Anatole France
Il giglio rosso

XII.

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               XII.

Al mattino, colla testa sul guanciale ricamato da uno scudo in forma di campana, Teresa pensava alle passeggiate della vigilia, a quelle Vergini così fini in mezzo agli angeli, a quegli innumerevoli fanciulli, dipinti e scolpiti, tutti belli, tutti felici, che cantano ingenuamente per la città l'alleluia della grazia e della bellezza. Nella cappella illustre dei Brancacci, davanti a quegli affreschi pallidi e splendenti come un'alba divina, egli le aveva parlato di Masaccio, in un linguaggio così vivo e colorito, che le era sembrato di vederlo, l'adolescente maestro dei maestri, colla bocca semiaperta, l'occhio cupo ed azzurro, distratto, morente, rapito. Ed essa aveva amato quelle meraviglie d'un mattino più bello del giorno. Dechartre era per lei l'anima di quelle forme magnifiche, lo spirito di quelle nobili cose. Per lui ed in lui, comprendeva l'arte e la vita. Ella non s'interessava agli spettacoli del mondo, se non in quanto se ne interessava egli stesso.

Come le era venuta questa simpatia? Non ne aveva un ricordo preciso. Dapprima, quando Paolo Vence volle presentarglielo, non aveva nessun desiderio di conoscerlo, nessun presentimento che le piacerebbe. Si ricordava dei bronzi eleganti, delle cere fini firmate col suo nome, che aveva notate nel salone del Campo di Marte e presso Durand-Ruel. Ma non s'immaginava che potesse egli stesso piacere, esser più seducente di tanti artisti e amatori d'arte, dei quali si divertiva nei suoi pranzi intimi. Quando lo vide, le piacque; ebbe l'idea tranquilla di attirarlo, di vederlo spesso. La sera che pranzò da lei, si accorse che aveva per lui una simpatia nobilissima che la lusingava. Ma, poco dopo, la irritò alquanto: ella s'impazientava,di vederlo troppo chiuso in se stesso e nel suo mondo interiore, troppo poco occupato di lei. Avrebbe voluto turbarlo. In questo stato d'impazienza, e del resto di cattivo umore, sentendosi sola al mondo, lo aveva incontrato, una sera, davanti al cancello del Museo delle Religioni; ed egli le aveva parlato di Ravenna e di quella imperatrice seduta sopra un trono d'oro nella sua tomba. Lo aveva trovato grave e piacevole, colla voce calda, l'occhio dolce, nell'ombra della notte, ma troppo estraneo, troppo lontano, troppo sconosciuto. Ne sentiva come un malessere, e non sapeva più, in quel momento, lungo i bussi che fiancheggiano la terrazza, se aveva desiderio di vederlo tutti i giorni, o di non rivederlo più.

Da quando lo aveva ritrovato a Firenze, si compiaceva unicamente nel sentirlo presso di , nell'ascoltarlo: Egli le rendeva la vita amabile, diversa e colorita, nuova, completamente nuova. Le rivelava le gioie delicate e le tristezze deliziose del pensiero, risvegliava le voluttà che dormivano in lei. Adesso era ben decisa a tenerlo. Ma come? Prevedeva le difficoltà; il suo spirito lucido e il suo temperamento glielo presentavano tutto. Per un momento tentò di illudersi: si disse che, forse, sognatore, distratto, esaltato, perduto nei suoi studi d'arte, non aveva il gusto violento delle donne, e che rimarrebbe assiduo senza mostrarsi esigente. Ma ben presto, scuotendo il guanciale sulla sua bella testa tuffata nei cupi rivoli della sua capigliatura, non volle rafforzarsi in questa idea. Se Dechartre non era un tipo di amante, perdeva per lei tutto il fascino. Non osò più pensare all'avvenire. Viveva nell'ora presente; felice, inquieta, chiudendo gli occhi.

Fantasticava così, nell'ombra attraversata da frecce di luce, quando Paolina gli portò delle lettere col del mattino. Sopra una busta segnata collo stemma del circolo di Via Reale, riconobbe la calligrafia rapida e semplice di Le Ménil. Si aspettava di ricever questa lettera, sorpresa soltanto che, quel che doveva accadere, accadesse realmente; come, nella sua infanzia, quando l'infallibile pendola suonava l'ora della lezione di piano.

Nella sua lettera, Roberto le faceva dei rimproveri ragionevoli. Perchè esser partita senza dir niente, senza una parola d'addio? Dopo il suo ritorno a Parigi, egli aspettava tutte le mattine una lettera che non era venuta. Era più felice l'anno scorso, quando trovava al suo risveglio, due o tre volte la settimana, delle lettere così gentili e così ben fatte, che gli dispiaceva non poterle fare stampare. Inquieto, era corso a casa di lei.

«Sono rimasto meravigliato di apprendere la vostra partenza. Mi ha ricevuto vostro marito. M'ha detto che, cedendo ai suoi consigli, siete andata a finire l'inverno a Firenze, da Miss Bell. Da qualche tempo, vi trovava pallida, dimagrita, e aveva pensato che un cambiamento d'aria vi farebbe bene. Voi non volevate partire; ma essendo sempre più sofferente, è riuscito a convincervi.

«Io non m'era affatto accorto che foste dimagrita. Al contrario, mi sembrava che la vostra salute non lasciasse niente a desiderare. Eppoi Firenze non è un buon soggiorno invernale. Non capisco nulla della vostra partenza, e ne sono molto addolorato. Rassicuratemi subito, ve ne prego.

«Se credete che sia piacevole, per me, avere vostre notizie da vostro marito e ricevere le sue confidenze! Egli è afflitto per la vostra assenza, e desolato che le obbligazioni della vita pubblica lo trattengano in questo momento a Parigi. Ho sentito dire al circolo che ha delle probabilità di diventar ministro. La cosa mi sorprende, perchè non c'è la consuetudine di scegliere i ministri fra la gente di mondo

Poi raccontava le sue storie di caccia, Aveva portato per lei tre pelli di volpe, fra cui una bellissima; la pelle di un bravo animale che egli aveva tirato dalla sua tana per la coda, e che, essendovi voltato, lo aveva morso alla mano. «Dopo tutto – diceva – quella bestia era nel suo diritto

A Parigi aveva delle noie. Il suo giovane cugino si presentava al circolo: temeva che fosse bocciato. La candidatura era già annunziata. In quelle condizioni, non osava consigliargli di ritirarla; sarebbe stato per lui una grande responsabilità. D'altra parte, uno scacco sarebbe veramente sgradevole. Terminava supplicandola di dargli sue notizie e di tornare presto.

Dopo averla letta, strappò pian piano la lettera, la gettò al fuoco; e, con una tristezza arida, in una fantasticheria distratta la guardò bruciare.

Senza dubbio, egli aveva ragione. Diceva quel che doveva dire; si lamentava come doveva. Che cosa rispondergli? Continuare una questione ingiusta, tenergli ancora il broncio? Adesso si trattava proprio di un dispetto! Il motivo della loro questione le era diventato così indifferente, che aveva bisogno di pensarci per ricordarselo. Oh! no, non aveva più voglia di tormentarlo. Al contrario, come si sentiva buona verso di lui! Vedendo che egli l'amava con fiducia, in una tranquillità ostinata, se ne contristava e se ne impauriva. Non aveva cambiato, lui: era lo stesso uomo di prima. Lei, non era più la stessa donna. Erano adesso separati da delle cose impercettibili e forti come quegli influssi dell'aria che fanno vivere o morire. Quando la cameriera venne a vestirla, non aveva ancora cominciato a scrivere la risposta. Preoccupata, pensava: «Egli ha fede in me; egli è tranquillo.» Ed era questo, che le dava la maggiore impazienza: s'irritava contro quella gente semplice che non dubita di degli altri.

Essendo discesa nel salotto delle campane, vi trovò Viviana Bell che scriveva, e che le disse:

– Volete sapere, darling, quel che facevo aspettandovi? Niente e tutto. Dei versi. Oh! darling, bisogna che la poesia sia l'anima nostra, che si espande naturalmente.

Teresa baciò Miss Bell, e, colla testa sulla spalla dell'amica, chiese:

– Si può guardare?

– Oh! cara; guardate pure. Sono dei versi fatti sul genere delle canzoni popolari del vostro paese.

E Teresa lesse:

Gettò la pietra bianca
Giù nell'acqua profonda

La pietra cadde stanca
Sovra la placida onda,

Con un cerchio iridato.
Allora, un gran dolore

Provò, d'aver gettato
Il peso del suo cuore.

– Si tratta d'un simbolo, Viviana? spiegatemelo.

– Oh! darling, perchè spiegare, perchè? Una immagine poetica deve avere parecchi significati. Quello che avrete trovato, sarà per voi il significato vero. Ma ce n'è uno chiarissimo, mia cara: ed è che non bisogna sbarazzarsi leggermente di quel che si è messo nel proprio cuore.

I cavalli erano attaccati. Esse andarono, come avevano stabilito, a visitare la galleria Albertinelli, in Via del Moro. Il principe le attendeva e Dechartre doveva trovarle nel palazzo. Strada facendo, mentre la vettura scorreva sulle larghe lastre della via, Viviana Bell effondeva in piccole frasi canore la sua gaiezza fine e preziosa. Mentre scendevano fra case color rosa e bianche, tra giardini a poggetti, ornati di statue e di fontane, mostrò alla sua amica la villa, nascosta sotto i pini azzurrognoli, in cui le dame e i cavalieri del Decamerone andarono per sfuggire alla peste che faceva strage a Firenze, e si divertirono con dei racconti galanti, faceti o tragici. Poi confessò il buon pensiero che aveva avuto il giorno prima.

– Voi eravate andata, darling, al Carmine col signor Dechartre, e avevate lasciato a Fiesole la signora Marmet, che è una vecchia signora, piacevole, moderata e compita. Essa conosce molti aneddoti intorno alle persone più in vista di Parigi. E quando li racconta, fa come il mio cuoco Pampaloni quando serve le uova al piatto: non le sala, ma mette la saliera di fianco. La lingua della signora Marmet è insipida. Il sale è vicino: lo ha negli occhi. È il piatto di Pampaloni, «my love»4: ognuno lo mangia secondo il suo gusto. Oh! io voglio molto bene alla signora Marmet. Ieri, dopo la vostra partenza, l'ho trovata sola e triste in un angolo del salotto. Pensava a suo marito, ed era un pensiero doloroso. Le dissi: «Volete che pensi anch'io a vostro marito? Ci penserò molto volentieri con voi. M'hanno detto che era uno scienziato, membro della Società reale di Parigi. Signora Marmet, parlatemi di lui.» Mi rispose ch'egli si era dedicato agli Etruschi per tutta la sua vita. Oh! «darling», ho subito provato simpatia per la memoria di quel signor Marmet che aveva vissuto per gli Etruschi. E allora m'è venuta una buona idea. Ho detto alla signora Marmet: «Noi abbiamo a Fiesole, nel Palazzo Pretorio, un modesto piccolo museo etrusco. Venite a visitarlo con me volete?» M'ha risposto che era quanto di meglio desiderava vedere in tutta l'Italia. Siamo andate tutt'e due al Palazzo Pretorio; abbiamo, visto una leonessa e molte statuette d'uomini in bronzo, grotteschi, molto grassi o magrissimi. Gli Etruschi erano un popolo seriamente allegro. Facevano delle caricature di bronzo. Ma quei piccoli bambocci, gli uni oppressi dal loro grosso ventre, gli altri come stupiti di mostrare a nudo tutte le loro ossa, la signora Marmet li guardava con un'ammirazione dolorosa. Li contemplava come... C'è una parola francese bellissima che non ricordo... come i monumenti e i trofei del signor Marmet.

La signora Martin sorrise. Ma era pensierosa: il cielo le sembrava tetro, le strade brutte, i passanti volgari.

– Oh! «darling», il principe sarà ben contento di ricevervi nel suo palazzo.

– Non lo credo.

Perchè, «darling», perchè?

Perchè non gli piaccio molto.

Viviana Bell affermò che il principe, al contrario, era un grande ammiratore della contessa Martin.

I cavalli si fermarono davanti al palazzo Albertinelli. Alla facciata scura, d'aspetto rustico, erano attaccati quegli anelli di bronzo che, un tempo, nelle notti di festa, portavano delle torce di resina. Questi anelli indicano, a Firenze, l'abitazione delle più illustri famiglie. Il palazzo aveva così un'aria di fierezza feroce; dentro, si vedeva vuoto, ozioso, annoiato. Il principe corse loro incontro con premura, e le condusse, attraverso i saloni senza mobili, fino alla galleria. Si scusò di mostrare delle tele che non avevano certo un aspetto lusinghiero. La pinacoteca era stata formata dal cardinale Albertinelli, nell'epoca in cui dominava il gusto, oggi decaduto, di Guido e dei Caracci. Il suo antenato s'era compiaciuto a raccogliere le opere della scuola di Bologna. Ma egli avrebbe fatto vedere alla signora Martin alcune pitture che erano piaciute a Miss Bell; fra le altre, un Mantegna.

La contessa Martin riconobbe a colpo d'occhio una galleria truccata, un deposito di falsi capolavori da vendere, delle tele per finanzieri, com'erano tante volte offerte a suo padre, e che egli rifiutava per un fiuto d'affarista, in mancanza di senso artistico.

Un cameriere venne a presentare un biglietto da visita.

Il principe lesse a voce alta il nome di Giacomo Dechartre. In quel momento voltava la schiena alle due visitatrici. Il suo viso prese quell'espressione di malcontento crudele che si vede in certi marmi d'imperatori romani. Dechartre era sul pianerottolo dello scalone d'onore.

Il principe gli andò incontro con un sorriso languido.

– Io stessa, ieri, – gli disse Miss Bell – ho invitato il signor Dechartre a venire a Palazzo Albertinelli. Sapevo di farvi piacere. Egli desiderava vedere la vostra galleria.

Ed era vero che Dechartre aveva desiderato trovarvisi colla signora Martin. Adesso, andavano tutt'e quattro, fra i Guidi e gli Albani.

Miss Bell gorgheggiava col principe delle cosette graziose su quei vecchi e quelle vergini i cui mantelli azzurri erano agitati da una tempesta immobile. Dechartre, pallido, nervoso, si avvicinò a Teresa e le disse a voce bassa:

– Questa galleria è un deposito in cui i mercanti di quadri del mondo intero appiccicano il rifiuto dei loro magazzini. E il principe vende quello che degli ebrei non avevano potuto vendere.

La condusse davanti ad una Sacra Famiglia, esposta sopra un cavalletto coperto di velluto verde, e recante sulla cornice il nome di Michelangelo.

– Ho visto questa Sacra Famiglia da dei mercanti di Londra, di Basilea e di Parigi. Siccome essi non han trovato quei venticinque luigi che vale, hanno incaricato l'ultimo degli Albertinelli di domandarne cinquantamila franchi.

Il principe, vedendoli mormorare, e indovinando benissimo quel che dicevano, si avvicinò molto gentile.

– Di questo quadro esiste una copia che è stata offerta un po' dappertutto. Io non affermo che questo sia proprio l'originale, ma è rimasto sempre in famiglia, ed i vecchi inventari lo attribuiscono a Michelangelo. Ecco quel che posso affermare.

E il principe tornò verso Miss Bell, che cercava i Primitivi.

Dechartre si sentiva a disagio. Dal giorno prima pensava a Teresa. Per tutta la notte, aveva sognato e lavorato intorno alla sua immagine. La rivedeva deliziosa, ma ben altrimenti deliziosa e più desiderabile ancora di quel che non l'avesse pensata nell'insonnia; meno fusa e fluttuante, con un gusto più vivo di carne, più forte, più aspro, ed anche con un'anima più misteriosa e più impenetrabile. Essa era triste: gli parve fredda e distratta. Egli si disse che per lei era nulla, che diventava importuno e ridicolo: si fece cupo e s'irritò. Le mormorò in un orecchio, amaramente:

– Avevo riflettuto. Non volevo venire. Perchè son venuto?

Ella comprese subito quel che voleva dire, e che adesso la temeva, e ch'era impaziente, timido e imbarazzato. Gli piaceva così, e gli era grata del turbamento e dei desideri ch'essa gli dava.

Il cuore le palpitò. Ma, fingendo di credere ch'egli si pentisse d'essersi scomodato per della brutta pittura, gli rispose che infatti quella galleria non aveva niente d'interessante. Già preso dal terrore di dispiacerle, si rassicurò, e credette che veramente, indifferente e distratta, non avesse afferrato l'accento il significato delle parole sfuggitegli.

Egli riprese:

– No, niente d'interessante.

Il principe, che tratteneva le due visitatrici a colazione, pregò il loro amico di fermarsi anche lui. Dechartre si scusò. Stava per uscire, quando, nel grande salone vuoto, colle mensole ornate di scatole da confettieri, si trovò solo colla signora Martin. Aveva avuto l'idea di sfuggirla; adesso non aveva altra idea che di rivederla. Le ricordò che, all'indomani, essa doveva visitare il Bargello.

– Voi avete ben voluto permettermi d'accompagnarvi.

Essa gli chiese se non l'aveva trovata oggi noiosa e di malumore. Oh! no, non l'aveva trovata noiosa; ma gli era sembrata un po' triste.

Ahimè! – aggiunse – le vostre tristezze, le vostre gioie, non ho il diritto di conoscerle.

Ella voltò verso di lui uno sguardo rapido, quasi duro.

– Non penserete mica che vi prenda per confidente, non è vero?

E s'allontanò bruscamente.

              





4         In inglese: «amor mio», «mia cara», (equivalente a darling).



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