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Di buon'ora, si compiacque nel vestirsi con cura delicata e minuziosa. Il gabinetto di toilette, uscito dalla fantasia estetica di Viviana Bell, col suo vasellame verniciato alla rustica, le sue grandi brocche di rame e la scacchiera dei suoi quadretti di maiolica, somigliava ad una cucina, ma ad una cucina da fata. Era rustico e meraviglioso al punto che la contessa Martin ebbe la sorpresa piacevole di credersi Cenerentola. Mentre la cameriera la pettinava, sentì Dechartre e Choulette che discorrevano insieme sotto le sue finestre. Rifece tutto ciò che aveva fatto Paolina, e scoprì arditamente quella linea della nuca, che aveva così bella. Si guardò un'ultima volta nello specchio, e scese in giardino.
Nel giardino, piantato di tassi come un cimitero felice, Dechartre recitava dei versi di Dante, guardando Firenze: «Nell'ora che comincia i tristi lai...»
Vicino a lui, Choulette, seduto sulla balaustra della terrazza, le gambe ciondoloni e il naso nella barba, scolpiva la figura della Miseria sul suo bastone da vagabondo.
E Dechartre riprendeva i versi del Divino Poema:
«...nell'ora che la mente peregrina,
Più dalla carne e men da' pensier presa,
Alle sue vision quasi è divina...»
Ella veniva, lungo il filare di bussi, sotto il suo ombrello, nella sua veste color del granturco. Il fine sole d'inverno l'avvolgeva d'oro pallido.
Dechartre le dette il buongiorno con una gioia visibile.
– Voi recitate dei versi – ella disse –– che io non conosco. Io non conosco che Metastasio. Il mio professore d'italiano amava molto Metastasio e non amava che lui. Qual'è quell'ora in cui lo spirito è divino nelle sue visioni?
– Signora, è l'alba del giorno. Può essere pure l'alba della fede e dell'amore.
Choulette credeva che il Poeta avesse voluto parlare dei sogni del mattino, che lasciano al risveglio un'impressione così viva e talvolta così penosa, e che non sono estranei alla carne. Ma Dechartre non aveva citato quei versi che nel rapimento dell'alba d'oro che aveva visto quella mattina sulle colline bionde. S'era da molto tempo preoccupato delle immagini che si formano durante il sonno, e credeva che queste immagini non si riferissero all'oggetto che più ci interessa, ma, al contrario, a delle idee abbandonate durante la giornata.
Allora Teresa si ricordò il suo sogno del mattino, il cacciatore perduto nel viale profondo.
– Sì – diceva Dechartre – quel che vediamo la notte, sono i resti disgraziati di quello che abbiamo trascurato nella veglia. Il sogno è spesso la rivincita delle cose che si disprezzano o il rimprovero degli esseri abbandonati. Da ciò il suo imprevisto e talvolta la sua tristezza.
Teresa restò un momento pensierosa, e disse:
– Forse è vero.
Poi, vivacemente, domandò a Choulette se avesse terminato il ritratto della Miseria sul pomo del suo bastone. Quella Miseria era diventata una Pietà, e Choulette vi riconosceva la Vergine. Aveva pure composto una quartina per scriverla sotto, a spirale, una quartina didascalica e morale. Non voleva scrivere più che nello stile dei comandamenti di Dio messi in versi francesi. I quattro versi erano di questo genere semplice e buono. Acconsentì a ripeterli:
Della Croce piango ai piedi;
Sotto l'alber di salvezza,
Che è l'emblema di purezza;
Con me ama, piangi e credi.
Come nel giorno del suo arrivo, Teresa si affacciò alla balaustrata della terrazza e cercò in lontananza, in fondo al mare di luce, le cime di Vallombrosa, quasi fluide come il cielo. Giacomo Dechartre la guardava. Gli sembrava di vederla per la prima volta, tanta delicatezza scopriva su quel viso, in cui il lavoro della vita e dell'anima aveva messo delle profondità, senza alterarne la grazia giovane e fresca La luce, che ella amava, le era indulgente. E, veramente, era graziosa, bagnata in quel giorno leggero di Firenze, che carezza le belle forme e nudrisce i nobili pensieri. Un colorito fine di rosa saliva alle sue guance dolcemente arrotondate. Le sue pupille, d'un grigio azzurrino, ridevano; e, quando parlava, lo splendore dei suoi denti aveva una dolcezza ardente. Egli l'avvolse con uno sguardo che abbracciava il busto flessuoso, le anche piene e la curva ardita della persona. Essa teneva il suo ombrello colla sinistra; l'altra mano nuda giuocava con delle violette. Dechartre aveva il gusto, l'amore, la follia delle belle mani. Le mani assumevano ai suoi occhi una fisonomia così impressionante come il viso; un carattere, un'anima. Quelle di Teresa lo rapivano. Le trovava sensuali e spirituali: gli sembrava che fossero nude per voluttà. Ne adorava le dita affusolate, le unghie rosee, il palmo grassoccio e tenero, attraversato da linee eleganti come arabeschi, e che alla base delle dita s'elevavano in monticelli armoniosi. Le esaminò con un'attenzione piacevole, fino a che ella le chiuse sul manico dell'ombrello. Allora, un poco dietro di lei, la guardò ancora. Il busto e le braccia, d'una linea gracile e pura, le ànche opulente, le caviglie fini, nella sua bella forma d'ànfora vivente, tutta gli piacque.
– Signor Dechartre, quella macchia nera, laggiù, sono i giardini di Boboli, non è vero? Li ho visti tre anni fa. Avevano pochi fiori. Eppure, coi loro grandi alberi tristi, li amavo.
Fu quasi sorpreso ch'ella parlasse, che pensasse. Il suono chiaro di quella voce lo stupiva come se non l'avesse mai sentita.
Rispose a caso, e sorrise con sforzo per nascondere il fondo brutale e preciso del suo desiderio. Fu imbarazzato e goffo; ma parve che ella non se ne accorgesse. Sembrava contenta quella voce profonda, che si velava e si affievoliva, la carezzava a sua insaputa. Diceva, come lui, delle cose facili:
– Questa vista è bellissima. Il tempo è dolce.