Anatole France
Il giglio rosso

XXV.

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               XXV.

Dechartre, era venuto a salutare le due viaggiatrici nel vagone. Separata da lui, Teresa sentì quello che era per lei: le aveva dato della vita un gusto nuovo, delizioso, e così vivo, così reale, che lo sentiva sulle sue labbra. Viveva sotto un fascino, nel sogno di rivederlo; dolcemente stupita quando la signora Marmet, lungo il viaggio, le diceva: «Credo che si stia passando la frontiera », oppure: «I rosai fioriscono sulla riva del mare». Conservava quella gioia interiore, quando, dopo una notte d'albergo, a Marsiglia, vide i grigi olivi nei campi sassosi, poi i gelsi e il profilo lontano del monte Pilato, e il Rodano, e Lione; e poi i paesaggi familiari, gli alberi colle loro cime a ciuffo, poco prima cupe e violette, adesso rivestite di tenero verde, i piccoli tappeti rigati dalla coltivazione sui pendii delle colline, e le file di pioppi sulla riva dei fiumi. Il viaggio trascorreva uguale per lei; gustava la pienezza delle ore vissute e lo stupore delle gioie profonde. E fu con un sorriso di dormente svegliata, che, al fermarsi del treno, sotto la luce livida della stazione, accolse suo marito, felice di rivederla. Nel baciare la buona signora Marmet, le disse che la ringraziava di tutto cuore. E, veramente, essa ringraziava tutte le cose, come il San Francesco di Choulette.

In fondo alla vettura, che seguiva il Lungo Senna nella polvere luminosa del tramonto, ascoltò senza impazienza suo marito che le confidava i suoi successi parlamentari, le intenzioni del suo gruppo, i suoi progetti, le sue speranze e la necessità di offrire due o tre grandi banchetti politici. Chiuse gli occhi per meglio sognare. Si disse: «Avrò una lettera domani, e lo rivedrò fra otto giorni». Quando la vettura passò sul ponte, guardò quell'acqua su cui si riflettevano delle fiamme, quegli archi affumicati, quelle file di platani, le vette fiorite degli ippocastani sulle aiuole di Corso Regina; tutti quegli aspetti familiari si rivestivano per lei di una magnifica novità. Le sembrava che il suo amore avesse dato un nuovo colore all'universo. Si domandava se gli alberi, se le pietre la riconoscevano. Pensava: «Come può essere che il mio silenzio, i miei occhi, tutta la mia carne, e il cielo e la terra, non gridino il mio segreto?» Il signor Martin-Bellème, pensando che fosse un po' stanca, le consigliò il riposo. E la notte, chiusa nella sua camera, in mezzo al grande silenzio in cui sentiva palpitare la sua anima, scrisse all'assente una lettera, piena di quelle parole simili ai fiori nella loro eterna novità: «T'amo, t'aspetto. Sono felice. Ti sento vicino a me; non ci siamo che tu ed io, al mondo. Vedo dalla mia finestra una stella azzurrognola che brilla, e la guardo, pensando che tu la vedi da Firenze. Ho messo sul mio tavolo il cucchiaino dal giglio rosso. Vieni! Ardo di te da lontano. Vieni!» E trovava così, tutte fresche nella sua anima, le sensazioni e le immagini eterne.

Per una settimana, visse d'una vita tutta interiore, sentendo dentro di il dolce calore che le restava dai giorni di Via Alfieri, respirando sopra di i baci ricevuti, amandosi d'essere amata. Mise una cura delicata, un gusto sottile nel farsi fare delle toelette nuove. È a stessa che piaceva, che voleva anche piacere. Follemente inquieta, quando non c'era niente per lei alla posta, tremante e felice quando riceveva, attraverso il piccolo sportello, una lettera in cui riconosceva la larga scrittura ornata del suo amico, divorava i suoi ricordi, i suoi desideri, le sue speranze. Così le ore, straziate, spezzate, ardenti, passarono rapidamente.

Soltanto il mattino del giorno in cui egli doveva arrivare, le parve di una lunghezza insopportabile. Era alla stazione prima dell'arrivo del treno. Essendo stato annunziato un ritardo, ne fu accasciata. Ottimista nei suoi progetti, e mettendo sempre con forza, come suo padre, la sorte dalla parte della sua volontà, quel ritardo che non aveva previsto, le parve un tradimento. La luce grigia che, per tre quarti d'ora, filtrava dai vetri della tettoia, cadeva sopra di lei come i granelli di una clessidra immensa che le misurava i minuti perduti per la felicità. Si desolava, quando, nella luce rossa del sole già basso, vide la macchina del diretto fermarsi, mostruosa e docile, sul binario d'arrivo, e, nella folla dei viaggiatori che sbucavano dalle vetture, Giacomo, grande e svelto, che le veniva incontro. La guardò con quella specie di gioia cupa e violenta ch'ella gli conosceva. Egli disse:

– Finalmente eccoti! Temevo di morire prima di rivederti. Non puoi immaginarti, non m'immaginavo io stesso, che tortura sia vivere una settimana lontano da te. Sono tornato nel piccolo padiglione di Via Alfieri. Nella camera, sai, davanti al vecchio pastello, ho urlato d'amore e di rabbia.

Teresa lo, guardò, contenta.

– Ed io, non pensi che ti chiamassi, che ti volessi, che, sola, tendessi le braccia verso di te? Avevo nascosto le tue lettere nella cassettina dei miei gioielli. Le rileggevo, di notte: era delizioso, ma imprudente. Le tue lettere erano te; troppo, ma non abbastanza.

Attraversarono il piazzale, in cui correvano le vetture cariche di valige. Gli chiese se non prendevano una carrozza.

Egli non rispose: sembrava che non capisse. Teresa riprese:

– Sono andata a vedere la tua casa, ma non ho osato entrare. Ho guardato dal cancello, ed ho visto delle finestre con inferriate, fra dei rosai, in fondo a un cortile, dietro un platano. Mi son detta: «È !» Non mi sono mai sentita tanto commossa.

Egli non l'ascoltava più, non la guardava più. Attraversò rapidamente con lei la piazza lastricata; e giunse, per una stretta scala, ad una via deserta, che costeggiava in basso il cortile della stazione. , fra cantieri in legno e magazzini di carbone, sorgeva un albergo, con ristorante a pian terreno, e dei tavolini apparecchiati sul marciapiede. Si vedevano, sotto l'insegna dipinta, delle tendine bianche alle finestre. Dechartre si fermò davanti alla piccola porta e spinse Teresa nel corridoio oscuro.

Ella domandò:

Dove mi porti? Che ore sono? Bisogna che sia tornata a casa alle sette e mezzo. Siamo pazzi.

E in una camera a quadrelli rossi, mobiliata con un letto di noce, con un tappeto che rappresentava un leone, gustarono un momento di divino oblìo.

Ella disse, scendendo le scale:

Giacomo, amico mio, siamo troppo felici: noi rubiamo la vita.

              


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