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S'erano vestiti per il pranzo. Nel salotto, Miss Bell disegnava dei mostri, imitati da Leonardo. Essa li creava, per sapere quel che poi avrebbero detto, sicura che parlerebbero, e che esprimerebbero in ritmi bizzarri delle idee rare. Essa li ascolterebbe. Era in questo modo che, il più delle volte, componeva i suoi poemi.
Il principe Albertinelli canticchiava al piano la siciliana O Lola!... Le sue dita sfioravano mollemente i tasti.
Choulette, più ruvido del solito, domandava del filo e degli aghi per rammendarsi da sè gli abiti. Gemeva per aver perduto un modesto astuccio da lavoro che portava in tasca da trent'anni, e che gli era caro per la dolcezza dei ricordi e la forza dei consigli che ne riceveva. Pensava d'averlo perso in una sala profana di Palazzo Pitti; e lo rimproverava ai Medici e a tutti i pittori italiani.
Guardò Miss Bell con occhio cattivo:
– Io compongo i miei versi ricucendo i miei stracci. Mi compiaccio del lavoro delle mie mani. Canto le mie canzoni spazzando la stanza; è perciò che queste canzoni sono andate al cuore degli uomini, come le vecchie canzoni dei lavoratori e degli artigiani, che sono ancora più belle delle mie, ma non più naturali. Ho questa nerezza di non volere altro servitore che me stesso. La vedova del sagrestano m'ha chiesto di rifare la mia camera; io non gliel'ho permesso. È male far compiere servilmente dagli altri le opere che possiamo compiere noi stessi con nobile libertà.
Il principe suonava con indolenza l'indolente musica. Teresa, che, da otto giorni, correva per le chiese e i musei in compagnia della signora Marmet, pensava alla noia che le procurava la sua compagna, scoprendo sempre nelle figure dei vecchi pittori la somiglianza di qualche persona da lei conosciuta. Al mattino, a Palazzo Riccardi, soltanto sugli affreschi di Benozzo Gozzoli, aveva riconosciuto il signor Garain, il signor Lagrange, Schmoll, la principessa Seniavine vestita da paggio, e Renan a cavallo. Renan, era sgomenta di ritrovarlo dappertutto. Essa riconduceva tutte le idee al suo piccolo cerchio di accademici e di mondani, con una facilità che urtava la sua amica. Ricordava con voce melliflua le sedute pubbliche dell'istituto, i corsi della Sorbona, le serate in cui brillavano i filosofi spiritualisti e mondani. Quanto alle donne, secondo il suo parere, erano tutte graziose e irreprensibili. Pranzava da tutte. E Teresa pensava: «È troppo savia, la buona signora Marmet: mi annoia.» Pensava di lasciarla a Fiesole e di andare da sola a visitare le chiese. Adoperando, dentro di sè, una frase che Le Menil le aveva insegnato, si disse: – Pianterò la signora Marmet.
Un vecchio svelto entrò nel salotto. I suoi baffi impomatati e il suo pizzo bianco gli davano l'aspetto d'un vecchio militare. Ma il suo sguardo tradiva, sotto gli occhiali, quella dolcezza degli occhi usi alla scienza ed alla voluttà. Era un Fiorentino, amico di Miss Bell e principe, il professore Arrighi, un tempo adorato dalle donne, e adesso celebre in Toscana e nell'Emilia per i suoi studi sull'agricoltura.
Piacque subito alla contessa Martin, la quale, benchè non avesse un'idea favorevole sulla vita rurale in Italia, volle interrogare il professore sui suoi metodi e sui risultati che otteneva.
Egli procedeva con un'energia prudente:
– La terra – disse – è come le donne: vuole che con lei non si sia nè timido nè brutale.
L'Ave Maria, suonata a tutti i campanili, faceva del cielo un immenso strumento di musica religiosa.
– Darling – disse Miss Bell – avete notato che l'aria di Firenze è sonora, e tutto argentato, di sera, il suono delle campane?
– È singolare: – disse Choulette – abbiamo l'aria di persone che aspettano.
Viviana Bell gli rispose che, infatti, aspettavano il signor Dechartre. Era un po' in ritardo; temeva che avesse perso il treno.
Choulette si avvicinò alla signora Marmet e disse con gravità:
– Signora Marmet, è possibile, per voi, guardare una porta, una semplice porta di legno dipinto, come la vostra – suppongo – o la mia, o questa qui, o un'altra qualunque, senza esser presa dallo spavento e dall'orrore, al pensiero del visitatore che può in ogni momento venire? La porta della nostra casa, signora Marmet, si apre sull'infinito. Ci avete mai pensato? Sappiamo noi mai il vero nome di colui o di colei che, sotto un'apparenza umana, con una figura conosciuta, in abiti volgari, entra da noi?
Quanto a lui, chiuso nella sua camera, non poteva guardare la porta, senza che la paura gli facesse rizzare i capelli sulla testa.
Ma la signora Marmet vedeva le porte del suo salotto aprirsi senza paura. Sapeva il nome di tutti quelli che venivano da lei: tutte brave persone.
Choulette la guardò con tristezza e, scuotendo la testa:
– Signora Marmet, signora Marmet, quelle che voi chiamate col loro nome terrestre hanno un altro nome, che voi non conoscete, e che è il loro vero nome.
La signora Martin domandò a Choulette se credeva che il dolore avesse bisogno di varcare la porta, per entrare nelle famiglie.
– È ingegnoso e sottile. Viene dalla finestra, attraversa i muri. Non si mostra sempre: è sempre là. Le povere porte sono ben innocenti della venuta di questo malvagio visitatore.
Choulette ammonì severamente la signora Martin di non chiamare malvagia la visita del dolore.
– Il dolore è il nostro maggior padrone e il nostro migliore amico, e insegna il senso della vita. Signore, quando soffrirete, saprete quel che bisogna sapere, crederete quel che bisogna credere, farete quel che si deve fare, sarete quel che si deve essere. E avrete la gioia, che scaccia il piacere. La gioia è timida, e non si compiace nelle feste.
Il principe Albertinelli disse che Miss Bell e le sue due amiche francesi non avevano bisogno d'essere infelici per esser perfette, e che la dottrina del perfezionamento attraverso il dolore era una crudeltà barbara, che faceva orrore sotto il bel cielo d'Italia. Poi, nel languore della conversazione, si rimise a cercare prudentemente le frasi della graziosa e banale romanza siciliana, temendo di scivolare sopra un'aria del Trovatore, sullo stesso motivo.
Viviana Bell interrogava a bassa voce i mostri che aveva creato, e si lamentava delle loro risposte assurde e canzonatorie.
– In questo momento – diceva – non vorrei sentire che delle figure di arazzi che dicessero delle cose pallide, antiche e preziose come loro.
E il bel principe, trasportato adesso dall'onda della melodia, cantava. La sua voce si elevava, s'arrotondava come una coda di pavone, si gonfiava e poi moriva con degli «ah ah! ah!» svenevoli.
La buona signora Marmet, guardando la porta vetrata, disse:
– Mi par di vedere il signor Dechartre.
Miss Bell lo accolse con dei gridolini da uccello.
– Signor Dechartre, eravamo molto impazienti di vedervi. Il signor Choulette diceva male delle porte... sì delle porte delle case, e diceva pure che il dolore è un vecchio gentiluomo, molto cortese. Avete perduto tutti questi bei discorsi. Vi siete fatto molto aspettare, signor Dechartre, perchè?
Egli si scusò: era appena passato all'albergo e fatto una brevissima toelette. Non era nemmeno andato a salutare il suo buono e grande amico, il San Marco di bronzo, così commovente nella sua nicchia, nel muro d'Or San Michele. Fece degli elogi alla poetessa e salutò la contessa Martin con una gioia appena dissimulata:
– Prima di lasciare Parigi, sono andato per trovarvi in corso Debilly, dove ho saputo che attendevate la primavera a Fiesole, da Miss Bell. Ho avuto allora la speranza di ritrovarvi in questo paese, che amo più che mai.
Essa gli chiese se era passato prima a Venezia, se aveva rivisto a Ravenna, le imperatrici aureolate, i fantasmi scintillanti.
No, non; s'era fermato da nessuna parte.
Ella non disse niente. Il suo sguardo, restava fisso all'angolo del muro, sulla campana di San Paolino.
Egli le disse:
– Guardate la campanella di Nola?
Viviana Bell mise da parte le sue carte e le matite.
– Vedrete presto una meraviglia che vi colpirà di più, signor Dechartre. Ho messo la mano sulla regina delle piccole campane. L'ho trovata a Rimini, in un frantoio in rovina, che serve oggi da magazzino, dove ero andata a cercare dei vecchi legni saturi d'olio, che sono diventati così duri, così scuri e così brillanti! L'ho comprata e l'ho fatta imballare io stessa. L'attendo con viva impazienza. Vedrete. Essa ha intorno un Cristo in croce, fra la Vergine e San Giovannî, colla data del 1400 e le armi dei Malatesta... Signor Dechartre, non prestate abbastanza attenzione. Ascoltatemi bene. Nel 1400, Lorenzo Ghiberti, che fuggiva la guerra e la peste, s'era rifugiato a Rimini, da Paolo Malatesta. È lui certamente che ha modellato le figure della mia campana. E voi vedrete qui, la settimana prossima, un'opera del Ghiberti.
Vennero ad annunziare che la tavola era pronta.
Ella si scusò di farli pranzare all'italiana. Il suo cuoco era un poeta di Fiesole.
A tavola, davanti ai fiaschi impagliati, parlarono di quel felice secolo XV che amavano. Il principe Albertinelli lodò gli artisti di quel tempo per la loro universalità, per il fervido amore che portavano alla loro arte e per il genio che li animava. Parlava con ènfasi, con una voce carezzevole.
Anche Dechartre li ammirava, ma in un altro modo.
– Per lodare degnamente quegli uomini – disse – che, da Giotto a Masaccio, lavorarono con tanta lena, vorrei che la lode fosse modesta e precisa. Bisognerebbe prima di tutto mostrarli nel loro laboratorio, nella bottega in cui vivevano come artigiani. È là, vedendoli all'opera, che si gusterebbe la loro semplicità e il loro genio. Essi erano ignoranti e rudi. Avevano letto poco e visto poche cose. Le colline che circondano Firenze limitavano l'orizzonte dei loro occhi e della loro anima. Non conoscevano che la loro città, la Sacra Scrittura e alcuni ruderi di sculture antiche, studiati, carezzati con amore.
– Dite bene – fece il professor Arrighi. –Non si curavano che d'impiegare i sistemi migliori; la loro preoccupazione consisteva tutta nel preparare l'intonaco e mescolare bene i colori. Colui che immaginò d'incollare una tela sulla tavola, perchè la pittura non si fondesse col legno, passò per un uomo meraviglioso. Ogni maestro aveva le sue ricette e le sue formule, che nascondeva gelosamente.
– Fortunati tempi – riprese Dechartre – in cui ci si affannava per quella originalità che oggi cerchiamo così avidamente. L'apprendista cercava d'imitare il maestro. Non aveva altra ambizione che di somigliargli, ed è senza volere che si mostrava diverso dagli altri. Lavoravano non per la gloria, ma per vivere.
– Avevano ragione – disse Choulette. – Non c'è niente di meglio che lavorare per vivere.
– Il desiderio di passare alla posterità, – proseguì Dechartre – non li turbava affatto. Non conoscendo il passato, non concepivano l'avvenire, e il loro sogno non andava al di là della loro vita. Mettevano una volontà possente a far bene. Essendo semplici, non s'ingannavano molto e vedevano la verità che è celata alla nostra intelligenza.
Intanto Choulette cominciava a raccontare alla signora Marmet la visita che aveva fatto, in giornata, alla principessa della casa di Francia, per la quale la marchesa De Rieu gli aveva dato una lettera di presentazione. Si compiaceva nel far sentire che egli, il bohèmien e il vagabondo, era stato ricevuto da quella principessa reale presso la quale nè Miss Bell nè la contessa Martin sarebbero state ammesse, e che il principe Albertinelli si vantava di avere un giorno incontrato in una cerimonia.
– Essa è dedita – disse il principe – alle pratiche di una minuziosa devozione.
– È mirabile di nobiltà e di semplicità – disse Choulette. – Nella sua casa, circondata dai suoi gentiluomini e dalle sue dame, fa osservare la più rigorosa etichetta, affinchè la sua grandezza sia una penitenza, e va tutte le mattine a lavare il pavimento della chiesa. È una chiesa di villaggio dove entrano le galline, mentre il curato giuoca a briscola col sagrestano.
E Choulette, chinandosi sulla tavola, imitò col tovagliolo la lavatrice curvata. Poi, rialzando la testa, disse gravemente:
– Dopo una congrua attesa in salotti consecutivi sono stato ammesso a baciarle la mano.
E tacque.
La signora Martin, impazientita, domandò:
– Insomma, che cosa v'ha detto, quella principessa mirabile di nobiltà e di semplicità?
– M'ha detto: «Avete visitato Firenze? Mi si assicura che da poco tempo hanno aperto dei bellissimi magazzini, che sono illuminati di sera.» M'ha detto anche: «Abbiamo qui un buon farmacista. Quelli d'Austria non sono migliori. Mi ha messo sulla gamba, sei settimane fa, un impiastro che non è ancora caduto.» Tali sono le parole che Maria Teresa si è degnata di rivolgermi. Oh, semplice grandezza oh, virtù cristiana! oh, figlia di San Luigi! oh, meravigliosa eco della vostra voce, santissima Elisabetta d'Ungheria!
La signora Martin sorrise. Pensava che Choulette scherzasse. Ma egli protestò, indignato. E Miss Bell diede torto alla sua amica. Era un'abitudine francese – diceva – credere sempre che si scherzi.
Poi si tornò alle idee d'arte, che, in questo, paese, si respirano coll'aria.
– Per me – disse la contessa Martin – non sono abbastanza sapiente per ammirare Giotto e la sua scuola. Quel che mi colpisce, è la sensualità di quest'arte del quindicesimo secolo, che si dice cristiano. Non ho visto della devozione e della purezza che nelle immagini, del resto molto graziose, di Frate Angelico. Il resto, quelle figure di vergini e d'angeli, sono voluttuose, carezzanti, e talvolta d'una ingenuità perversa. Che cos'hanno di religioso, quei giovani re magi, belli come donne, quel San Sebastiano, brillante di giovinezza, che è come il Bacco doloroso del cristianesimo?
Dechartre le rispose che pensava lo stesso, e che essi dovevano bene aver ragione, dal momento che Savonarola era del loro parere, e, non trovando un vero sentimento di devozione in nessuna opera d'arte, voleva bruciarle tutte.
– C'erano già – egli disse – a Firenze, al tempo di quel superbo Manfredi, mezzo mussulmano, degli uomini che si dicevano appartenere alla sètta di Epicuro e che cercavano degli argomenti contro l'esistenza di Dio. Il bel Guido Cavalcanti disprezzava gli ignoranti che credevano all'immortalità dell'anima. Si citava di lui questa frase: «La morte degli uomini è uguale a quella delle bestie». Più tardi, quando l'antica bellezza uscì dalle tombe, il cielo cristiano apparve triste. I pittori, che lavoravano nelle chiese e nei chiostri, non erano nè devoti nè casti. Il Perugino era ateo, e non lo nascondeva.
– Sì – disse Miss Bell – ma si diceva che egli aveva la testa dura, e che le verità celesti non potevano penetrare nel suo cranio duro. Egli era villano ed avaro, e tutto preoccupato degli interessi materiali. Non pensava che a comprare delle case.
Il professore Arrighi prese le difese di Pietro Vannucci da Perugia.
– Era – egli disse – un uomo probo. E il priore dei Gesuati di Firenze ebbe proprio torto di diffidare di lui. Quel religioso praticava l'arte di fabbricare il blu d'oltremare polverizzando delle pietre di lapislazzuli calcinate. L'oltremare valeva allora a peso d'oro; e il priore, che aveva senza dubbio dei segreti, stimava il suo più prezioso del rubino e dello zaffiro. Chiese a Pietro Vannucci di decorare i due chiostri del suo convento, e si aspettava delle meraviglie, meno dall'abilità dell'artista che dalla bellezza di quell'oltremare diffuso sui cieli. Per tutto il tempo in cui il pittore lavorò nei chiostri a dipingere la passione di Cristo, il priore stette al suo fianco, presentandogli la polvere preziosa in un sacchetto che non lasciava mai. Pietro vi attingeva, sotto lo sguardo del sant'uomo, e tuffava il suo pennello carico di colore in un vaso pieno d'acqua, prima di spalmare l'intonaco del muro. Impiegava così una grande quantità di polvere. E il buon Padre, vedendo il suo sacchetto assottigliarsi ed esaurirsi, sospirava: «Gesù mio! quanto oltremare divora questa calce!» Quando gli affreschi furono terminati e il Perugino ebbe ricevuto dal religioso il compenso convenuto, gli mise in mano un pacchetto di polvere azzurra: – Questa è per voi, padre mio. Il vostro oltremare che prendevo col mio pennello, scendeva in fondo alla ciotola d'acqua, dove io lo raccoglievo ogni giorno. Ve lo restituisco. Imparate a fidarvi dei galantuomini.
– Oh! – disse Teresa – non c'è niente di straordinario che il Perugino sia stato avaro e probo. Non sono sempre le persone interessate quelle che sono meno scrupolose. Ci sono molti avari onesti.
– Naturalmente, «darling!» – fece Miss Bell. – Gli avari non vogliono esser debitori di nessuno, mentre i prodighi trovano sopportabilissimo avere dei debiti. Non pensano molto al danaro che possiedono, e meno ancora a quello che devono. Io non ho detto che Pietro Vannucci da Perugia fosse un uomo senza probità; ho detto che aveva la testa dura, e che comperava molte case. Sono ben contenta di sapere che ha restituito l'oltremare al priore dei Gesuati.
– Dal momento che il vostro Pietro era ricco – disse Choulette – doveva restituire l'oltremare. I ricchi sono moralmente obbligati ad essere probi; i poveri, no.
In quel momento, il maggiordomo gli presentò il bacino d'argento, sopra il quale tendeva il vaso che conteneva l'acqua profumata per lavarsi le mani. Era un vaso cesellato e una coppa a doppio fondo, che Miss Bell faceva passare, secondo l'uso antico, ai suoi convitati, dopo il pasto.
Ma Choulette non tese nemmeno la punta delle dita, col pretesto di non voler fare il gesto di Pilato; ma, in realtà, perchè non amava lavarsi le mani.
E si alzò, feroce, dopo Miss Bell, che usciva da tavola a braccetto del professore Arrighi.
Nel salotto, essa disse, servendo il caffè:
– Signor Choulette, perchè ci condannate alle tristezze selvagge dell'uguaglianza? Perchè? Il flauto di Dafne non canterebbe così bene se fosse fatto di sette canne uguali. Voi volete distruggere le belle armonie del padrone e dei servitori, dell'aristocrazia e degli artigiani. Oh! voi siete un barbaro, signor Choulette. Avete della pietà per i bisognosi, e non avete pietà per la divina Bellezza, che esiliate da questo mondo. Voi la cacciate, signor Choulette, la ripudiate nuda e piangente. State sicuro: essa scomparirà dalla terra, quando i poveri piccoli uomini saranno tutti deboli, miseri, ignoranti. Oh! disfare i gruppi ingegnosi formati nella società dagli uomini di condizioni diverse, gli umili coi magnifici, significa esser nemico dei poveri come dei ricchi, essere il nemico del genere umano.
– I nemici del genere umano! – rispose Choulette, mettendo lo zucchero nel caffè. – Così il duro Romano, chiamava i cristiani che gli insegnavano l'amore.
Dechartre, in questo frattempo, seduto vicino alla signora Martin, la interrogava sui suoi gusti artistici e di bellezza, sosteneva, guidava, animava le sue ammirazioni, la spingeva talvolta con un impulso carezzevole, voleva che vedesse tutto ciò che egli aveva visto, che amasse tutto ciò che egli amava.
Desiderava che andasse nei giardini fin dal principio della primavera. La contemplava in anticipo sulle nobili terrazze, vedeva già la luce scherzare sulla sua nuca e tra i suoi capelli, l'ombra dei lauri scender sull'orbita oscurata dei suoi occhi. Per lui, la terra e il cielo di Firenze non dovevano che servire da ornamento per questa giovine donna.
La lodò per la semplicità delle sue vesti, adatte alla sua forma e alla sua grazia, per la deliziosa franchezza delle linee che nascevano da ogni suo movimento. Gli piacevano – diceva – quelle toilettes animate e viventi, flessuose, spirituali e libere, che si vedono raramente, che non si dimenticano.
Profondamente adulata, non aveva mai sentito delle lodi che le facessero maggior piacere. Sapeva di vestirsi benissimo, con un gusto ardito e sicuro. Ma nessun uomo, eccettuato suo padre, le aveva fatto, a questo proposito, i complimenti di un intenditore. Credeva gli uomini capaci soltanto di sentire l'effetto di una toilette, senza comprenderne i dettagli ingegnosi. Alcuni, che s'intendevano di stoffe e trine, la sconcertavano per una cert'aria effeminata e dei gusti equivoci. Ella si rassegnava a non vedere apprezzate le eleganze dei suoi vestiti che da delle donne, che vi portavano uno spirito gretto, della malignità e dell'invidia. L'ammirazione artistica e maschia di Dechartre la sorprese e le piacque. Accettò con piacere le sue lodi, senza pensare a trovarle troppo intime e quasi indiscrete.
– Dunque, voi guardate i vestiti, signor Dechartre?
No, egli non li guardava molto. Erano così rare, le donne ben vestite, anche in questi tempi, in cui le donne si vestono così bene e meglio che mai! Non gli piaceva veder camminare dei fagotti. Ma se gli passava davanti una donna che avesse il ritmo e la linea, la benediva.
Continuò, alzando un poco la voce:
– Non posso pensare a una donna che ha cura di adornarsi ogni giorno, senza meditare la grande lezione che dà agli artisti. Essa si veste e si pettina per poche ore, ed è una cura che non va perduta. Noi dobbiamo, come lei, ornare la vita, senza pensare all'avvenire. Dipingere, scolpire, scrivere per la posterità, non è altro che la sciocchezza dell'orgoglio.
– Signor Dechartre – chiese il principe Albertinelli – che ne dite, per Miss Bell, d'una vestaglia color malva, cosparsa di fiori d'argento?
– Io – disse Choulette – penso così poco all'avvenire terrestre, che ho scritto i miei più bei poemi sopra cartine da sigarette. Esse sono presto sfumate, non lasciando ai miei versi che una specie d'esistenza metafisica.
Si dava un'aria di negligenza; ma, in realtà, non aveva mai perduto un rigo dei suoi scritti. Dechartre era più sincero: non gl'importava di sopravvivere. Miss Bell lo biasimò.
– Signor Dechartre, perchè la vita sia grande e piena, bisogna mettervi il passato e l'avvenire. Le nostre opere di poesia e d'arte, bisogna compierle in onore dei morti, e nel pensiero di coloro che nasceranno. Noi parteciperemo così di quel che fu, di quello che è, e di quel che sarà. Voi non volete essere immortale, signor Dechartre. State attento che Dio vi sente.
Egli riprese:
– Mi basta vivere un momento ancora.
E prese congedo, promettendo di tornare domani di buon'ora, per condurre la signora Martin alla cappella Brancacci.
Un'ora dopo, nella camera piena di gusto estetico, tappezzata di stoffe, in cui dei cedri, carichi d'enormi frutti d'oro, formavano come un bosco incantato, Teresa, colla testa sul guanciale e il suo bel braccio nudo piegato sotto la testa, pensava, sotto la lampada, e vedeva fluttuare confusamente davanti a lei le immagini della sua nuova vita: Viviana Bell e le sue campane, quelle figure dei preraffaelliti leggere come ombre, quelle dame, quei cavalieri isolati, indifferenti, in mezzo a scene devote, un po' tristi e guardando chi viene; più piacevoli così, e più amichevoli nel loro dolce letargo; e, la sera, nella villa di Fiesole, il principe Albertinelli, il professor Arrighi, Choulette, i discorsi agili, il gioco bizzarro delle idee; e Dechartre, collo sguardo giovanile sopra un viso un po' stanco, un'aria africana colla sua tinta abbronzata e la sua barbetta a punta.
Pensò che egli aveva una fantasia piacevole, un'anima più ricca di tutte quelle che s'erano aperte a lei, e un'attrattiva alla quale non resisteva più. Gli aveva subito riconosciuto il dono di piacere; adesso gliene scopriva la volontà. Questa idea le fu deliziosa: chiuse gli occhi per assaporarla meglio. Poi, d'un tratto, trasalì.
Aveva sentito un colpo sordo, battuto dentro di lei, nel mistero del suo essere, un urto doloroso. Ebbe la visione brusca, inattesa, del suo amico, col fucile sotto il braccio, nei boschi. Camminava, col suo passo fermo e regolare, nel viale profondo. Ella non poteva vedere il suo viso, e ciò la turbava. Non aveva rancore verso di lui, non era più malcontenta. Adesso, era malcontenta di sè. E Roberto andava dritto, senza voltar la testa, lontana, sempre più lontano, fino a non esser più che un punto nero nel bosco desolato. Ella si giudicava brutale e capricciosa, e dura, per averlo lasciato senza un addio, persino senza una lettera. Era il suo amico, il suo solo amico. Non ne aveva mai avuti altri. Pensò: – Non vorrei che fosse infelice per causa mia.
A poco a poco, si rassicurò. Egli l'amava senza dubbio; ma non era troppo sensibile, troppo ingegnoso, fortunatamente, per inquietarsi e tormentarsi. Disse tra sè: – È a caccia. È contento. Vede sua zia di Lannois, ch'egli ammira... – Si tranquillizzò e tornò a pensare alle blandizie di Firenze. Visitando da sola la Galleria degli Uffizi, un piccolo Ercole, di Antonio Pollaiuolo, aveva, le sembrava, richiamato subito la sua curiosità. Ma, in verità, non se n'era interessata che il giorno in cui Dechartre, nel corso di una conversazione, glielo aveva vantato per la forza del disegno, la bellezza del paesaggio e la grazia di un chiaroscuro che faceva presentire l'arte del Vinci. E adesso, ricordandosi male quel piccolo Ercole, provava un'ardente impazienza di rivederlo. Con questo desiderio, spense la lampada e si addormentò.
Al mattino, sognò che incontrava, in una chiesa deserta, Roberto Le Ménil avvolto in una pelliccia che non gli aveva mai visto. Egli l'attendeva, ma una folla di preti e di devoti, sopraggiunta ad un tratto, li aveva separati. Non sapeva che cosa ne fosse stato di lui. Non aveva potuto vedere il suo viso, e ciò la spaventava. Essendosi svegliata, intese alla finestra, che aveva lasciato aperta, un piccolo grido monotono e triste, e vide nell'alba lattiginosa passare una rondine. Allora, senza motivo, ella pianse,