Anatole France
Il giglio rosso

XXII.

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               XXII.

Le Ménil le aveva scritto: «Parto domani alle sette di sera. Trovatevi alla stazione

C'era andata. Lo vide in un lungo mantello grigio alla pellegrina, corretto e calmo, davanti agli omnibus degli alberghi. Le disse soltanto:

– Ah! eccovi qua!

Amico mio, m'avete chiamata...

Egli non confessò che aveva scritto colla speranza assurda che tornasse ad amarlo, e che quel ch'era successo sarebbe stato dimenticato, oppure che ella gli dicesse: «È stata una prova

Se gli avesse parlato così, per il momento l'avrebbe creduta.

Deluso che non aprisse bocca, le disse seccamente:

– Che cosa avete da dirmi? siete voi che dovete parlare, non io. Io non ho delle spiegazioni da darvi; non ho da giustificarmi d'un tradimento.

Amico mio, non siate crudele, non siate ingrato verso il passato. Ecco quel che avevo da dirvi. E devo dirvi ancora che vi lascio colla tristezza d'una vera amica.

– È tutto questo? Andate a dirlo all'altro, lo interesserà più di me.

– M'avete chiamato; sono venuta: non me ne fate pentire.

– Mi dispiace d'avervi scomodata. Potevate certo occupar meglio la vostra giornata. Non vi trattengo. Andate a raggiungerlo: ne morite dalla voglia.

Al pensiero che quelle povere e miserabili parole che ascoltava esprimevano un momento dell'eterno dolore umano, e che la tragedia ne aveva illustrate delle simili, ebbe un'impressione di tristezza mista ad ironia, che le contrasse un poco le labbra. Roberto credette che ridesse.

– Non ridete; e ascoltatemi. Ieri l'altro, nella camera dell'albergo, ho pensato di uccidervi. Sono stato così vicino a farlo, che ora so che cos'è. Perciò, non lo farò: potete star tranquilla. Del resto, a che servirebbe? Siccome tengo, per conto mio, ad osservare le convenienze, verrò a trovarvi a Parigi. Avrò il dispiacere di sentire che non potete ricevermi. Vedrò vostro marito, vedrò pure vostro padre: sarà per prender congedo, dovendo fare un viaggio piuttosto lungo. Addio, signora!

Nel momento in cui le voltava le spalle, Teresa vide Miss Bell e il principe Albertinelli che uscivano dalla stazione delle merci e le venivano incontro. Il principe era bellissimo; Viviana camminava allegramente al suo fianco.

– Oh! darling, che bella sorpresa trovarvi qui. Torniamo, io e il principe, dallo la campana che è arrivata.

– Ah! la campana è arrivata?

– È qui, darling, la campana di Ghiberti! L'ho vista nella sua gabbia di legno. Non suonava, perchè era prigioniera. Ma voglio darle, nella mia casa di Fiesole, un campanile per alloggio. Visitata dai colombi, suonerà a tutte le nostre gioie e a tutti i nostri dolori. Suonerà per voi, per me, per il principe, per la buona signora Marmet, per Choulette, per tutti i nostri amici.

Cara, le campane non suonano mai alle vere gioie e ai veri dolori. Sono degli onesti funzionari che conoscono soltanto i sentimenti ufficiali.

– Oh! darling, v'ingannate proprio. Le campane conoscono i segreti delle anime; sanno tutto. Sono contenta di trovarvi. Oh! lo so, my love, perchè siete venuta alla stazione. La vostra cameriera v'ha tradito. M'ha detto che aspettavate un vestito rosa che non viene, e che vi struggete dall'impazienza. Ma non vi preoccupate; siete sempre bellissima lo stesso, my love.

Fece salire la signora Martin nel suo calessino.

– Venite presto, darling; il signor Giacomo Dechartre pranza stasera da noi, e non vorrei farlo aspettare.

E, mentre andavano nel silenzio della sera, per i sentieri pieni di profumi silvestri:

Guardate laggiù, darling, le conocchie nere delle Parche, i cipressi del cimitero. È che voglio dormire.

Ma Teresa pensava, inquieta: «L'hanno visto. L'avrà riconosciuto? Non credo. La piazza era già buia e piena di lumicini abbaglianti. Eppoi, la conosce forse? Non mi ricordo se l'ha visto da me, l'anno scorso».

Quel che l'inquietava, era la gioia sorniona del principe.

Darling, volete un posto vicino a me, in quel cimitero rustico, e che riposiamo una vicina all'altra sotto un po' di terra e un gran cielo? Ma ho torto a farvi un invito che non potete accettare. Non v'è permesso di dormire il vostro sonno eterno ai piedi delle colline di Fiesole, my love. Bisognerà che riposiate a Parigi, sotto un bel monumento, a fianco del conte Martin-Bellème.

Perchè? Credete dunque, cara, che la moglie debba essere unita al marito, anche dopo la morte?

– Certamente, lo deve, darling. Il matrimonio è per il tempo e per l'eternità. Non conoscete dunque la storia dei due giovani che si amavano, in Alvernia? Morirono quasi nello stesso tempo, e furono messi in due tombe separate da una strada. Ma ogni notte un rosaio selvatico gettava da una tomba all'altra il suo stelo fiorito. Dovettero riunire i due sepolcri.

Passata un poco la Badia, videro una processione salire il pendio della collina. Il vento della sera soffiava sulle ultime fiamme dei ceri, portati in candelieri di legno dorato. Le file bianche e turchine delle confraternite accompagnavano gli stendardi dipinti. Poi venivano un piccolo San Giovanni, biondo, ricciuto, tutto nudo sotto la pelle d'agnello, e una Santa Maria Maddalena di sette anni, nella veste d'oro dei suoi capelli increspati. La gente di Fiesole seguiva in folla. La contessa Martin riconobbe Choulette in mezzo a loro. Con un cero in mano, il suo libro nell'altra, degli occhiali turchini sulla punta del naso, egli cantava; dei bagliori rossastri tremolavano agli angoli della sua faccia camusa e sulle protuberanze del suo cranio tormentato. La sua barba selvaggia si alzava e s'abbassava al ritmo del cantico. Sotto la durezza delle ombre e delle luci che gli lavoravano il volto, aveva l'aspetto vecchio e robusto, come quegli eremiti capaci di sopportare un secolo di penitenza.

– Quant'è bello! – disse Teresa. – Si offre in spettacolo a stesso. È un grande artista.

– Oh darling, perchè volete che Choulette non sia un uomo devoto? Perchè? C'è tanta gioia e tanta bellezza a credere. Questo i poeti lo sanno. Se Choulette non avesse la fede, non farebbe i mirabili versi che fa.

– E voi, cara, l'avete la fede?

– Oh! sì, credo in Dio e nella parola di Cristo.

Adesso, il baldacchino, gli stendardi, i veli bianchi erano scomparsi nelle tortuosità del sentiero. Ma si vedeva ancora, sul cranio nudo di Choulette, la fiamma del cero riflettersi in raggi d'oro.

Frattanto Dechartre attendeva, solo, nel giardino. Teresa lo trovò appoggiato al balcone della terrazza dove aveva sentito le prime sofferenze d'amore. Mentre Miss Bell cercava col principe il posto del campanile in cui sospenderebbe la campana che stava per arrivare, egli condusse un momento la sua amica sotto i citisi.

– M'avevi promesso di trovarti nel giardino quando sarei venuto. Aspetto da un'ora, che m'è sembrata mortale. Non dovevi uscire: la tua assenza m'ha sorpreso e fatto disperare.

Teresa rispose vagamente che era stata costretta ad andare alla stazione, e che Miss Bell l'aveva ricondotta nel suo calesse.

Egli si scusò di mostrarle un viso inquieto. Ma tutto lo spaventava: la sua felicità gli faceva paura.

Erano già a tavola, quando apparve Choulette, mostrando il viso d'un satiro antico; una gioia terribile brillava nei suoi occhi fosforescenti. Dopo il suo ritorno da Assisi, non viveva più che in mezzo a gente del popolino, beveva tutto il giorno del vino Chianti con delle ragazze e degli artigiani, a cui insegnava la gioia e l'innocenza, l'avvento di Gesù Cristo, e la prossima abolizione delle imposte e del servizio militare. All'uscita della processione, aveva riunito dei vagabondi nelle rovine del teatro romano, e aveva fatta loro, in un linguaggio maccheronico, misto di francese e di toscano, un sermone che si compiacque di ripetere:

– I re, i senatori e i giudici hanno detto: «La vita dei popoli sta in noi». Ora, essi mentono e sono la bara che dice: «Io sono la culla».

«La vita dei popoli è nelle mèssi delle campagne che maturano sotto lo sguardo del Signore. È nelle viti sospese agli olmi, e nel sorriso e nelle lagrime di cui il cielo bagna i frutti degli alberi, nei recinti degli orti.

«Essa non è nelle leggi, che son fatte dai ricchi e dai potenti, per la conservazione della potenza e della ricchezza.

«I capi dei regni e delle repubbliche hanno scritto nei loro libri che il diritto delle genti è il diritto di guerra, ed hanno glorificato la violenza. Essi rendono degli onori ai conquistatori ed elevano sulle pubbliche piazze delle statue all'uomo e al cavallo vittorioso. Ma non esiste il diritto di uccidere: perciò il giusto non estrarrà dall'urna il suo numero di leva. Il diritto non consiste nel nutrire la follia e i delitti del principe che si è inalzato sul regno o sulla repubblica: e perciò il giusto non pagherà l'imposta; e non darà danaro ai pubblicani. Egli godrà in pace il frutto del suo lavoro, e farà il pane col grano che ha seminato e mangerà i frutti degli alberi che ha coltivato

– Ah! signor Choulettedisse gravemente il principe Albertinelli – avete ben ragione di interessarvi allo stato delle nostre disgraziate belle campagne, che il fisco smunge. Che frutto si può ricavare da un suolo gravato del trentatre per cento sul reddito netto? Il padrone e i servitori sono la preda dei pubblicani.

Dechartre e la signora Martin furono colpiti dalla sincerità inattesa del suo accento.

Egli soggiunse:

– Io amo il re, e rispondo del mio lealismo. Ma sono sensibile ai mali dei contadini.

La verità era ch'egli proseguiva con un'abile ostinazione un unico scopo: ristabilire la proprietà rurale del Casentino, che suo padre, il principe Carlo, ufficiale d'ordinanza di Vittorio Emanuele, aveva lasciato per tre quarti divorata dagli usurai. La sua mollezza affettata nascondeva la sua ostinazione. Egli non aveva che dei vizi utili e rivolti verso il proprio interesse. Era per tornare un grande proprietario toscano, che aveva commerciato dei quadri antichi, venduto di contrabbando i soffitti famosi del suo palazzo, fatto la corte a delle vecchie signore, e finalmente chiesto la mano di Miss Bell, ch'egli sapeva abilissima nel guadagnar danaro e capacissima a tenere una casa. Le parole ardenti di Choulette, ch'egli comprendeva vagamente, ridestavano in lui questi sentimenti. Si lasciava andare ad esprimere il suo pensiero:

– In un paese in cui il padrone e i servitori formano una sola famiglia, la sorte del primo dipende da quella degli altri. Il fisco ci spoglia. Che brava gente sono i nostri contadini! Per dissodare la terra, sono i primi uomini del mondo.

La signora Martin confessò che non l'avrebbe creduto. Soltanto le campagne della Lombardia le erano parse ben coltivate e irrigate da innumerevoli canali. Ma la Toscana le sembrava un bell'orto selvatico.

Il principe rispose sorridendo che forse non parlerebbe così, se gli avesse fatto l'onore di visitare le sue fattorie del Casentino, che pure erano state provate dalle sofferenze di lunghi e rovinosi processi. Avrebbe visto , quello che è il contadino italiano.

– Io m'occupo molto delle mie proprietà. Ne tornavo stasera, quando ho avuto il doppio piacere d'incontrare, alla stazione, Miss Bell che era andata a vedere la sua campana, e voi, signora, che eravate in conversazione con un amico di Parigi.

Aveva avuto l'idea di dispiacere alla signora Martin, parlando di quell'incontro. Guardando tutt'intorno alla tavola, vide il movimento di sorpresa inquieta che Dechartre non aveva potuto frenare. Insistè:

Perdonate, signora, ad un uomo rustico una certa pretesa di conoscere la Società: in quel signore che parlava con voi, ho riconosciuto un Parigino dal fatto che aveva l'aria d'un inglese e che, imitandone la rigidezza, lasciava vedere una perfetta disinvoltura e una vivacità tutta particolare.

– Oh! – disse con negligenza Teresaera molta tempo che non l'avevo visto. E sono stata molto sorpresa d'incontrarlo a Firenze, nel momento in cui partiva.

Guardò Dechartre, che fingeva di non sentire.

– Ma io lo conosco, quel signoredisse Miss Bell. – È il signor Le Ménil. Ho pranzato con lui due volte, dalla signora Martin, ed ha parlato con me, molto bene. M'ha detto che amava il foot-ball; che è stato lui ad introdurre questo giuoco in Francia, e che adesso il football è molto di moda. M'ha pure raccontato le sue avventure di caccia. Egli ama gli animali. Ho notato che i cacciatori amano molto gli animali. Vi assicuro, darling, che il signor Le Ménil parla mirabilmente delle lepri. Conosce le loro abitudini. M'ha detto che è un piacere a vederle, al chiaro di luna, ballare nelle brughiere. M'ha assicurato che sono molto intelligenti, e che aveva visto una vecchia lepre, inseguita dai cani, costringere a colpi di zampa un'altra lepre a uscir dalla tana, per darle il cambio. Darling, il signor Le Ménil vi ha parlato forse delle lepri?

Teresa rispose che non si ricordava, che trovava noiosi i cacciatori.

Miss Bell ribattè che non credeva che il signor Le Ménil fosse noioso parlando delle lepri che ballano al chiaro di luna, nelle brughiere e nelle vigne. Essa avrebbe voluto, come Fanione, allevare un leprotto.

Darling, voi non conoscete Fanione. Oh! sono ben sicura che Dechartre la conosce. Essa era bella, e cara ai poeti. Abitava nell'isola di Coo una casa sul pendio della collina, che, coperta di cedri e di terebinti, scendeva verso il mare azzurro. E si dice che contemplava lo sguardo azzurrino dei flutti. Ho raccontato la storia di Fanione al signor Le Ménil, ed egli è stato ben contento di conoscerla. Ella aveva ricevuto da qualche cacciatore un leprotto dalle lunghe orecchie, portato via alla madre quando prendeva ancora il latte. Lo allevò sulle sue ginocchia, e lo nutrì coi fiori della primavera. Egli amava Fanone e dimenticò sua madre. Morì per aver mangiato troppi fiori. Fanione lo pianse, e lo seppellì nel giardino dei cedri, sotto una tomba che poteva vedere dal suo letto. E l'ombra della piccola lepre fu consolata dai canti dei poeti.

La buona signora Marmet disse che Le Ménil era simpatico per i suoi modi eleganti e discreti, che i giovani del giorno d'oggi non hanno più. Lo avrebbe visto volentieri, avendo da domandargli un piacere.

– Si tratta di mio nipote, – disse. – È capitano d'artiglieria, molto apprezzato e molto ben voluto dai suoi superiori. Il suo colonnello è stato per molto tempo agli ordini d'uno zio del signor Le Ménil, il generale La Briche. Se Le Ménil volesse domandare a suo zio di mettere una buona parola per mio nipote al colonnello Faure, gliene sarei molto riconoscente. Del resto, mio nipote, non è uno sconosciuto per il signor Le Ménil. Si sono trovati insieme, l'anno scorso, al ballo mascherato che il capitano De Lessay diede, all'Hôtel d'Inghilterra, agli ufficiali della guarnigione di Caen e alla gioventù dei dintorni.

La signora Marmet, abbassando gli occhi, aggiunse:

– Le invitate, naturalmente, non erano signore dell'alta società. Ma si dice che ve n'erano delle bellissime. Quei signori ne avevano fatte venire da Parigi. Mio nipote, che m'ha raccontato questi particolari, era mascherato da postiglione; il signor Le Ménil, da ussaro della morte, ed ha avuto un grandissimo successo.

Miss Bell, disse che era ben dolente di non aver saputo che Le Ménil era a Firenze. Certamente, l'avrebbe invitato a venire a riposarsi a Fiesole.

Dechartre rimase cupo e distratto durante tutto il resto del pranzo; e, quando, al momento di separarsi, Teresa gli tese la mano, sentì che egli evitava di stringerla nella sua.

              


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