice, la descrizione di tutte le sorta d'amore. Egli si vanta d'esservisi mostrato criminale con una certa eleganza. Ma, lungi dal contrastare alle sue imprese mistiche, questo libro le favorisce, nel senso che, corretto da un'opera ulteriore, diventerà onestissimo ed esemplare; e perchè l'oro – anzi egli dice «gli ori» – che ha ricavato in pagamento, e che non gli avrebbero dato per uno scritto più casto, gli serviranno a compiere un pellegrinaggio ad Assisi.
La signora Martin, che si divertiva, domandò cosa ci fosse proprio di vero in questa storia. Vence rispose che non bisognava cercar di saperlo.
Confessava quasi d'essere lo storico idealista del poeta, e le avventure che raccontava non si dovevano prendere nel senso letterale e giudaico.
Certo era che Choulette pubblicava Le Blandizie, e voleva visitare la cella e la tomba di San Francesco.
– Ma allora – esclamò la signora Martin – lo conduco in Italia. Signor Vence, cercatelo e portatemelo. Parto la settimana prossima.
Il signor Martin si scusò di non poter fermarsi di più: bisognava che terminasse un rapporto che doveva esser consegnato all'indomani.
La signora Martin disse che nessuno la interessava più di Choulette. Anche Paolo Vence lo riteneva un uomo d'eccezione:
– Non è molto diverso dai santi di cui leggiamo la vita straordinaria. È sincero come loro, d'una delicatezza squisita di sentimenti e d'una violenza d'animo terribile. Se egli riesce urtante in molte sue azioni, si deve al fatto che è più debole, meno rigido, e forse più osservato da vicino. Eppoi ci sono dei cattivi santi, come dei cattivi angeli: Choulette è un cattivo santo: ecco tutto! Ma i suoi poemi sono dei veri poemi spirituali, e molto più belli di quelli che fecero, in questo genere, nel diciassettesimo secolo, i vescovi di corte ed i poeti di teatro.
Essa l'interruppe:
– Mentre ci pensa, voglio farvi gli elogi del vostro amico Dechartre. È uno spirito brillante.
– Forse un po' troppo chiuso in se stesso.
Vence le ricordò di averle detto che Dechartre le sarebbe piaciuto.
– Lo conosco a fondo, è un amico d'infanzia.
– Avete conosciuto la sua famiglia?
– Sì. È il figlio unico di Filippo Dechartre.
– L'architetto?...
– L'architetto che, sotto Napoleone III, restaurò tanti castelli e tante chiese in Turenna e nell'Orleanese. Aveva buon gusto e abilità. Solitario e mitissimo di carattere, ebbe l'imprudenza d'attaccare Viollet-le-Duc, allora onnipotente. Gli rimproverava di voler restaurare gli edifizi secondo il loro piano primitivo, come erano stati o avrebbero dovuto essere all'origine. Filippo Dechartre voleva, al contrario, che si rispettasse tutto quello che i secoli avevano a poco a poco aggiunto ad una chiesa, ad un'abbazia, ad un castello. Fare scomparire gli anacronismi e ricondurre un edifizio alla sua primitiva unità, gli sembrava una barbarie scientifica, così temibile come quella dell'ignoranza. Diceva, ripeteva senza tregua: «È un delitto cancellare le impronte successive impresse nella pietra dalla mano e dall'anima dei nostri avi. Le pietre nuove, tagliate in un vecchio stile, sono dei falsi testimoni.» Voleva che la funzione dell'architetto archeologo si limitasse a sostenere e consolidare i muri. Aveva ragione. Gli diedero, torto. Finì di rovinarsi, morendo giovane, nel pieno trionfo del suo rivale. Tuttavia lasciava alla vedova e a suo figlio una fortuna rispettabile. Giacomo Dechartre fu allevato da sua madre, che lo adorava. Non credo che la tenerezza materna sia mai stata così impetuosa. Giacomo è un simpatico figliuolo, ma è un ragazzo allevato male.
– Eppure ha un'aria così indifferente, così alla buona, così lontana da tutto!
– Non credetelo. Ha una fantasia tormentata e tormentante.
– Oh! non è certo per un matrimonio.
– Sì, le ama. Vi ho detto che è un egoista. Non ci sono che gli egoisti, che amino veramente le donne. Dopo la morte di sua madre, ha avuto una lunga relazione con un'artista nota, Jeanne Tancrède.
La signora Martin si ricordava un poco di Jeanne Tancrède, non molto bella, ma ben fatta, d'una grazia un po' languida nelle sue parti di amorosa.
– Proprio lei – riprese Paolo Vence. – Essi convivevano in una casetta della città dei Gelsomini, ad Auteuil. Andavo spesso a visitarli. Lo trovavo perduto nei suoi sogni, dimenticando di modellare una figura che seccava sotto i lini, seguendo la sua idea, assolutamente incapace di ascoltar nessuno; mentre lei provava le sue parti, col viso arso dal belletto, gli occhi teneri, graziosa d'intelligenza e d'attività. Si lamentava con me che egli fosse distratto, di malumore, scontroso. Lo amava davvero, e non lo ingannava che per necessità della professione. E, quando l'ingannava, era una cosa passeggera; dopo, non ci pensava più. Una donna seria. Ma poi si lasciò vedere, si mise in mostra con Giuseppe Springer, nella speranza che la facesse entrare nella Comédie Française. Dechartre s'indignò e ruppe la relazione. Adesso, essa trova più conveniente vivere coi suoi direttori, e Giacomo preferisce viaggiare.
– La rimpiange forse?
– Come volete si sappia quel che passa in un'anima inquieta e mobile, egoista e appassionata, avida di darsi, pronta a riprendersi, che ama generosamente se stessa in tutto quello che trova di bello nel mondo?
Ella cambiò bruscamente discorso.
– E il vostro romanzo, signor Vence?
– Sono all'ultimo capitolo, signora. Il mio piccolo operaio cesellatore è stato ghigliottinato. È morto con quell'indifferenza delle vergini senza desiderio, che non hanno mai provato sulle labbra il gusto caldo della vita. I giornali e il pubblico approvano come si deve l'atto di giustizia compiuto. Ma, in una soffitta, un altro operaio, sobrio, triste e studioso di chimica, giura di compiere il delitto espiatorio.
Si alzò e prese congedo. Essa lo richiamò:
– Signor Vence, ho detto sul serio: portatemi Choulette.
Quando risalì nella sua stanza, suo marito, sul pianerottolo, l'aspettava, in veste da camera di felpa dorata, con una specie di berretto da doge che inquadrava il suo viso pallido e infossato. Aveva un'aria di gravità. Dietro di lui, per la porta aperta del suo gabinetto da lavoro, apparivano, sotto la lampada, un ammasso di scartafacci e di documenti con copertine azzurre, i libroni aperti dei bilanci annuali. Prima che essa potesse raggiungere la sua camera, le fece segno che aveva da parlarle.
– Cara amica, non riesco a capirvi. Siete d'una leggerezza che può farvi un gran torto. Disertate la vostra casa senza un motivo, senza nemmeno un pretesto. E volete andare in giro per l'Europa con chi? con un mattoide, un ubbriacone come Choulette.
Ella rispose che avrebbe viaggiato colla signora Marmet, e che non c'era niente di male in questo.
– Ma voi annunziate a tutti la vostra partenza, e non sapete nemmeno se la signora Marmet potrà accompagnarvi.
– Oh! la signora Marmet fa presto a fare le sue valigie. Non c'è che il suo cane che la trattenga a Parigi. Ve lo lascerà, e ne avrete cura.
– E vostro padre, è informato dei vostri progetti?
La sua risorsa consisteva nell'invocare l'autorità di Montessuy, quando la sua non era riconosciuta. Sapeva che sua moglie temeva molto di scontentare il padre e di essere da lui mal giudicata. Insistè:
– Vostro padre è pieno di buonsenso e di tatto. Sono felice d'essermi spesso trovato d'accordo con lui nei consigli che mi sono permesso di darvi. Anch'egli ritiene che la casa della signora Meillan non sia conveniente per una donna come voi. Ci sono troppi intrighi, e la padrona di casa li favorisce. Avete un gran torto, devo dirvelo: non tenete abbastanza conto dell'opinione del mondo. Son certo che anche vostro padre troverà strano che partiate con tanta... leggerezza. E la vostra assenza sarà tanto più notata, mia cara amica, in quanto, nel corso di questa legislazione, permettetemi di ricordarvelo, le circostanze m'hanno messo in vista. Il mio merito, certo, non entra per niente in questa situazione. Ma, se aveste acconsentito ad ascoltarmi durante la cena, vi avrei dimostrato che il gruppo di uomini politici a cui appartengo è vicino al potere. Non è in un momento simile che dovete rinunziare ai vostri doveri di padrona di casa. Voi stessa lo comprendete.
Essa gli rispose:
– Non mi seccate
E, voltandogli le spalle, andò a chiudersi nella sua camera.
Quella, sera, nel suo letto, aperse un libro, come al solito, prima di addormentarsi. Era un romanzo. Voltava le pagine distrattamente, quando trovò queste righe:
«L'amore è come la devozione: giunge tardi. Non si è troppo amanti nè devote a vent'anni, salvo una disposizione speciale, una santità nativa. Anche le predestinate lottano a lungo contro questa grazia dell'amore, più terribile della folgore che piombò sulla via di Damasco. Una donna, il più delle volte, non cede all'amore-passione che nell'età in cui la solitudine non fa più paura; perchè la passione, in realtà, è un deserto arido, una Tebaide ardente. La passione, è l'ascetismo profano, altrettanto rude quanto l'ascetismo religioso.
«Così vediamo che le grandi amatrici sono rare quanto le grandi penitenti. Quelli che conoscono bene la vita e il mondo, sanno che le donne non mettono volentieri sul loro petto delicato il cilicio d'un vero amore. Sanno che niente è meno comune di un lungo sacrificio. E considerate quello che una mondana deve immolare quando ama. Libertà, quiete, giuochi piacevoli di un'anima libera, civetteria, divertimenti, piaceri: tutto vi perde.
«Il flirt è permesso. Esso si concilia con tutte le esigenze della vita elegante; l'amore non si concilia affatto. È la meno mondana delle passioni, la più antisociale, la più selvaggia, la più barbara. Perciò il mondo lo giudica più severamente della galanteria e della leggerezza dei costumi. In un certo senso, ha ragione. Una Parigina che ama, smentisce la sua natura e vien meno alla sua funzione, che è quella di esser di tutti, come un'opera d'arte. Infatti n'è una, e la più meravigliosa che l'industria dell'uomo abbia mai prodotto. È un prodigioso artificio, dovuto al concorso di tutte le arti meccaniche e di tutte le arti liberali; è l'opera comune, il bene comune. Il suo dovere è quello di comparire.»
Teresa chiuse il libro, e pensò che si trattava di sogni di romanzieri che non conoscono la vita. Lo sapeva bene, lei, che nella realtà non c'era nè Carmelo della passione, nè cilicio dell'amore, nè vocazione bella e terribile, alla quale la predestinata resisteva invano; lo sapeva, che l'amore era soltanto una piccola ebbrezza breve, da cui si usciva un po' tristi... Eppure, se essa non sapesse tutto, se esistessero davvero degli amori in cui si sprofondasse deliziosamente?... Spense la lampada. I sogni della sua prima giovinezza, dal fondo del passato, le ritornavano.