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L'indomani, uscendo da Santa Maria Novella esse attraversavano la piazza in cui sono piantati, ad imitazione degli antichi circhi, due limiti di marmo, quando la signora Marmet disse alla contessa Martin:
– Mi par di vedere il signor Choulette.
Seduto nella botteguccia d'un calzolaio, colla pipa in mano, Choulette faceva dei gesti ritmici, e sembrava recitare dei versi. Il ciabattino fiorentino, pur maneggiando sempre la lesina, ascoltava con un buon sorriso. Era un omino calvo, come quei tipi familiari alla pittura fiamminga. Sul banchetto, tra le forme di legno, i chiodi, i pezzi di cuoio e le pallottole di pece, una pianta di basilico sfoggiava le sue foglie verdi e tonde. Un passerotto, a cui mancava una gamba, ch'era stata sostituita collo stecco d'uno zolfanello, saltellava allegramente sulla spalla e sulla testa del vecchio.
La signora Martin, rallegrata da quella scena, chiamò dalla porta Choulette che pronunziava con dolcezza delle parole armoniose, e gli chiese perchè non era andato con lei a visitare la cappella degli Spagnoli.
– Signora, voi vi occupate di vane immagini; ma io resto nella vita e nella verità.
Strinse la mano al ciabattino e seguì le due signore. Ma trattenendole un momento, sulla porta, disse:
– Andando a Santa Maria Novella, ho visto questo vecchio che, curvo sul suo lavoro e stringendo la forma fra le sue ginocchia come in una morsa, cuciva delle calzature grossolane. Ho sentito che era semplice e buono. Gli ho detto, in italiano: «Padre mio, volete bere con me un bicchiere di Chianti?» Egli, ha accettato volentieri. È andato a cercare un fiasco e dei bicchieri, ed io sono stato di guardia alla sua bottega.
E Choulette mostrò due bicchieri e una bottiglia posate sulla stufa,
– Quando è tornato, abbiamo bevuto insieme; gli ho detto delle cose oscure e buone, e l'ho deliziato colla dolcezza dei suoni. Tornerò nella sua botteguccia; imparerò da lui a fare delle scarpe e a vivere senza desideri. Dopo di che, non avrò più tristezza; perchè soltanto il desiderio e l'ozio ci rendono tristi.
– Signor Choulette, io non desidero niente, eppure non sono allegra. Bisognerà che anch'io faccia delle scarpe?
Arrivati agli Orti Oricellari, la signora Marmet si lasciò cadere sopra una panchina. Aveva esaminato a Santa Maria Novella gli affreschi sereni del Ghirlandaio, gli stalli del coro, la Vergine di Cimabue, le pitture del chiostro. Lo aveva fatto con cura, in memoria di suo marito che aveva molto amato, si diceva, l'arte italiana. Era stanca. Choulette si sedette vicino a lei e disse:
– Signora, sapete dirmi se è vero che il Papa si fa fare i vestiti da Worth?
La signora Marmet non lo credeva. Eppure, Choulette l'aveva sentito dire nei caffè. La signora Martin era sorpresa che, cattolico e socialista com'era, Choulette parlasse con così poco rispetto di un Papa amico della Repubblica. Ma egli non amava troppo Lenoe XIII.
– La saggezza dei principi è corta; – egli disse – la salute della Chiesa verrà dalla Repubblica italiana, come lo crede e lo vuole Leone XIII, ma la Chiesa non sarà salvata nel modo in cui pensa questo pio Machiavelli. La rivoluzione farà perdere al papa il suo iniquo obolo, col resto del suo patrimonio. E sarà questa la salvezza. Il papa, spogliato e povero, diventerà potente: egli agiterà il mondo. Si rivedranno Pietro, Lino, Cleto, Anacleto e Clemente, gli umili, gli ignoranti, i santi dei primitivi giorni, che cambiarono la faccia al mondo. Se domani, per un caso impossibile, sulla cattedra di Pietro sedesse un vero vescovo, un vero cristiano, andrei a trovarlo e gli direi: «Non siate il vecchio sepolto vivo in una tomba d'oro, lasciate i vostri camerieri, le vostre guardie nobili e i vostri cardinali, abbandonate la vostra corte e i simulacri della potenza. Venite con me a mendicare il vostro pane per tutta la terra. Coperto di stracci, povero, malato, morente, andate lungo le strade, mostrando in voi l'immagine di Gesù. Dite: «Io mendico il mio pane per la condanna dei ricchi.» Entrate nelle città e gridate, di porta in porta, con una semplicità sublime: «Siate umili, siate mansueti, siate poveri!» Annunziate nelle città nere, nei tuguri e nelle caserme, la pace e la carità. Vi disprezzeranno, vi lapideranno. I gendarmi vi cacceranno in prigione. Voi sarete, per gli umili come per i potenti, un soggetto di scherno, un oggetto di disgusto e di compassione. I vostri preti vi deporranno ed innalzeranno contro di voi un antipapa. Tutti diranno che siete pazzo. E saranno nel vero; è necessario che siate un pazzo: i pazzi hanno salvato il mondo. Gli uomini vi cingeranno colla corona di spine e lo scettro di canna, e vi sputeranno in viso, ed è per questi segni che voi apparirete Cristo e vero re; ed è con questi mezzi che fonderete il socialismo cristiano, che è il regno di Dio sulla terra.»
Dopo aver parlato così, Choulette accese uno di quei lunghi e ricurvi sigari virginia, attraversati da una paglia. Tirò qualche boccata di vapore infetto, poi riprese tranquillamente:
– E ciò sarebbe pratico. Mi si può negare tutto, fuorchè una veduta ben chiara delle situazioni. Ah! signora Marmet, voi non saprete mai a che punto sia vero che le grandi opere di questo mondo sieno state compiute da pazzi. Credete voi, signora Martin, che se S. Francesco fosse stato ragionevole, avrebbe versato sulla terra, per il refrigerio dei popoli, le acque vive della carità e tutti i profumi dell'amore?
– Non so – rispose la signora Martin. – Ma le persone ragionevoli mi sono sempre sembrate molto noiose. A voi posso dirlo, signor Choulette.
Tornarono a Fiesole col tram che sale la collina. Cominciò a piovere. La signora Marmet si addormentò, e Choulette si mise a lamentarsi. Tutti i suoi mali tornavano ad assalirlo nello stesso tempo: l'umidità dell'aria gli produceva dei dolori al ginocchio e non poteva piegar la gamba; il suo sacco da viaggio, smarrito il giorno prima nel tragitto dalla stazione a Fiesole, non si trovava più, ed era un disastro irreparabile; una rivista parigina aveva pubblicato uno dei suoi poemi con degli errori di stampa, refusi grandi come pile d'acqua benedetta, vasti come la conchiglia d'Afrodite.
Egli accusò gli uomini e le cose d'essergli ostili e funesti. Fu puerile, assurdo, odioso. La signora Martin, che Choulette e la pioggia rattristavano, credette che la salita non finisse mai. Quando rientrò nella casa delle campane, nel salotto, Miss Bell, con una scrittura che imitava quella italica aldina, copiava con inchiostro dorato, sopra un foglio di pergamena, i versi che aveva composto durante la notte. Alla venuta della sua amica, alzò la sua piccola testa brutta, illuminata ed arsa dagli splendidi occhi.
– Darling, vi presento il principe Albertinelli.
Il principe sfoggiava contro la stufa la sua bellezza di giovine iddio, rafforzata da una barba dura e nera. Egli salutò.
– La signora farebbe amare la Francia, se questo sentimento non fosse già nei nostri cuori.
La contessa e Choulette pregarono Miss Bell di leggere i versi che scriveva. Ella si scusò, come straniera, di far sentire le sue incerte cadenze al poeta francese che ammirava di più dopo Francesco Villon; poi, colla sua graziosa voce fischiante d'uccello, recitò:
Ai piedi delle rocce, dove il rivo
zampilla,
Simile ad una Nàiade che fresca ride e brilla,
Correndo verso l'Arno; due giovinetti amanti
S'eran promessi fede, tutti ardenti e tremanti,
E la felicità d'amore fremeva loro in seno,
Come il rivo che scende verso il piano sereno:
Gemma ella aveva nome; ma il nome dell'amato
Nessun lo seppe: sempre esso restò ignorato.
La bocca sulla bocca, nel giorno, per
diletto,
Trascorrevano l'ore sopra un silvestre letto
Che odorava di timo, e giunta poi la sera,
Quando l'artiere stanco, al fresco siede e spera,
Sognando sotto i tigli; tornavano in città.
Pieni ancora dei fremiti d'ardente voluttà;
E piangevano spesso, pensando che la vita,
Per loro, ormai felici, potea dirsi finita.
In quella prateria dove, le bocche
unite,
Si stringevan d'amore, come l'olmo alla vite,
Si elevava una pianta, misteriosa e strana
Come se provenisse da una terra lontana:
Avea le foglie a lancia, di sangue erano i fiori:
«La pianta del Silenzio» – dicevano i pastori.
E Gemma lo sapeva, che l'eterno
riposo,
Il sonno senza fine, il gran sogno che incanta,
Verrebbe solo a mordere quella bizzarra pianta.
Un giorno che rideva, col suo
promesso sposo,
Distesa sotto l'albero, fra i labbri dell'amato
Mise una foglia tolta dall'albero incantato,
Ed ella pare morse la foglia ch'avea presa,
E ai piedi dell'amato cadde anch'essa distesa.
Vennero, nella sera, a gemer le
colombe,
E la pace regnò sulle amorose tombe.
– Bellissimi – disse Choulette. – Un'Italia dolcemente velata dalle nebbie di Tule!
– Sì – aggiunse la contessa Martin – veramente belli. Ma perchè, cara Viviana, i vostri due begli innocenti hanno voluto morire?
– Oh! darling; perchè si sentivano felici quant'è possibile esserlo, e non desideravano più niente. È una cosa disperante, darling, disperante. Come mai non lo capite?
– E credete voi che, se viviamo, è perchè speriamo ancora?
– Oh! certo, darling, noi viviamo nell'attesa di ciò che Domani, Domani, re del paese delle fate, ci recherà nel suo mantello nero ed azzurro, seminato di fiori, di stelle, di lagrime. Oh! bright king To-Morrow!3.