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Pioveva. La signora Martin-Bellème vedeva confusamente, attraverso i vetri gocciolanti della sua carrozza, la moltitudine degli ombrelli camminare come tartarughe nere sotto l'acqua del cielo. Pensava, e i suoi pensieri erano grigi e indistinti, come gli aspetti delle vie e delle piazze che la pioggia velava.
Non sapeva più perchè le fosse venuta l'idea di andare a passare un mese da miss Bell. E veramente non lo aveva mai saputo bene. Era come una sorgente, dapprima nascosta fra l'erba, che, adesso, formava una corrente d'acqua profonda e rapida. Si ricordava bene che il martedì sera, a cena, aveva ad un tratto detto che voleva partire, ma non risaliva alla prima origine di quel desiderio. Non era la voglia di agire con Roberto Le Ménil com'egli agiva con lei. Senza dubbio, le sembrava una cosa eccellente di andare a passeggio alle Cascine, mentre egli era alla caccia alla volpe: ciò le sembrava d'una piacevole simmetria. Roberto, che era sempre contento di ritrovarla, non la ritroverebbe più al suo ritorno. Trovava giusto dargli questa piccola contrarietà. Ma essa, a tutta prima, non ci aveva pensato. E poi, non ci pensava molto, e veramente non partiva per il piacere di dargli un dolore e il gusto d'una piccola vendetta. Provava verso di lui un sentimento meno pungente, più sordo e più duro. Sopra tutto, non voleva rivederlo troppo presto. Senza che la loro relazione fosse per niente rotta, egli era diventato per lei un estraneo. Le sembrava un uomo come gli altri, migliore della maggior parte, bellissimo d'aspetto, di maniere, d'un carattere degno di stima, e che non le dispiaceva, ma non la interessava troppo. Ad un tratto era uscito dalla sua vita. Non si ricordava volentieri quanto vi fosse stato mescolato: l'idea di appartenergli la urtava, le sembrava una sconvenienza. La previsione che si sarebbero ritrovati insieme nell'appartamentino di Via Spontini le era così penosa, che subito la allontanava. Preferiva credere che un avvenimento imprevisto, inevitabile, impedirebbe la loro riunione: la fine del mondo, per esempio. Il signor Lagrange, dell'Accademia delle Scienze, le aveva parlato, il giorno prima, dalla signora Morlaine, d'una cometa che, venuta dalle profondità celesti, incontrerebbe forse un giorno la terra, l'avvolgerebbe nella sua chioma ardente, la brucerebbe col suo alito, farebbe respirare agli animali e alle piante dei veleni sconosciuti e farebbe morire tutti gli uomini in un riso frenetico o in un cupo stupore. Era questo, o qualche altra cosa del genere che le occorreva, per il mese prossimo. Non era dunque inesplicabile che avesse voluto partire. Ma che al suo desiderio di andarsene si mescolasse una gioia vaga, che essa fosse già sotto il fascino di quel che avrebbe trovato, non ci vedeva una ragione. La vettura la condusse all'angolo della piccola via La Chaise.
Era là, sotto il tetto di un'alta casa, lungo il terrazzo, dietro cinque finestre riscaldate al mattino dal sole, che, in un appartamento ristretto e ben pulito, abitava la signora Marmet, dopo la morte di suo marito.
La contessa Martin era venuta a vederla nel giorno indicato. Trovò nel salotto modesto e lucente il signor Lagrange, che sonnecchiava in una poltrona, in faccia alla buona signora, dolce e tranquilla sotto la sua corona di capelli bianchi.
Questo vecchio scienziato mondano le era rimasto fedele. Era lui che, l'indomani dei funerali di Marmet, aveva riferito all'infelice vedova il velenoso discorso di Schmoll, e che, credendo di consolarla, l'aveva vista soffocare di collera e di dolore. Essa era svenuta fra le sue braccia. La signora Marmet trovava che egli mancava di discrezione. Era il suo migliore amico: pranzavano spesso insieme nelle case signorili.
La signora Martin, elegante e snella nel suo vestito di zibellino semiaperto sopra un'onda di trine, risvegliò collo splendore dei suoi occhi grigi il dabbenuomo, che era assai sensibile alla bellezza delle donne. Le aveva detto, il giorno prima, che sarebbe venuta la fine del mondo. Le chiese se non aveva avuto paura, la notte, rivedendo quel quadro della terra divorata dalle fiamme, o morta di freddo, bianca come la luna. Mentre le parlava con una galanteria affettata, essa guardava la biblioteca d'acajou, che occupava tutto il fondo del salotto opposto alle finestre. Non v'erano restati molti libri, ma sul palchetto inferiore si allungava uno scheletro colle sue armi. Era una cosa impressionante, vedere presso quella buona signora quel guerriero etrusco, che conservava attaccato al suo cranio un casco di bronzo verde, e portava sul petto scheletrito le lamine corrose della sua corazza. Egli dormiva, disfatto e feroce, fra scatolette di dolciumi, vasi di porcellana dorata, madonnine di stucco e ninnoli di legno traforati, ricordi di Lucerna e del Righi. La signora Marmet, nelle ristrettezze della sua vedovanza, aveva venduto i libri di studio lasciati da suo marito; di tutti gli oggetti antichi raccolti dall'archeologo, non aveva conservato che quell'Etrusco. Non già che non avessero tentato di prenderglielo. I vecchi colleghi di Marmet avevano trovato da collocarlo. Paolo Vence aveva ottenuto dall'amministrazione dei Musei che si comprasse per il Louvre. Ma la buona vedova non aveva voluto separarsene. Le sembrava che, con quel guerriero dal casco di bronzo verde, cinto da un leggero fogliame d'oro, avrebbe perduto il nome che portava degnamente, e cessato d'essere la vedova di Luigi Marmet, dell'Accademia delle Iscrizioni.
– Rassicuratevi, signora; una cometa non verrà così presto ad urtare la Terra. Questi incontri sono straordinariamente poco probabili.
La signora Martin rispose che non ci vedeva nessun inconveniente serio, se la Terra e l'umanità fossero annientate subito.
Il vecchio Lagrange protestò con profonda sincerità. Gli premeva molto che il cataclisma ritardasse.
Essa lo guardò. Il suo cranio arido nutriva appena pochi capelli tinti in nero. Le sue palpebre scendevano come dei piccoli stracci sopra i suoi occhi ancora sorridenti; la pelle cadeva sulla sua faccia gialla, e sotto gli abiti s'indovinava un corpo disseccato.
Teresa pensò: – Egli ama la vita!
Anche la signora Marmet non voleva che la fine del mondo fosse così vicina.
– Signor Lagrange – disse la contessa Martin – voi abitate, non è vero, una graziosa casetta le cui finestre, tappezzate di glicine, guardano il Giardino delle Piante? Mi sembra che debba essere una gioia, vivere in quel giardino che mi fa pensare alle arche di Noè della mia infanzia e al paradiso terrestre delle vecchie Bibbie.
Ma egli non era contento. La casa era piccola, male ammobiliata, infestata da topi.
Ella riconobbe che non si stava bene da nessuna parte, e che dappertutto c'erano dei topi, reali o simbolici, delle legioni di piccoli esseri che ci tormentavano. Tuttavia, amava il Giardino delle Piante; voleva andarci sempre e non ci andava mai. C'era anche il Museo, dove non era mai entrata e che era curiosa di visitare.
Sorridente, felice, egli si offerse di fargliene gli onori. Era la sua casa. Le avrebbe mostrato gli aereoliti: se ne conservavano là dei magnifici.
Essa non sapeva affatto che cosa fosse un aereolito. Ma si ricordò d'aver sentito dire che al Museo si vedevano degli ossi di renna lavorati dagli uomini primitivi, delle placche d'avorio su cui erano incisi degli animali la cui razza era da molto tempo scomparsa. Domandò se fosse vero. Lagrange non sorrideva più. Rispose con una indifferenza annoiata che quegli oggetti riguardavano uno dei suoi colleghi.
– Ah! – disse la signora Martin – non è la vostra vetrina.
Si accorgeva che gli scienziati non sono curiosi, e che è indiscreto interrogarli sopra ciò che non si trova nella loro vetrina. È vero che Lagrange aveva fatto la sua fortuna scientifica colle pietre cadute dal cielo. Questo, lo aveva condotto a considerare le comete. Ma egli era un saggio: da vent'anni non si occupava più che di pranzare in città.
Quando fu partito, la contessa Martin disse alla signora Marmet quel che desiderava da lei.
– Vado la settimana prossima a Fiesole, da Miss Bell, e voi venite con me.
La buona signora Marmet, dalla fronte placida sopra degli occhietti scrutatori, stette un momento in silenzio, rifiutò debolmente, si fece pregare, e accondiscese.