Anatole France
Il giglio rosso

XXVII.

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               XXVII.

Dopo il suo ritorno a Parigi, da sei settimane, Teresa viveva nel torpore ardente della felicità, e prolungava attraverso tutte le realtà il suo sogno senza pensieri. Andava a trovare Giacomo tutti i giorni, nella casetta ombreggiata dal platano; e quando finalmente s'erano staccati l'uno d'all'altra, verso sera, portava nella sua anima dei ricordi adorati. La sua stanchezza deliziosa e i suoi desideri rinascenti, formavano come un festone che allacciava tra loro le ore d'amore. Avevano entrambi gli stessi gusti; cedevano insieme alle stesse fantasie. Gli stessi capricci li trasportavano l'uno verso l'altra. Provavano piacere a fare delle gite per la campagna equivoca e graziosa che contorna la città, per le strade in cui le osterie, color feccia di vino, sono ombreggiate da acacie, i sentieri sassosi in cui le ortiche crescono ai piedi dei muri, i piccoli boschi e i campi su cui si stende un cielo fine, solcato dal fumo delle officine. Essa era contenta di sentirlo vicino a , in quel paese dove non si riconosceva e dove si procurava l'illusione di perdersi con lui.

Quel giorno avevano preso, per una fantasia, il battello che aveva così spesso visto passare sotto le sue finestre. Non temeva d'essere riconosciuta. Il pericolo non era molto grande; e da quando amava, aveva perduto la prudenza. Videro delle rive che a poco a poco diventavan ridenti, sfuggendo all'aridità polverosa dei sobborghi; costeggiarono delle isole con dei ciuffi d'alberi ombreggianti delle baracchette e degli innumerevoli canotti attaccati sotto i salici. Sbarcarono al Basso Meudon. Avendo ella detto di sentir troppo caldo e d'aver sete, la fece entrare, per una porta di fianco, in un'osteria con camere mobiliate. Era un fabbricato sovracarico di gallerie di legno, che la solitudine faceva apparire più grande, e che sonnecchiava in una pace rustica, aspettando che la domenica lo riempisse delle risate delle ragazze, dei gridi dei canottieri, dell'odore delle fritture e del fumo dei marinai.

Salirono la scala di legno che scricchiolava, e in una camera del primo piano, una cameriera portò loro del vino e dei biscotti. Delle tende di lana coprivano un letto d'acajou; sul camino che tagliava uno degli , pendeva uno specchio ovale in una cornice a fiorami. Dalla finestra aperta si vedeva la Senna; le sue verdi rive, le colline lontane bagnate d'aria calda, e il sole già vicino a toccare la cima dei pioppi. Sulla riva del fiume, i moscerini danzavano a sciami. La pace fremente d'una sera d'estate riempiva il cielo, la terra e l'acqua.

Teresa guardò a lungo scorrere il fiume. Il battello passò sull'acqua che turbinava intorno alla sua elica; e i vortici della scìa spumosa raggiungendo la riva, le parve che la casa perduta sul fiume oscillasse come una nave.

– Io amo l'acqua! – disse Teresa, voltandosi verso il suo amico. – Dio mio, come sono felice!

Le loro labbra s'incontrarono.

Sprofondati nella disperazione incantata dell'amore, il tempo non era più segnato per loro che dal fresco sciacquìo dell'acqua, che, ogni dieci minuti, dopo il passaggio del battello, veniva ad infrangersi sotto la finestra socchiusa.

Ella si sollevò sui guanciali e, mentre i suoi vestiti, negligentemente gettati, erano sparsi sul pavimento, vide nello specchio la sua fiorente nudità. E alle lodi lusinghiere del suo amico, rispose:

– È proprio vero, che son fatta per l'amore.

Con un giusto sentimento della sua gloria, contemplava l'immagine della sua forma nella luce vermiglia, che avvivava le rose pallide e porporine delle guance, delle labbra, delle mammelle.

–M'amo perchè tu mi ami.

Certo, egli la amava, e non poteva spiegare a se stesso perchè l'amasse con una devozione ardente, con una specie di sacro furore. Non era per la sua bellezza, benchè così rara, infinitamente preziosa. Essa aveva la linea, ma la linea segue il movimento e fugge senza tregua; si perde e si ritrova, causa delle gioie e delle disperazioni estetiche. La bella linea, è il lampo che ferisce deliziosamente gli occhi. Si ammira e si resta abbagliati. Quello che fa sì che s'ami e si desideri, è una forza dolce e terribile, più potente della bellezza. Si trova una donna fra mille che non si può più lasciare, da quando si è posseduta, e che si vuole sempre, e che si vuole ancora. È il fiore della sua carne, che quel male inguaribile dell'amare; ed è un'altra cosa ancora, che non si può esprimere: è l'anima del suo corpo. Essa era quella donna che non si può lasciare, ingannare.

Teresa gridò, gioconda:

– Non mi si può lasciare, di'?

Gli chiese perchè non modellava il suo busto, dal momento che la trovava bella.

Perchè? Perchè sono uno scultore mediocre. Ma, se vuoi per forza credermi un grande artista, ti porterò delle altre ragioni. Per creare una figura che viva, bisogna prendere il modello come una materia vile, da cui si estrae la bellezza, che si spreme, si frantuma, per estrarne l'essenza. In te, nella tua forma, nel tuo corpo, in tutta te, non c'è nulla che non mi sia prezioso. Se facessi il tuo busto, m'attaccherei servilmente a quei nonnulla, che sono tutto per me, perchè sono un'infinitesima parte di te. Mi c'intesterei stupidamente, e non riuscirei a comporre un insieme.

Teresa lo guardava, un po' sorpresa.

Egli prosegui

– A memoria, non dico di no. Ho tentato un piccolo schizzo, che porto sempre con me.

Siccome ella voleva assolutamente vederlo, glielo mostrò. Era, sopra un foglietto d'album, uno schizzo semplicissimo e molto ardito. Teresa non vi si riconobbe, vi trovò delle durezze, un'anima che non si conosceva.

– Ah! è così che tu mi vedi, è così che sono in te?

Egli chiuse l'album.

– No, uno schizzo, una nota, ecco tutto. Ma la credo una nota giusta. È probabile che tu non ti veda affatto come ti vedo io. Ogni creatura umana è un essere diverso, per ciascuno di coloro che la guardano.

Aggiunse con una specie di gaiezza

– In questo senso, può dirsi che una stessa donna non ha mai appartenuto a due uomini. È un'idea di Paolo Vence.

– Io la credo giustadisse Teresa.

Poi domandò:

– Che ore sono?

Erano le sette.

Teresa lo sollecitò a partire: ogni sera essa rincasava sempre più tardi, e suo marito glielo aveva fatto osservare. Aveva detto: «Arriviamo sempre gli ultimi a tutti i pranzi; è una fatalità!» Ma, trattenuto tutti i giorni alla Camera, in cui si discuteva il bilancio, e assorbito dai lavori della sottocommissione che l'aveva nominato relatore, si faceva egli stesso molto aspettare, e la ragione di Stato copriva le mancanze di Teresa.

Ricordò sorridendo la sera in cui era arrivata dalla signora Garain alle otto e mezzo. Temeva di dare scandalo. Ma era il giorno della grande interpellanza. Suo marito non tornò dalla Camera che alle nove, con Garain. Pranzarono tutt'e due in giacchetta. Avevano salvato il Ministero.

Poi diventò pensierosa.

– Quando la Camera sarà in vacanze, amico mio, non avrò più pretesti per restare a Parigi. Mio padre già non comprende più l'attaccamento che mi trattiene qui. Fra otto giorni bisognerà che vada a raggiungerlo a Dinard. Che farò senza di te?

Giunse le mani e lo guardò con una tristezza infinitamente tenera. Ma lui, più cupo:

– Sono io, Teresa, sono io, che devo domandarmi con inquietudine che cosa diventerò senza di te. Quando mi lasci solo, sono assalito da pensieri dolorosi; le idee nere vengono a circondurmi da ogni lato.

Teresa gli domandò di quali idee si trattava. Egli rispose:

– Te l'ho già detto, amor mio: bisogna che ti dimentichi in te. Quando sarai partita, il tuo ricordo verrà a tormentarmi. Bisogna bene che sconti la felicità che mi dai.

              


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