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Avendo posato delicatamente sul tavolo del salotto il suo bastone nodoso, la sua pipa e la sua vecchia valigia a fiorami, Choulette salutò la signora Martin che leggeva alla finestra. Andava ad Assisi. S'era vestito con una casacca di pelle caprina e somigliava ai vecchi pastori del Presepio.
– Addio, signora. Lascio Fiesole, voi, Dechartre, il troppo bel principe Albertinelli, e quella gentile orca di Miss Bell. Vado a visitare la montagna d'Assisi, che bisogna, dice il poeta, chiamare, non più Assisi, ma Oriente, perchè è di là che s'è levato il sole dell'amore. Vado a inginocchiarmi davanti alla cripta beata in fondo alla quale San Francesco riposa nudo, in una nicchia di pietra, con una pietra per guanciale. Perchè egli non volle portare con sè nemmeno un lenzuolo da questo mondo in cui lasciava la rivelazione d'ogni gioia e d'ogni bontà.
– Addio, signor Choulette. Portatemi una medaglia di Santa Chiara: io amo molto Santa Chiara.
– Avete ben ragione, signora. Era una Donna piena di forza e di prudenza. Quando San Francesco, malato e quasi cieco, andò a passare qualche giorno a San Damiano, presso la sua amica, essa gli costruì colle proprie mani una capanna nel giardino. Egli si rallegrò. Un doloroso languore e le palpebre che gli bruciavano, gli toglievano il sonno. Una folla di topi enormi veniva ad attaccarlo di notte. Allora egli compose un Cantico pieno d'allegrezza per benedire lo splendido frate Sole, e nostra sorella Acqua, casta, utile e pura. I miei versi più belli, anche quelli del Giardino chiuso, sono inferiori per fascino inevitabile e splendore naturale. Ed è giusto che sia così, perchè l'anima di San Francesco era più bella della mia. Pur essendo migliore di tutti i miei contemporanei che ho potuto conoscere, io non valgo niente. Quando San Francesco ebbe composto il suo Cantico del Sole, si rallegrò molto. Pensò: – Andremo, i miei fratelli ed io, nelle città, ci metteremo con un liuto sulla pubblica piazza, nei giorni di mercato. La buona gente si avvicinerà, e diremo loro: – Noi siamo i giullari del buon Dio, e vi canteremo una laude. Se ne resterete contenti, ci darete una ricompensa. – Essi prometteranno; e quando avremo cantato, ricorderemo la loro promessa. Diremo: – Voi ci dovete una ricompensa. E quella che vi domandiamo, si è di amarvi l'un l'altro. – Senza dubbio, per mantenere la loro parola e per non far torto ai poveri giullari di Dio, eviteranno di far male al prossimo.
La signora Martin disse che San Francesco era il più amabile dei santi.
– La sua opera – riprese Choulette – fu distrutta quand'egli viveva ancora. Tuttavia egli morì beato, perchè in lui era la gioia insieme all'umiltà. Egli era davvero il dolce cantor di Dio. Ed è necessario che un altro povero poeta riprenda la sua missione e insegni al mondo la vera religione e la vera gioia. Sarò io, signora, se pure potrò spogliare la ragione dall'orgoglio. Perchè ogni bellezza morale è compiuta in questo mondo per opera di quella saggezza inconcepibile che viene da Dio e somiglia alla pazzia.
– Io non vi contraddirò, signor Choulette. Ma sono preoccupata per la sorte che serberete alle povere donne nella vostra società futura. Le chiuderete tutte nei conventi.
– Confesso – rispose Choulette – che esse m'imbarazzano molto nel mio progetto di riforma. La violenza colla quale si amano è aspra e malvagia. Il piacere che esse danno non è pacifico e non conduce alla gioia. Io ho commesso per loro, nella mia vita, due o tre delitti abominevoli, che non si conoscono. Dubito molto, signora, d'invitarvi mai a convito nella nuova Santa Maria degli Angeli.
Prese la sua pipa, la sua valigia a sacco e il suo bastone dalla testa umana:
– I peccati d'amore saranno perdonati. O meglio; non si fa niente di male, quando si ama solamente. Ma l'amore sensuale è fatto d'odio, d'egoismo e di collera, quanto d'amore. Per avervi trovato bella, una sera, su questo divano, sono stato assalito da una folla di pensieri violenti. Tornavo dall'albergo, dove avevo sentito il cuoco di Miss Bell improvvisare magnificamente milleduecento versi sulla primavera. Ero inondato da una gioia celeste, che la vostra vista m'ha fatto perdere. È proprio vero che una verità profonda dov'esser racchiusa nella maledizione di Eva. Perchè, vicino a voi, sono diventato triste e cattivo. Avevo sulle labbra delle dolci parole: erano menzognere. Mi sentivo, dentro me stesso, vostro avversario e vostro nemico, e vi odiavo. Vedendovi sorridere, ho avuto il desiderio di uccidervi.
– Davvero?
– Oh! signora, è un sentimento naturalissimo, e che avete dovuto ispirare più d'una volta. Ma gli uomini volgari lo provano senza averne coscienza, mentre la mia fantasia vivace mi rappresenta senza tregua a me stesso. Io contemplo la mia anima, talvolta splendida, spesso ributtante. Se l'aveste veduta in faccia, quella sera, avreste gridato dallo spavento.
– Addio, signor Choulette, non dimenticatevi la mia medaglia di Santa Chiara.
Egli posò a terra la valigia; e alzando le braccia, coll'indice teso, come chi mostra ed insegna:
– Voi non avete niente a temere da me. Ma colui che amate e che vi amerà, vi farà del male. Addio, signora.
Riprese i suoi bagagli e uscì. Ella vide la sua lunga persona rustica sparire dietro i citisi del giardino.
Nel pomeriggio, Teresa andò a San Marco, dove Dechartre l'attendeva. Ella desiderava e temeva di rivederlo così presto. Provava un'angoscia, calmata da un sentimento sconosciuto, da una dolcezza profonda. Non ritrovava lo stupore della prima volta che s'era data per amore, la visione brusca dell'irreparabile. Era sotto delle influenze più lente, più vaghe e più potenti. Stavolta, una piacevole fantasticheria attenuava il ricordo delle carezze ricevute e ne addolciva l'ardore. Era sprofondata nel turbamento e nell'inquietudine, ma non provava nè vergogna nè rimorsi. Aveva agito meno per volontà, che per una forza che indovinava migliore. Si assolveva per il suo disinteresse. Non contava su nulla, non avendo calcolato niente. Senza dubbio, aveva avuto torto di darsi, quando non era libera; ma non aveva nemmeno chiesto nulla. Forse non era per lui che una fantasia violenta e sincera. Non lo conosceva bene. Non aveva ancora provato quelle belle immaginazioni vive e fluttuanti, che passano, per il bene come per il male, sopra la comune mediocrità. Se egli si allontanasse bruscamente da lei e sparisse, non glielo rimprovererebbe, non gli serberebbe rancore; – almeno lo credeva. – Conserverebbe dentro di sè il ricordo e l'impronta di quel che si poteva trovare al mondo di più raro e di più prezioso. Egli era forse incapace d'un vero attaccamento. Aveva creduto di amarla: l'aveva amata per un'ora. Ella non osava sperare di più, nell'imbarazzo d'una falsa situazione di cui la sua franchezza e la sua fierezza s'irritavano, e che turbava la lucidità della sua intelligenza. Mentre la carrozza la portava a San Marco, giunse a persuadersi ch'egli non le avrebbe detto niente di quel ch'era stata per lui il giorno prima; e che il ricordo della camera amorosa, da cui si vedevano elevarsi nel cielo i fusi neri dei cipressi, non rimarrebbe, per l'uno e per l'altra, che il sogno d'un sogno.
Egli le tese la mano davanti al marciapiede. Prima che avesse parlato, vide nel suo sguardo ch'egli l'amava e che la voleva ancora, e si accorse al tempo stesso che anch'ella lo desiderava.
– Voi... – egli disse –– voi, tu... Sono qui da mezzogiorno, aspettavo, sapendo che non verresti ancora, ma non potendo vivere che nel posto in cui avrei dovuto rivederti. Sei tu!... Parla, che io ti veda, che io ti senta.
– Mi amate dunque ancora?
– È adesso, che t'amo. Credevo di amarti, quando non eri che un fantasma carico dei miei desideri. Adesso, tu sei la carne in cui ho messo l'anima mia. È vero, dimmi, è vero che sei mia? Che cosa ho fatto dunque, per meritare il più grande, l'unico bene di questo mondo? E questi uomini da cui è coperta la terra, credono di vivere! Io solo vivo! Dimmi, che cosa ho fatto per meritarti?
– Oh! quello che bisognava fare, sono ben io che l'ho fatto. Ve lo dico francamente. Se siamo arrivati a questo punto, la colpa è mia. Vedete; esse non lo confessano sempre, ma la colpa è sempre delle donne. Perciò, qualunque cosa succeda, non vi farò dei rimproveri.
Una turba svelta e rumorosa di mendicanti e di guide, staccatasi dal portico, li circondava con una importunità nella quale si mescolava ancora un po' di quella grazia che gli Italiani, così vivaci, non perdono mai. Il loro fiuto faceva indovinare degli amanti, ed essi sapevano che gli amanti sono prodighi. Dechartre gettò loro alcune monete d'argento, e tutti tornarono alla loro oziosa felicità.
Un custode municipale accolse i visitatori. La signora Martin rimpiangeva, di non trovare un frate. La tonaca bianca dei domenicani era così bella, a Santa Maria Novella, sotto le arcate del chiostro!
Visitarono le celle dove, sulla nuda calce, Frate Angelico, aiutato dal fratello Benedetto, dipinse per i monaci, suoi compagni, delle pitture innocenti.
– Ti ricordi quella sera d'inverno in cui, avendoti incontrata sopra una passerella che varcava un fosso davanti al museo Guimet, t'ho accompagnata fino a quella stradina circondata da giardinetti, che conduce al corso Deilly? prima di separarci, ci siamo fermati un momento sull'orlo del parapetto, sul quale corre una magra siepe di busso. Hai guardato quel busso seccato dall'inverno. E quando sei partita, anch'io l'ho guardato a lungo...
Erano nella cella che abitò Savonarola, priore del convento di San Marco. La guida mostrò loro il ritratto e le reliquie del martire.
– Che cosa potevate trovarmi di bello, quel giorno? Era buio.
– Ti vedevo camminare. È col movimento che le forme parlano. Ognuno dei tuoi passi mi diceva il segreto della tua bellezza precisa e deliziosa. Oh! non ho mai avuto l'immaginazione discreta a tuo riguardo. Non osavo parlarti; vedendoti, avevo paura. Ero spaventato davanti a quella che poteva tutto per me. Quand'eri presente, ti adoravo tremando. Da lontano, avevo tutte l'empietà del desiderio.
– Non me l'immaginavo. Ma vi ricordate la prima volta che ci siamo visti, quando Paolo Vence v'ha presentato? Eravate seduto a fianco del paravento. Guardavate le miniature che ci sono attaccate. M'avete detto: «Questa signora, dipinta da Siccardi, somiglia alla madre d'Andrea Chénier.» V'ho risposto: «È la nonna di mio marito. Com'era la madre d'Andrea Chénier?» E voi avete detto: «C'è il suo ritratto: una Levantina di bassa condizione.»
Egli negò d'aver parlato in modo così impertinente.
– Ma sì. Me ne ricordo meglio di voi.
Andavano nel bianco silenzio del convento. Visitarono la cella che il Beato Angelico ornò colla più soave pittura. E là, davanti alla Vergine, che, in un cielo pallido, ricevè da Dio Padre la corona immortale, egli prese Teresa fra le braccia e le diede un bacio sulla bocca, quasi sotto gli occhi di due Inglesi che camminavano per i corridori, consultando il Baedeker. Essa gli disse:
– Ci dimenticavamo la cella di Sant'Antonino.
– Teresa, io soffro, nella mia felicità, per tutto quello che è tuo e che mi sfugge. Soffro che tu non viva di me solo e per me solo. Vorrei averti tutta, e averti avuta tutta per il passato.
Ella crollò leggermente le spalle:
– Oh! il passato!
– Il passato è la sola realtà umana. Tutto ciò che è, è passato.
Ella alzò verso di lui i suoi occhi, le cui pupille somigliavano a quei cieli incantevoli, misti di sole e di pioggia.
– Ebbene, posso dirtelo: non mi sono mai sentita vivere che con te.
Tornata a Fiesole, trovò una lettera breve e minacciosa di Le Ménil. Egli non riusciva a comprendere la sua assenza prolungata, il suo silenzio. Se non gli avesse subito annunziato il suo ritorno, verrebbe a trovarla.
Teresa lesse, per nulla sorpresa, ma accasciata nel vedere che tutto quel che doveva accadere accadeva, e che niente le sarebbe stato risparmiato di quello che aveva temuto. Poteva ancora calmarlo e rassicurarlo. Bastava gli dicesse che lo amava, che tornerebbe presto a Parigi, ch'egli doveva rinunziare alla pazza idea di raggiungerla qui, che Firenze era un villaggio in cui li avrebbero subito visti. Ma bisognava scrivere: «T'amo.» Bisognava lusingarlo con delle parole carezzevoli. Ella non n'ebbe il coraggio. Gli lasciò intravedere la verità. Si accusò da se stessa in frasi involute parlò oscuramente delle anime travolte nel tùrbine dell'esistenza, e del poco che siamo sull'oceano mobile delle cose. Gli chiese con tristezza affettuosa di conservarle un buon ricordo in un cantuccio della sua anima.
Andò a portar la lettera alla posta, sulla piazza di Fiesole. I ragazzi giuocavano alle piastrelle, nel crepuscolo. Guardò dall'alto della collina la coppa elegante che porta nel suo cavo, come un gioiello, la bella Firenze. E la pace della sera la fece trasalire. Gettò la lettera nella buca. Allora soltanto, ebbe la visione chiara di quel che aveva fatto, e di quello che ne sarebbe risultato.