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Una vettura la condusse, l'indomani, fino ad una strada popolosa eppure deserta, mezzo triste, mezzo allegra, con dei muri di giardini negl'intervalli delle case nuove, e si fermò nel punto in cui passa sotto l'arcata a vôlta di un Hôtel Régence, coperto adesso di polvere e d'oblìo, che, quasi per fantasia, sorge attraverso la strada. Qua e là, dei rami verdi, sporgenti fra le pietre, rallegrano quell'angolo di città. Teresa, suonando alla porticina, vide, nella prospettiva limitata dalle case, una carrucola sopra un lucernario, e una grande chiave dorata, insegna d'un fabbro. Il suo sguardo s'empiva di quegli aspetti nuovi per lei e già familiari. Dei piccioni volavano sulla sua testa; sentiva chiocciare delle galline. Un domestico con dei baffoni, d'aspetto militare e rurale, aperse la porta. Si trovò in un cortile sabbioso, ombreggiato da un platano, e sul quale, a sinistra, al livello della strada, era il casotto del portinaio, con delle gabbie di canarini alle finestre. Da questo lato s'inalzava, rivestito di piante rampicanti, il tetto a punta della casa vicina. Uno studio di scultore vi addossava la sua invetriata, che lasciava vedere delle figure di gesso addormentate sotto la polvere. A destra, il muro poco elevato che chiudeva il cortile portava infissi dei ruderi preziosi di fregi, dei frammenti di bassorilievi, dei fusti spezzati di colonnine. In fondo, l'alloggio, non molto grande, apriva le sei finestre a inferriata della sua facciata, mezzo nascosta fra l'edera e i rosai.
Filippo Dechartre, innamorato dell'architettura francese del XV° secolo, aveva là riprodotto, molto sapientemente, lo stile di un'abitazione privata del tempo di Luigi XII. Quella casa, cominciata verso la metà del secondo Impero, non era stata terminata. Il costruttore di tanti castelli era morto senza poter finire la sua bicocca. Meglio così. Concepito in uno stile che aveva allora la sua distinzione e il suo pregio, ma che sembrava oggi banale e fuori di moda, avendo a poco a poco perduto la sua grande cornice di giardini, serrato adesso fra i muri delle alte costruzioni, il piccolo alloggio di Filippo Dechartre, per la ruvidezza delle sue pietre gregge che si sgretolavano nell'attesa del costruttore, morto forse da vent'anni, per la pesantezza ingenua dei tre lucernari appena sbozzati, per la semplicità del tetto che la vedova aveva fatto coprire con poca spesa, per tutte le attrattive dell'incompiuto e dell'involontario, correggeva la stonatura della sua antichità troppo nuova, del suo romanticismo, archeologico, e s'accordava coll'umiltà d'un quartiere imbruttito dal crescere della popolazione.
Insomma, sotto la sua apparenza di rovina e nel suo verde mantello, quel piccolo alloggio aveva il suo fascino. Subito, istintivamente, Teresa scopriva altre armonie. In quell'abbandono che si stendeva dai muri coperti d'edera ai vetri offuscati dello studio, fino al platano curvo, la cui scorza seminava di scaglie l'erba selvatica del cortile, indovinava l'anima del padrone, noncurante, inabile a conservare, trascinante la malinconia degli appassionati. Ebbe, nella sua gioia, una stretta al cuore, nel riconoscere questa indifferenza in cui il suo amico lasciava le cose intorno a sè. Vi trovava una specie di grazia e di nobiltà, ma anche un senso di distaccamento contrario alla sua natura, tutto opposto all'anima interessata ed accurata dei Montessuy. Subito pensò che, senza guastare la dolcezza pensosa di quell'angolo selvaggio, vi porterebbe la sua attività ordinata, farebbe mettere della sabbia nel viale e, nell'angolo in cui veniva un po' di sole, metterebbe la gaiezza dei fiori. Guardò con simpatia una statua venuta là da qualche parco devastato, una Flora distesa per terra, tutta rósa da una muffa nera, e coi due bracci rotti a fianco. Sognò di vederla presto rialzata e posata, per sua cura, sopra un piedistallo scolpito di ghirlande, che aveva notato in un cortile della via del Vieux-Colombier, da un antiquario.
Dechartre, che da un'ora spiava la sua venuta, allegro, inquieto ancora, tutto tremante per la sua felicità agitata, scendeva i gradini della scala. Nell'ombra fresca del vestibolo, in cui s'indovinava confusamente lo splendore severo dei bronzi e dei marmi, Teresa si fermò stordita dai bàttiti del cuore, che le tumultuava in petto.
Egli la strinse contro di sè, e le diede dei lunghi baci. Essa lo sentì, attraverso il ronzio delle tempie, che le ricordava le brusche delizie della vigilia. Rivide il leone dell'Atlante ai piedi del letto, e rese a Giacomo i suoi baci con una deliziosa lentezza.
La condusse, per una scala contorta di legno, nella vasta sala che serviva in altri tempi di gabinetto da lavoro a suo padre, e dove, egli stesso, disegnava, modellava, e sopratutto leggeva, amando la lettura come un oppio e facendo dei sogni sulla pagina non finita.
Delle tappezzerie del XVI° secolo, sontuosissime, lascianti intravedere, in una foresta meravigliosa, una dama colla pettinatura all'orientale, con un liocorno ai suoi piedi sull'erba fiorita, salivano fino ai travicelli dipinti del soffitto.
La condusse davanti a un divano largo e basso, pieno di cuscini coperti da lembi preziosi di cappe spagnole e di dalmatiche bizantine; ma ella si sedette in una poltrona.
– Eccoti! eccoti finalmente! Ora, il mondo può finire.
– Pensavo alla fine del mondo, in altri tempi; non la temevo. Il signor Lagrange me l'aveva promessa, per galanteria, ed io l'aspettavo. Quando non ti conoscevo, mi annoiavo tanto!
Guardò intorno a sè le tavole cariche di vasi e di statuette, gli arazzi, la folla confusa e splendida delle armi, degli smalti, dei marmi, delle pitture, dei libri antichi.
– Per la maggior parte provengono da mio padre, che viveva nell'età d'oro delle collezioni. Quelle storie del liocorno, la cui collezione completa è a Cluny, mio padre le ha trovate nel 1851, in un albergo di Mung-sur-Yèvre.
– Non vedo niente di tuo, non una statua, un bassorilievo, una di quelle cere così ricercate in Inghilterra, non una figurina, nè una targa, nè una medaglia.
– Se credete che provi piacere a vivere in mezzo alle mie opere!... Le conosco troppo, le mie figure. Mi annoiano. Quello che non ha segreti, non ha attrattive.
Essa lo guardò con dispetto simulato.
– Non mi avevi detto che non c'erano più attrattive, quando non c'erano più segreti.
– Ah! Quel che vive, è anche troppo misterioso. E tu resti per me, amore mio, un enigma il cui senso sconosciuto contiene le delizie della vita e le angoscie della morte. Non temere di offrirti. Ti desidererò sempre, e t'ignorerò sempre. Si possiede mai quel che si ama? Forse che i baci, le carezze, sono altra cosa che lo sforzo d'una disperazione deliziosa? Quando ti tengo fra le mie braccia, ti cerco ancora; e non ti possiedo mai, poichè ti voglio sempre, poichè, in te, voglio l'impossibile e l'infinito. Quello che sei, mai e poi mai lo saprò. Vedi per aver modellato qualche brutta figura, non sono uno scultore. Sono piuttosto una specie di poeta e di filosofo, che cerca nella natura dei soggetti d'inquietudine e di tormento. Il sentimento della forma non mi basta. I miei colleghi mi canzonano, perchè non sono uguale a loro nella semplicità. Hanno ragione. E quell'animale di Choulette ha pure ragione, quando vuole che noi viviamo senza pensare nè desiderare. Il nostro amico, il ciabattino di Santa Maria Novella, che non conosce niente di quello che lo renderebbe ingiusto e infelice, è un maestro nell'arte di vivere. Io dovrei amarti ingenuamente, senza quella specie di metafisica passionale che mi rende assurdo e cattivo. Vieni, vieni, ho troppo crudelmente pensato a te nelle torture dell'assenza; vieni, mia adorata. Bisogna che dimentichi te in te stessa. È in te soltanto, che posso dimenticarti e perdermi.
La prese fra le braccia e, rialzando la veletta, le mise dei baci sulla bocca.
Un po' sgomenta in quella vasta sala sconosciuta, come imbarazzata dallo sguardo delle cose estranee, si tirò il velo nero: fin sul mento.
– Qui? non pensarci nemmeno!
– Soli? E l'uomo dai tremendi baffi che m'ha aperto la porta?
Egli sorrise.
– È Fusellier, l'antico domestico di mio padre. Sua moglie e lui compongono tutta la mia famiglia. Sii tranquilla. Stanno nel loro casotto, fedeli e poco socievoli. Vedrai la signora Fusellier; è di confidenza, te ne avverto.
– Amico mio, perchè il signor Fusellier, svizzero e maggiordomo, ha dei baffi da Tartaro?
– Cara mia, la natura glieli ha dati, ed io glieli lascio volentieri. Gli sono grato di aver l'aria di un antico sergente maggiore, diventato giardiniere, e di darmi così l'illusione d'essere mio vicino di campagna.
Seduto sull'angolo del divano, l'attrasse sui suoi ginocchi, e le diede dei baci ch'ella rese.
Teresa si rialzò improvvisamente.
– Fammi vedere le altre camere. Sono curiosa: voglio veder tutto.
La condusse al secondo piano. Degli acquarelli di Filippo Dechartre coprivano i muri del corridoio. Egli aprì una porta e la fece entrare in una camera mobiliata di palissandro.
Era la camera di sua madre. La conservava intatta, nel suo passato d'ieri, il solo passato che veramente ci commuova e ci attristi. Disabitata da nove anni, la camera non aveva ancora l'aria rassegnata alla solitudine. L'armadio a specchi sembrava attendere ancora lo sguardo della vecchia signora; e, sopra la pendola d'onice, una Saffo pensosa s'annoiava nel non sentir più il rumore del bilancere.
C'erano ai muri due ritratti. Uno, di Ricard, rappresentava Filippo Dechartre, pallidissimo, colla chioma arruffata, l'occhio immerso in un sogno romantico, la bocca piena d'espressione e di bontà. L'altro, dipinto da una mano meno inquieta, mostrava una signora di mezza età, quasi bella nella sua magrezza ardente. Era la sposa di Filippo Dechartre.
– La camera della mia povera mamma è come me – disse Giacomo –: essa si ricorda.
– Somigli a tua madre – disse Teresa. – Hai tutti i suoi occhi. Paolo Vence m'ha detto che ti adorava.
– Sì – egli rispose sorridente – era buonissima, la mamma; intelligente, squisita, meravigliosamente assurda. Aveva la follìa dell'amor materno, e non mi lasciava un momento di riposo; si tormentava e mi tormentava.
Teresa guardava un bronzo di Carpeaux posato sullo stipo.
– Lo riconosci? – fece Dechartre – il Principe imperiale, dalle sue orecchie ad ali di Zeffiro che rallegrano un poco il suo viso freddo. Questo bronzo è un regalo di Napoleone III. I miei genitori andavano a Compiègne. Mio padre, durante il soggiorno della corte a Fontainebleau, rilevò il piano del castello e disegnò la galleria. Al mattino, l'Imperatore veniva in redingote, con una pipa di schiuma, a posare vicino a lui come un pinguino sopra una roccia. In quel tempo, io ero alunno esterno al «Bonaparte». Ascoltavo quelle storie a tavola, e mi sono rimaste impresse. L'imperatore stava là tranquillo e dolce, interrompendo il suo lungo silenzio con qualche parola smorzata sotto i suoi grossi baffi; poi si animava un poco, spiegava le sue idee di macchine. Era inventore e meccanico. Levava un lapis dalla sua tasca e faceva delle figure dimostrative sui disegni di mio padre desolato. Gli guastava così due o tre studi alla settimana... Egli amava molto mio padre, e gli prometteva dei lavori e degli onori che non venivano mai. L'Imperatore era buono, ma non aveva influenza, come diceva la mamma. In quei tempi, io ero uno sbarazzino. Da allora m'è rimasta una vaga simpatia per quell'uomo, che mancava di genio, ma la cui anima era affettuosa, e che serbava nelle grandi avventure della vita un coraggio semplice e un dolce fatalismo... Eppoi, quel che me lo rende simpatico, è che fu combattuto e ingiuriato da gente che voleva prendere il suo posto e che non aveva almeno, come lui, in fondo all'anima, l'amore per il popolo. Li abbiamo visti poi, al potere. Cielo! come sono ripugnanti! Il senatore Loyer, per esempio, che da te, nel salotto da fumare, si cacciava dei sigari in tasca, e m'invitava a fare lo stesso. «Per la strada», diceva. Quel Loyer, è un pessimo soggetto, cattivo verso i disgraziati, i deboli, gli umili. E Garain, non ti sembra che sia un'anima bassa? Ti ricordi: la prima volta che ho pranzato da te, si è parlato di Napoleone. I tuoi capelli, annodati sopra la nuca e attraversati da una freccia di diamante, si torcevano con una violenza mirabile. Paolo Vence ha detto delle cose acute; Garain non capiva. Tu hai domandato il mio parere.
– Era per farti brillare: avevo già l'orgoglio di te.
– Oh! io non sarei riuscito a trovare una sola frase davanti a delle persone così serie. Eppure, avevo voglia di dire che Napoleone III mi piaceva più del Primo, perchè era meno agitato; ma forse questa idea avrebbe prodotto un cattivo effetto. Del resto, non sono così sprovvisto interamente d'intelligenza, da occuparmi di politica.
Girava per la stanza, guardava i mobili con una tenerezza familiare. Aperse un cassetto dello scrittoio:
– Guarda, gli occhiali della mamma. Quanto li ha cercati! Adesso ti faccio vedere la mia camera. Se non è ben fatta, scuserai la signora Fusellier, che ho abituata a rispettare il mio disordine.
Le tendine delle finestre erano abbassate. Egli non le rialzò.
Un'ora dopo, ella stessa scostò i lembi di raso rosso; dei raggi di luce abbagliarono i suoi occhi e si diffusero sui suoi capelli disfatti, Cercò uno specchio, e non trovò che uno specchietto di Venezia, appannato nella sua larga cornice nera. Alzandosi sulla punta dei piedi per vedersi:
– Sono io – si chiese – quello spettro cupo e lontano? Tutte le altre han dovuto vedersi qui come mi vedo io. Che terribile incantatore sei, a trasformare in ombre le donne che possiedi!
Ad un tratto le venne un'inquietudine:
– Dio mio! che penseranno di me i signori Fusellier?
Poi, scoprendo sul muro un medaglione in cui Dechartre aveva modellato un profilo di ragazzina simpatica e viziosa, domandò:
– Chi è questa?
– Questa, è Clara, una piccola rivenditrice di giornali di Via Demours. Mi portava il Figaro tutte le mattine. Aveva delle fossette alle guance, veri nidi di baci. Un giorno, le ho detto: «Voglio farti il ritratto.» Venne, una mattina d'estate, con degli orecchini e degli anelli, comprati alla festa di Neuilly. Poi non è più venuta. Non so che cosa sia diventata. Era troppo sincera per diventare una grande cocotte. Vuoi che lo levi?
– No, sta benissimo in quest'angolo. Non sono gelosa di Clara.
Era ora di tornare, e non si decideva a partire. Gettò le braccia al collo del suo amico.
– Oh! t'amo! Eppoi, oggi sei stato ridente e gaio. L'allegria ti sta così bene.... La tua è fine e leggera. Vorrei renderti sempre contento. Io ho bisogno di gioia, quasi quanto d'amore; e chi mi darà della gioia, se non me ne dai tu?