Anatole France
Il giglio rosso

VII.

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               VII.

Il diretto di Marsiglia era pronto, e sui marciapiede i facchini spingevano i carretti in mezzo al fumo e al rumore, sotto il chiarore livido che scendeva dalle invetriate. Davanti agli sportelli aperti, i viaggiatori in vestaglia andavano e venivano. All'estremità della galleria offuscata dalla fuliggine e dalla polvere, appariva, come in fondo ad un canocchiale, un piccolo arco di cielo. Grande come la mano, era l'infinito del viaggio. La contessa Martin e la buona signora Marmet erano già nella loro vettura, sotto la reticella carica di valigie, coi giornali gettati vicino a loro sui cuscini. Choulette non veniva ancora, e la signora Martin non lo aspettava più. Eppure egli aveva promesso di trovarsi alla stazione. Aveva fatto i suoi preparativi per il viaggio, e riscosso dall'editore il pagamento delle Blandizie. Paolo Vence l'aveva portato, una sera, al palazzo della riva Debilly. Egli s'era mostrato dolce, cortese, pieno di spirituale gaiezza e di gioia ingenua. Teresa si aspettava, da allora, un certo piacere a viaggiare con un uomo di genio, così originale, d'una piacevole bizzarria, vecchio fanciullone smarrito, pieno di vizi sinceri e d'innocenza. Gli sportelli si chiudevano: non lo aspettava più. Non avrebbe dovuto far assegnamento su quell'anima impulsiva e vagabonda. Nel momento in cui la macchina cominciava a lanciare dei sibili rauchi, la signora Marmet, che guardava dallo sportello, disse tranquillamente:

– Mi sembra di vedere il signor Choulette.

Infatti correva lungo la banchina, zoppicando con una gamba, il cappello all'indietro sul suo cranio bitorzoluto, la barba incolta, e trascinando una vecchia valigia di tela. Era quasi terribile; e, malgrado i suoi cinquant'anni, aveva un aspetto giovanile, tanto i suoi occhi azzurri erano chiari e lucenti, tanto il suo viso ingiallito e rugoso aveva conservato d'audacia ingenua, tanto scaturiva da quel vecchio cadente l'eterna adolescenza del poeta e dell'artista. Vedendolo, Teresa si pentì di avere scelto un compagno così strano. Egli camminava, lanciando in ogni vettura uno sguardo brusco, che diventava a poco a poco cattivo e diffidente. Ma, quando, giunto allo scompartimento delle due signore, riconobbe la contessa Martin, sorrise così graziosamente e le dette il buongiorno con una voce così carezzevole, che non gli restava più niente del feroce vagabondo errante sulla banchina, nient'altro che la vecchia valigia di tappezzeria che egli tirava per le maniglie mezzo rotte.

La collocò sulla reticella con una cura minuziosa, fra le valigie eleganti, coperte di tela grigia, tra le quali essa mise una macchia vivace e sordida. Si vide allora che era dipinta a fiori gialli, sopra uno sfondo color sangue.

Quando fu comodamente a posto, fece i complimenti alla signora Martin per la sua mantiglia che aveva diversi baveri alla carmelitana.

Scusatemi, signoredissetemevo di essere in ritardo. Sono andato stamattina alla messa delle sei a San Severino, la mia parrocchia, nella cappella della Vergine, sotto quelle graziose colonne assurde che salgono verso il cielo contorcendosi, come noi, miseri peccatori,

– Allora – chiese la signora Martinoggi siete un uomo pio?

Gli domandò pure se aveva con il cordone dell'ordine che stava fondando.

Egli assunse un'aria grave e contristata.

Temo assai, signora, che Paolo Vence vi abbia raccontato, a questo proposito, un mucchio di menzogne assurde. M'hanno riferito che andava dicendo nei salotti che il mio cordone è un cordone di campanello, e di quale campanello! Sarei addolorato se si prestasse fede un momento a delle invenzioni così miserabili. Il mio cordone, signora, è un cordone simbolico. È rappresentato da un semplice filo che si porta sotto il vestito, dopo che un povero lo ha toccato, in segno che la povertà è santa, e che essa salverà il mondo. Non v'è bene che in lei; e da quando ho ricevuto il prezzo delle Blandizie, mi sento ingiusto e duro. È bene sapere che ho messo, nella mia valigia qualcuna di quelle cordicelle mistiche.

E mostrando col dito l'orribile tappezzeria color sangue aggrumato:

– Ci ho messo pure un'ostia che un cattivo prete m'ha dato; le opere di De Maistre, delle camicie e diverse altre cose.

La signora Martin alzò gli occhi, un po' sgomenta. Ma la buona signora Marmet conservava la sua abituale placidità.

Mentre il treno correva attraverso le brutture dei sobborghi, su quella zona nera che cinge tristemente la città, Choulette cavò di tasca un vecchio portafoglio nel quale si mise a frugare. Lo scriba, nascosto sotto il vagabondo, si rivelava. Choulette era un imbrattacarte, senza volerlo sembrare. Affermò che non aveva perduto i pezzi di carta sui quali notava al caffè le sue idee per i poemi, la dozzina di lettere lusinghiere che, sporche, macchiate, tagliate in tutte le pieghe, portava costantemente con , pronto a leggerle a dei compagni che incontrava, la notte, sotto i fanali a gas. Avendo riconosciuto che non gli mancava niente, levò dal portafoglio una lettera piegata in una busta aperta. L'agitò a lungo nella mano con un'aria di misteriosa impudenza, poi la tese alla contessa Martin. Era una lettera di presentazione che la marchesa De Rieu gli aveva dato per una principessa della casa di Francia, una parente vicinissima del conte di Chambord, che, povera e vecchia, viveva ritirata alle porte di Firenze. Godendo dell'effetto che sperava producesse, disse che vedrebbe forse questa principessa; che era una persona buona e devota.

– Una vera grande signoraaggiunse – e che non dimostra la sua magnificenza con dei vestiti e dei cappelli. Porta le camicie sei settimane e qualche volta di più. I gentiluomini del suo seguito le hanno visto delle calze bianche, molto sporche, che le cadevano sui tacchi. Le virtù delle grandi regine di Spagna rivivono in lei. Oh, quelle calze sporche, quale vera gloria!

Riprese la lettera e la richiuse nel suo portafoglio. Poi, essendosi armato di un coltello dal manico di corno, attaccò colla punta una figura appena sbozzata nel manico del suo bastone. Intanto si lodava da .

– Sono abile in tutte le arti dei mendicanti e dei vagabondi. So aprire le serrature con un chiodo, e scolpire il legno con un coltelletto da tasca.

La testa cominciava a comparire: era un viso magro di donna che piangeva.

Choulette voleva esprimervi la miseria umana, non già semplice e commovente, come l'avevano potuta sentire gli uomini d'altri tempi, in un mondo misto di ruvidezza e di bontà; ma ripugnante e imbellettata, in quello stato di bruttezza perfetta in cui l'avevano ridotta i borghesi liberi pensatori e i militari patriotti, usciti dalla Rivoluzione francese. Secondo lui, il regime attuale non era che ipocrisia e brutalità. Il militarismo gli faceva orrore.

La caserma è una odiosa istituzione dei tempi moderni. Essa non risale che al diciassettesimo secolo. Prima, non c'erano che i buoni corpi di guardia, dove i vecchi soldati giuocavano alle carte e raccontavano le storie di Melusina. Luigi XIV è un precursore della Convenzione e di Bonaparte. Ma il male ha raggiunto il colmo dopo l'istituzione mostruosa del servizio obbligatorio per tutti. Aver fatto agli uomini un obbligo di uccidere, è la vergogna degli imperatori e delle repubbliche, il delitto dei delitti. Nelle epoche che si dicono barbare, le città ed i principi affidavano la loro difesa a dei mercenari, che facevano la guerra da gente esperta e prudente; certe volte non c'erano che cinque o sei morti in una grande battaglia. E quando i cavalieri andavano alla guerra, almeno non c'erano forzati; si facevano ammazzare per loro piacere. Senza dubbio non erano capaci che di questo. Nessuno, ai tempi di San Luigi, avrebbe avuto l'idea di mandare alla battaglia un uomo dotto e giudizioso. E nemmeno si strappava il lavoratore alla terra, per mandarlo a combattere. Adesso, si costringe un povero contadino ad esser soldato. Lo strappano dalla casetta il cui tetto fuma nel silenzio dorato della sera, dalle grasse praterie in cui pascono i buoi, dai campi, dai boschi paterni; gli insegnano, nel cortile di una brutta caserma, ad uccidere regolarmente degli uomini; lo minacciano, lo insultano, lo mettono in prigione; gli dicono che è un onore; e, se di questo onore non vuol saperne, lo fucilano. Egli obbedisce perchè è soggetto alla paura, e fra tutti gli animali domestici è il più mite, il più allegro e il più docile. Noi siamo soldati, in Francia, e siamo cittadini. Altro motivo d'orgoglio, esser cittadini! Ciò consiste, per i poveri, a mantenere e conservare i ricchi nella loro potenza e nel loro ozio. Essi devono lavorare, di fronte alla maestosa uguaglianza della legge, che proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di chieder la carità per la strada e di rubar del pane. È uno dei benefici della Rivoluzione. Siccome questa rivoluzione è stata fatta da dei pazzi e degli imbecilli, a profitto degli accaparratori di beni nazionali, e in sostanza non si risolve che nell'arricchimento dei contadini scaltri e dei borghesi usurai, essa elevò, sotto il nome di uguaglianza, l'impero della ricchezza. Essa ha dato la Francia in balia dei finanzieri, che da cent'anni la divorano. Essi vi stanno da padroni e signori. Il governo apparente, composto di poveri diavoli, meschini, gretti, paurosi e nefasti, è al soldo dei finanzieri. Da un secolo, in questo paese avvelenato, chiunque ama i poveri è ritenuto un traditore della società. E si è considerati pericolosi quando si afferma che vi sono dei miserabili. Si sono fatte persino delle leggi contro l'indignazione e la pietà. E quello che dico adesso, non si potrebbe stampare.

Choulette si animava, agitava il suo coltello, mentre, sotto il sole pallido, passavano i campi di terra bruna, i gruppi violacei degli alberi spogliati dall'inverno, e le file di pioppi in riva ai fiumi argentei.

Guardò con tenerezza la figura scolpita nel suo bastone.

– Eccoti – le disse povera Umanità, magra e piangente, istupidita dalla vergogna e dalla miseria, come t'hanno ridotto i tuoi padroni, il soldato e il ricco!

La buona signora Marmet, che aveva un nipote capitano d'artiglieria, un giovanotto simpatico, attaccato alla sua professione, era urtata dalla violenza con cui Choulette attaccava l'esercito. La signora Martin non ci vedeva che una piacevole fantasia. Le idee di Choulette non la spaventavano affatto: essa non aveva paura di niente; ma le trovava un po' assurde; non pensava affatto che il passato fosse mai stato migliore del presente.

– Io credo, signor Choulette, che gli uomini sieno sempre stati quel che sono oggi: egoisti, violenti, avari e senza pietà. Credo che le leggi ed i costumi sieno sempre stati duri e crudeli per gli infelici.

Fra La Roche e Digione, fecero colazione nel vagone ristorante e vi lasciarono Choulette solo colla sua pipa, il suo bicchierino di «benedettino» e la sua anima irritata.

Nello scompartimento, la signora Marmet parlò con una placida tenerezza del marito perduto. Egli l'aveva sposata per amore: le faceva dei versi mirabili, che essa aveva conservato e che non mostrava a nessuno. Era molto vivace e allegro. Non si sarebbe creduto, nel vederlo più tardi stanco dal lavoro, indebolito dalla malattia. Egli aveva studiato fino all'ultimo momento. Soffrendo di un'ipertrofia di cuore, non poteva coricarsi, e passava la notte nella sua poltrona, coi suoi libri sopra una tavoletta. Due ore prima di morire, tentò ancora di leggere. Era affettuoso e buono; nella sua sofferenza conservò tutta la sua dolcezza.

La signora Martin, non sapendo come confortarla, le disse:

– Avete avuto dei lunghi anni felici, e ne conservate il ricordo; è già una parte di felicità, in questo mondo.

Ma la buona signora Marmet sospirò; una nube passò sulla sua fronte tranquilla.

– Sì – disseLuigi fu il migliore degli uomini e il migliore dei mariti. Eppure, m'ha reso ben infelice. Non aveva che un solo difetto, ma ne ho crudelmente sofferto. Era geloso. Lui, così buono, così tenero, così generoso, per questa passione diventava ingiusto, tirannico, violento. Vi assicuro che la mia condotta era irreprensibile. Non ero civetta. Ma ero giovane e fresca; passavo quasi per bella. Bastava questo. Egli m'impediva di uscire da sola, mi proibiva di ricever visite in sua assenza: quando eravamo insieme al ballo, tremavo in anticipo per le scene che m'avrebbe fatto in vettura.

E la buona signora Marmet aggiunse sospirando:

– È vero che amavo il ballo. Ma ho dovuto rinunziarvi: egli soffriva troppo.

La contessa Martini mostrava la sua sorpresa. Si era sempre figurato Marmet come un vecchio signore timido e assorto, un po' ridicolo, tra sua moglie grassa, bianca, così dolce, e lo scheletro rivestito di bronzo e d'oro del suo guerriero etrusco. Ma l'eccellente vedova le confidò che a cinquantacinque anni, quando lei ne aveva cinquantatre, Luigi restava geloso come il primo giorno.

E Teresa pensò che Roberto non l'aveva mai tormentata colla sua gelosia. Era, da parte sua, una prova di tatto e di buon gusto, un segno di fiducia, oppure non la amava abbastanza per farla soffrire? Non lo sapeva, e non si sentiva la forza di cercar di saperlo. Sarebbe stato necessario frugare nei ripostigli della sua anima, che non voleva aprire.

Mormorò, senza farci attenzione:

– Noi vogliamo essere amate; e quando ci si ama, ci si tormenta o ci si annoia.

La giornata terminò fra letture e fantasticherie. Choulette non s'era fatto rivedere. La notte, a poco a poco, coprì colle sue ceneri grige i gelsi del Delfinato. La signora Marmet si addormentò d'un sonno pacifico, riposando su se stessa come sopra un ammasso di guanciali. Teresa la guardò e pensò:

«Davvero essa è felice, perchè si compiace dei suoi ricordi

La tristezza della notte le entrò in cuore. E quando la luna si levò sui campi d'olivi, vedendo passare quelle dolci linee di pianure e di poggi, e scendere le ombre azzurre, Teresa, in quel paesaggio in cui tutto parlava di pace e d'oblio, e niente le parlava di lei, rimpianse la Senna, l'Arco di Trionfo e la sua raggiera di strade, i viali del Bosco, in cui, almeno, gli alberi e le pietre la conoscevano.

Ad un tratto, con una violenza sorniona, Choulette si precipitò nel vagone. Armato del suo nodoso bastone, la faccia e la testa tutte avvolte di lana rossa e di pelli feroci, le fece quasi paura. Era quel che cercava. I suoi atteggiamenti violenti e il suo aspetto selvaggio erano sempre studiati. Occupato sempre di effetti puerili e bizzarri, si compiaceva nel sembrare terribile. Facile egli stesso allo spavento, era contento d'ispirare i terrori che provava. Un momento prima, mentre fumava la pipa, solo, in fondo al corridoio, aveva provato, vedendo la luna correre fra le nuvole sulla Camargue, una di quelle paure senza motivo, una di quelle paure da bambino, che sconvolgevano la sua anima fantasiosa e leggera. Perciò era venuto a rassicurarsi vicino alla contessa Martin.

Arles disse. – Conoscete Arles? È la pura bellezza! Ho visto nel chiostro di S. Trofimo delle colombe posarsi sulle spalle delle statue, ed ho visto le piccole lucertole grige scaldarsi al sole sui sarcofagi degli Aliscampi. Le tombe sono adesso collocate dai due lati della strada che conduce alla chiesa. Hanno la forma di tino, e la notte servono da letto agli infelici. Una sera, passeggiando con Paolo Arène, incontrai una buona vecchia che stendeva delle erbe secche nella tomba di una vergine antica, spirata il giorno delle sue nozze. Le augurammo la buona notte. Rispose: «Dio vi ascolti! Ma disgraziatamente questo tino è aperto dalla parte del maestrale. Se l'apertura si trovasse dall'altra parte, dormirei come la regina Giovanna

Teresa non rispose nulla. Era assopita. E Choulette ebbe un brivido, nel freddo della notte, avendo paura della morte.

              


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