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Mentre il rumore sordo dei bagagli per le scale empiva la villa delle Campane, e Paolina, carica di pacchi, scendeva leggermente i gradini, e la buona signora Marmet, con una tranquilla vigilanza, sorvegliava la partenza dei colli e Miss Bell terminava di vestirsi nella sua camera; Teresa, vestita di grigio per il viaggio, appoggiata al parapetto della terrazza, guardava ancora una volta la città di Firenze.
S'era decisa a partire. Suo marito la richiamava in ogni lettera. Se, come la pregava insistentemente, fosse tornata a Parigi nei primi giorni di maggio, potrebbero, prima del Grand Prix, dare due o tre pranzi, seguiti da ricevimenti. Il suo gruppo era sostenuto dall'opinione pubblica. La corrente lo spingeva; e Garain riteneva che il sotto della contessa Martin avrebbe potuto esercitare un'influenza eccellente sull'avvenire del paese. Queste ragioni le importavano poco, ma ella si sentiva adesso della benevolenza verso suo marito, e desiderava piuttosto di compiacergli. Aveva ricevuto due giorni prima una lettera di suo padre. Il signor Montessuy, senza entrare nelle vedute politiche di suo genero, e senza dar consigli a sua figlia, faceva capire che si cominciava a parlare in società del soggiorno misterioso della contessa Martin; a Firenze, in mezzo a poeti e ad artisti, e che la villa delle Campane assumeva, da lontano, un aspetto di fantasia sentimentale. Ella stessa si sentiva osservata troppo da vicino, in quel piccolo mondo di Fiesole. La signora Marmet la infastidiva, il principe Albertinelli la inquietava nella sua nuova vita. I convegni al padiglione di Via Alfieri diventavano difficili e pericolosi. Il professor Arrighi, che il principe frequentava, l'aveva incontrata, una sera, mentre andava per le vie deserte, stretta a fianco di Dechartre. Il professore Arrighi, autore d'un trattato d'agricoltura, era il più amabile dei dotti. Aveva voltato da un'altra parte il suo bel viso eroico, dai baffi bianchi, e all'indomani disse soltanto, alla giovane signora: «In altri tempi, indovinavo da lontano l'avvicinarsi d'una bella persona. Adesso che ho passato l'età d'esser guardato favorevolmente dalle signore, il cielo ha pietà di me; mi risparmia la loro vista. Ho degli occhi molto cattivi: il più bel viso non lo riconosco più.» Ella aveva compreso e si teneva per avvertita. Aspirava adesso a nascondere la sua gioia nell'immensità di Parigi.
Viviana, a cui aveva annunziato la sua prossima partenza, l'aveva pregata di restare qualche giorno ancora. Ma Teresa sospettava che la sua amica fosse rimasta offesa del consiglio ch'era venuta a chiedere, una notte, nella camera dei cedri; che, almeno, non si compiacesse più interamente nella familiarità d'una confidente che disapprovava la sua scelta, e che il principe le aveva dipinta civetta, forse leggera. La partenza era stata fissata per il 5 maggio.
Il giorno brillava puro e delizioso sulla vallata dell'Arno. Teresa, pensierosa, vedeva dalla terrazza l'immensa rosa del mattino posata sopra la coppa azzurra di Firenze. Si sporse per scoprire, ai piedi delle colline fiorite, il punto impercettibile in cui aveva conosciuto delle gioie infinite. Laggiù, il giardino del cimitero metteva una piccola macchia scura, vicino alla quale indovinava Via Alfieri. Si rivide nella cameretta tanto cara, dove, senza dubbio, non entrerebbe mai più. Le ore passate, senza ritorno, le apparivano alla memoria velate di malinconia. Sentì gli occhi come spegnersi, i ginocchi piegarsi, e la sua anima accasciarsi; le sembrava che la sua vita non fosse più dentro di sè, e che l'avesse lasciata in quell'angolo dove si vedevano i cipressi neri elevare le loro cime immobili. Si rimproverava di turbarsi così senza ragione, quando, al contrario, avrebbe dovuto rassicurarsi e rallegrarsi. Sapeva che ritroverebbe Giacomo Dechartre a Parigi. Avrebbero voluto arrivarci entrambi allo stesso tempo, o meglio, andarvi insieme. Se avevano giudicato necessario ch'egli restasse tre o quattro giorni ancora a Firenze, almeno la loro riunione era prossima, l'appuntamento fissato, ed ella viveva già di questo pensiero. Portava il suo amore fuso nella sua carne e scorrente nel suo sangue. Eppure, qualcosa di lei restava nel padiglione delle capre e delle ninfe, una parte di lei che non le sarebbe mai resa. Nel pieno ardore della vita, si sentiva morire per delle cose infinitamente preziose. Si ricordava che Dechartre le aveva detto: «L'amore è feticista. Ho colto sulla terrazza le bacche nere e secche d'un ligustro, che avevi guardato.» Perchè ella non aveva pensato a portar con lei una pietruzza del padiglione in cui aveva dimenticato il mondo?
Un grido di Paolina la trasse dai suoi pensieri. Choulette, balzando da un cespuglio di citisi, aveva improvvisamente baciato la cameriera che portava i mantelli e i sacchi nella vettura. Adesso fuggiva per i viali, allegro, irsuto, cogli orecchi a punta, drizzati ai lati del suo cranio lucente. Egli salutò la contessa Martin.
– Bisogna dunque dirvi addio, signora?
Egli restava in Italia. Una Dama lo chiamava – egli diceva: era Roma. Voleva vedere i cardinali. Uno di loro che si diceva un vecchio pieno di sentimento, sarebbe entrato nella sua idea della Chiesa socialista e rivoluzionaria. Choulette aveva il suo programma: piantare sulle rovine della civiltà ingiusta e crudele la croce del Calvario, non più morta e nuda, ma viva e colle sue braccia fiorite che ombreggiassero il mondo. Fondava, a questo scopo, un ordine e un giornale. L'ordine, la signora Martin lo conosceva: il giornale sarebbe stato ad un soldo, e redatto in frasi ritmiche e in versi di lamentazioni. Poteva, doveva essere cantato. Il verso, semplicissimo, violento e giocondo, era in definitiva l'unico linguaggio che convenisse al popolo. La prosa non piaceva che alle persone d'una intelligenza molto sottile. Egli aveva frequentato gli anarchici nelle bettole di Via San Giacomo. Essi passavano la serata a dire e ad ascoltare delle romanze.
E aggiunse:
– Un giornale che sarà un quaderno di canzoni, anderà all'anima del popolo. Mi si riconosce un certo genio. Non so se abbiano ragione, ma bisogna convenire che ha il senso pratico.
Miss Bell scendeva i gradini del terrazzo, mettendosi i guanti.
– Oh! darling, la città e le montagne e il cielo vogliono esser rimpianti da voi. Si fanno belli oggi per darvi il rammarico di lasciarli e il desiderio di rivederli.
Ma Choulette, che la natura toscana, elegante ed asciutta, stancava, rimpiangeva l'Umbria verde e il suo cielo umido. Si ricordava Assisi, in alto e pregante sulla pianura pingue, in mezzo ad una terra più molle e più umile.
– Ci sono là – disse – dei boschi e delle rocce, delle radure che scoprono un po' di cielo con delle nuvole bianche. Passeggiavo sulle orme del buon San Francesco, ed ho tradotto il suo Cantico del Sole in vecchie rime francesi, semplici e disadorne.
La signora Martin disse che voleva sentire il Cantico del Sole; Miss Bell ascoltava già, ed il suo viso prendeva l'espressione fervente d'un angelo scolpito da Mino.
Choulette le avvertì che si trattava di un'opera rustica e senza arte. I versi non volevano essere belli: erano semplici, e al tempo stesso liberi, per maggior leggerezza. Poi, con una voce lenta e monotona, recitò il Cantico di San Francesco:
Altissimo, onnipotente, buon Signore,
tue son le laudi, la gloria, l'onore; – e ogni benedizione.
A te solo, Altissimo, si confanno,
e nessun uomo è degno di mentovarti.
Laudato sii, mio Signore, con tutte
le creature,
specialmente messer lo frate Sole,
il qual fa giorno, e illumini per lui;
ed è bello e radiante con gran splendore:
da te, Altissimo, porta significazione.
Laudato sii, mio Signore, per sora
luna e le stelle:
in cielo l'hai formate chiare, preziose e belle.
Laudato sii, mio Signore, anche per
frate vento,
e per l'aria e le nubi ed ogni tempo,
pel quale alle creature tu dai sostentamento.
Laudato sii, mio Signore, per nostra
sora acqua,
molto utile ed umile, e preziosa e casta.
Laudato sii, mio Signore, anche per
frate fuoco,
per il quale tu illumini la notte;
esso è bello, giocondo, ed è robusto e forte.
Laudato sii, mio Signore, per nostra
madre terra,
la quale ne sostenta e ne governa,
con frutti e fiori coloriti ed erba.
Laudato sii, mio Signore, – per quelli
che perdonan per tuo amore,
e sono infermi e sono tribolati.
Beati quelli che sosterranno in pace,
e da te, Altissimo, saranno incoronati.
Laudato sii, mio Signore, – per sora
nostra morte corporale,
alla quale nessuno può sfuggire.
Guai a chi muore in peccato mortale.
Beati quei che morranno nella tua volontà,
Che la seconda morte non farà loro male.
Lodate e benedite il mio Signore, – e
ringraziate,
e servitelo in grande umilitate.
– Oh! signor Choulette – disse Miss Bell – questo cantico sale verso il cielo come l'eremita zoppicante che si vede nel Camposanto di Pisa, che sta salendo il monte caro alle capre. Vi spiego: il vecchio eremita sale, appoggiato al bastone de la fede, e il suo passo è disuguale, perchè la stampella essendo da un lato, fa sì che uno dei piedi sia sempre un po' avanti all'altro. È perciò che questi versi sono disuguali. Oh! l'ho ben capito.
Il poeta accettò questa lode, persuaso di averla inconsciamente meritata.
– Voi avete la fede, signor Choulette disse Teresa. – A che cosa vi serve, se non a fare dei bei versi?
– Oh! noi pecchiamo anche senza questo.
La signora Marmet comparve, equipaggiata per il viaggio, nella gioia serena di ritrovare finalmente il suo piccolo appartamento di Via della Seggiola, il suo cagnolino, Toby, il suo vecchio amico Lagrange, e di rivedere, dopo gli Etruschi di Fiesole, il guerriero domestico, che, fra le scatole di confetture, guardava attraverso la finestra la piazza del Buon Mercato.
Miss Bell condusse nel calessino le sue amiche alla stazione.