Anatole France
Il giglio rosso

XIV.

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               XIV.

L'indomani, svegliandosi, si disse che bisognava rispondere a Roberto. Pioveva. Essa ascoltava con languore le gocciole d'acqua cadere sulla terrazza. Viviana Bell, minuziosa e raffinata, aveva fatto mettere sulla tavola una gran quantità di carta da lettere: dei foglietti che imitavano la carta velina dei messali, e degli altri, d'un violetto pallido, punteggiati da una cenere argentea; delle penne di celluloide, bianche e leggere, che bisognava maneggiare come dei pennelli; un inchiostro iridato che, sulla pagina, si sfumava d'azzurro e d'oro. Teresa s'impazientiva per queste delicatezze e queste preziosità, male appropriate ad una lettera che avrebbe voluto semplice e poco vistosa. Accorgendosi che quel nome di «amico», dato a Roberto nella prima riga, sembrava giuocare sulla carta argentata, si tingeva come una gola di piccione o una conchiglia di madreperla, le venne sulle labbra un mezzo sorriso. Le prime frasi le costarono fatica. Precipitò il resto, parlò molto di Viviana Bell e del principe Albertinelli, un poco di Choulette, disse che aveva visto Dechartre di passaggio da Firenze. Lodò alcuni quadri dei musei, ma senza gusto e soltanto per riempire le pagine. Sapeva che Roberto non s'intendeva affatto di pittura; che egli ammirava soltanto un piccolo corazziere, di Detaille, comprato da Goupil. Lo rivedeva, quel piccolo corazziere, che egli un giorno le aveva mostrato, con orgoglio, nella sua camera da letto, vicino allo specchio, sotto dei ritratti di famiglia.

Tutto ciò, da lontano, le sembrava meschino, noioso e triste. Finì la lettera con delle parole d'amicizia, di una dolcezza che era sincera. Perchè, veramente, non s'era mai sentita così calma e clemente verso il suo amico. In quattro pagine, aveva detto poco e fatto comprendere ancor meno. Annunziava soltanto che rimarrebbe un mese a Firenze, dove l'aria le faceva bene. Scrisse poi a suo padre, a suo marito e alla principessa Seniavine. Scese la scala, colle lettere in mano. Nell'anticamera, ne gettò tre sul vassoio d'argento destinato a ricevere le carte per la posta. Diffidando degli occhi scrutatori della signora Marmet, fece scivolare nella sua borsetta la lettera a Le Ménil, contando di metterla a caso in una cassetta durante le sue passeggiate.

Quasi subito, Dechartre venne a prendere le tre amiche per accompagnarle in città. Nell'aspettare un momento in anticamera, vide le lettere sul vassoio.

Senza credere in nessun modo alla divinazione delle anime a mezzo della scrittura, era sensibile alla forma delle lettere come ad una specie di disegno che può aver pure la sua eleganza. La scrittura di Teresa gli piaceva per il ricordo di lei e come una fresca reliquia, e ne gustava pure la franchezza mordente, la curva ardita e semplice. Contemplò gli indirizzi senza leggerli, con un'ammirazione sensuale.

Quella mattina, visitarono Santa Maria Novella, in cui la contessa Martin era già stata colla signora Marmet. Ma Miss Bell s'era meravigliata che non avessero visto la bella Ginevra dei Benci, sopra un affresco del coro. «Bisognavadiceva Vivianavisitare nella luce del mattino quella figura mattutina.» Mentre la poetessa e Teresa discorrevano insieme, Dechartre, attaccato alla signora Marmet, ascoltava con pazienza degli aneddoti in cui si raccontava di accademici che pranzavano presso delle eleganti signore; e fingeva di curarsi delle preoccupazioni di questa signora che da parecchi giorni voleva comprare una veletta di tulle. Non ne trovava di suo gusto nei magazzini di Firenze, e rimpiangeva la Via del Bac.

All'uscire dalla chiesa, passarono davanti alla botteguccia del ciabattino che Choulette aveva scelto per maestro. Il buonuomo rappezzava delle calzature rustiche. Il basilico elevava vicino a lui il suo ciuffo verde, e il passerotto dalla zampa di legno pigolava.

La signora Martin domandò al vecchio se stava bene, se aveva abbastanza lavoro per vivere, se era contento. A tutte queste domande rispondeva con quel grazioso «oui» d'Italia, il «» che cantava dolcemente nella sua bocca sdentata. Essa gli fece raccontare la storia del suo passerotto. La povera bestiuola aveva un giorno tuffato la sua zampina nella pece bollente.

– Ho fatto al mio piccolo compagno una gamba di legno con un fiammifero, e continua a venirmi sulla spalla come prima.

– È questo buon vecchiodisse Miss Bell – che insegna la saggezza al signor Choulette. C'era ad Atene un calzolaio chiamato Simone che scriveva dei libri di filosofia e che era l'amico di Socrate. M'è sempre sembrato che Choulette somigli a Socrate.

Teresa domandò al calzolaio di dire il suo nome, la sua storia. Egli si chiamava Serafino Stoppini, nativo di Stia. Era vecchio; aveva avuto delle disgrazie nella sua vita.

Alzò gli occhiali sulla fronte, scoprendo degli occhi azzurri, dolcissimi e quasi spenti sotto le loro palpebre rosse:

– Ho avuto moglie, dei figli; ora non ho più nessuno. Sapevo delle cose che non so più.

Miss Bell e la signora Marmet se n'erano andate alla ricerca d'una veletta.

«Egli pensò Teresa – non ha al mondo che i suoi arnesi da lavoro, un pugno di chiodi, il secchiello dove bagna il cuoio e un vaso di basilico; ed è felice

Gli disse:

– Questa pianta ha un buon odore, e fiorirà presto.

Egli rispose:

– Se la poverina fiorisce, morirà.

Teresa, uscendo, lasciò sul banchetto una moneta.

Dechartre era vicino a lei. Gravemente, quasi severamente, le disse:

– Lo sapevate?...

Essa lo guardò e attese.

Egli terminò:

– ....che vi amo.

Ella continuò un momento, a fissar su lui, in silenzio, lo sguardo dei suoi occhi chiari, le cui palpebre battevano. Poi colla testa fece segno di sì. E, senza ch'egli tentasse di trattenerla, andò a raggiungere Miss Bell e la signora Marmet che l'attendevano all'angolo della strada.

              


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