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Ventiquattr'ore dopo la sua lettera, Teresa veniva da Dinard alla casetta delle Ternes. Non le era stato difficile trovare un pretesto per andare a Parigi. Aveva fatto il viaggio con suo marito, che voleva rivedere, nell'Aisne, i suoi elettori, lavorati dalla propaganda socialista. Ella sorprese Giacomo, al mattino, nello studio, mentre abbozzava una grande figura di Firenze, piangendo, sulla riva dell'Arno, la sua gloria antica.
La modella, un'alta ragazza bruna, in piedi sopra uno sgabello altissimo, era in posa. La luce cruda che scendeva dall'invetriata su quel corpo nudo, ne metteva in mostra le belle forme, rivelava senza indulgenza le tinte mal fuse e le irregolarità della pelle e svelava le rudi verità della natura. Dechartre voltò verso la visitatrice uno sguardo pieno di gioia e di dolore, posò la sua stecca sull'orlo dello sgabello, gettò sulla figura un panno bagnato, e, tuffando nell'acqua d'un vaso le sue mani su cui seccava la creta, disse alla modella:
– Ragazza mia, per oggi basta.
Essa scese dallo sgabello, raccolse una manata di cenci scuri e di biancheria sporca e andò a rivestirsi dietro il paravento.
Frattanto Giacomo, conducendo Teresa, uscì dallo studio.
Passarono sotto il platano, che colle scaglie del suo tronco scorticato tappezzava la sabbia del cortile.
Ella disse:
Egli la condusse nella sua camera.
La lettera scritta da Dinard aveva già addolcito le impressioni penose. Era giunta nel momento in cui, stanco di soffrire, aveva bisogno di calma e di tenerezza. Poche righe di scritto avevano calmato la sua anima, nutrita d'immagini, meno sensibile alle cose che ai segni delle cose. Ma gli restava una pena nel cuore.
Nella camera, in cui tutto parlava di lei, in cui i mobili, le tende, i tappeti dicevano il loro amore, ella mormorò delle parole dolcissime:
– Tu hai potuto credere... Non sai dunque quel che sei per me?... Era una pazzia!... Come potrebbe, una donna che t'ha conosciuto, sopportare un altro dopo di te?
– Ma prima?
– Prima, ti aspettavo.
– E lui non era alle corse di Dinard?
Teresa credeva di no; e, quello ch'era certo, si è che lei non c'era. I cavalli e gli amatori di cavalli la annoiavano.
– Giacomo, non temere nessuno, perchè nessuno può stare a pari di te.
Egli sapeva al contrario, quanto poco valeva, e quanto poco si vale in questo mondo, in cui gli esseri, agitati come, nel vaglio, i grani e la pula, sono mescolati e separati dalla scossa del villano o di Dio. E ancora, questa idea del vaglio agricolo o mistico rappresentava troppo bene la misura e l'ordine, perchè potesse applicarsi esattamente alla vita. Gli sembrava che gli uomini fossero dei chicchi nel cavo d'un macinino da caffè. Ne aveva avuta la sensazione vivissima, due giorni prima, vedendo la signora Fusellier macinare il caffè nel suo macinino.
– Perchè non hai nessun orgoglio?
Aggiunse poche parole, ma parlava coi suoi occhi, le sue braccia, col soffio che le faceva gonfiare e abbassare il petto.
Nello stupore felice di vederla e d'ascoltarla, egli si lasciò convincere.
Teresa gli chiese chi aveva detto quella parola odiosa.
Egli non aveva nessuna ragione di nasconderglielo: era stato Daniele Salomon.
Ella non si meravigliava. Daniele Salomon, che passava per non poter essere l'amante di nessuna donna, voleva almeno entrare nell'intimità di tutte, e conoscere i loro segreti. Indovinò perchè aveva parlato:
– Giacomo, non inquietarti per quello che ti dico. Tu non sei troppo abile per nascondere i tuoi sentimenti. Egli ha sospettato che tu mi amassi, ed ha voluto accertarsene. Sono sicura che adesso non ha più nessun dubbio sulle nostre relazioni, ma questo m'è perfettamente indifferente. Al contrario, se tu sapessi meglio dissimulare, sarei, meno tranquilla: crederei che tu non mi amassi abbastanza.
Per timore d'inquietarlo, passò ad atri argomenti:
– Non t'ho detto quanto m'è piaciuto il tuo bozzetto. Rappresenta Firenze, sulla riva dell'Arno. Allora, siamo noi?
– Sì, ho messo in quella figura l'emozione del mio amore. Essa è triste, e vorrei che fosse bella. Vedi, Teresa, la bellezza è dolorosa. Ecco perchè, dopo che la mia vita è bella, soffro.
Frugò nella tasca della sua veste di flanella e ne cavò il suo astuccio da sigarette. Ma ella lo sollecitò a vestirsi: lo conduceva a colazione da lei. Non si lascerebbero per tutta la giornata: sarebbe stata una cosa deliziosa.
Lo guardò con una gioia infantile. Poi si attristò, pensando che bisognerebbe, alla fine della settimana, tornare a Dinard, poi andare a Joinville; e che, durante questo tempo, sarebbero separati.
A Joinville, da suo padre, lo farebbe invitare per qualche giorno. Ma non vi si sentirebbero liberi e soli come a Parigi.
– È vero – diss'egli. – Parigi ci è favorevole, nella sua confusa immensità.
E aggiunse:
– Anche durante la tua assenza, non posso più lasciare Parigi. Mi sarebbe odioso vivere in paesi che non ti conoscono. Un cielo, delle montagne, degli alberi, delle fontane, delle statue che non mi sapessero parlare di te, non avrebbero niente da dirmi.
Mentr'egli si vestiva, Teresa sfogliava un libro che aveva trovato sulla tavola. Erano le Mille e una notte. Delle incisioni romantiche rappresentavano qua e là, nel testo, dei visir, dei sultani, degli eunuchi neri, dei bazar, delle carovane.
Ella domandò:
– Le Mille e una notte ti divertono?
– Molto – rispose facendosi il nodo della cravatta. – Credo, quando voglio, a quei principi arabi le cui gambe sono diventate di marmo nero e a quelle donne dell'harem che vagano di notte nei cimiteri. Questi racconti mi danno dei sogni facili, che fanno dimenticare la vita. Ieri sera, mi sono coricato molto triste, e ho letto la storia dei tre Mussulmani guerci.
Ella disse, con un po' d'amarezza:
– Tu cerchi di dimenticare! Io non accetterei per niente al mondo di dimenticare una pena che mi viene da te.
Discesero insieme nella strada. Ella doveva prendere una vettura un po' più lontano e precederlo a casa di qualche minuto.
– Mio marito t'aspetta a colazione.
Parlavano, strada facendo, di piccole cose, che il loro amore rendeva grandi e belle. Facevano il programma del loro pomeriggio per mettervi con abbondanza delle gioie intime e dei piaceri ingegnosi. Teresa lo consultava sulle sue toelette. Non si decideva a lasciarlo, felice di andare con lui per le strade piene di sole e della gaiezza del mezzogiorno. Arrivati al corso delle Termes, scoprirono davanti a loro, sulla strada, delle botteghe che mettevano in mostra, a gara, un'abbondanza magnifica di viveri. Erano schidionate d'uccelli dal rosticcere e, dal fruttivendolo, cassette d'albicocche e di pesche, panierini d'uva, mucchi di pere. Carretti di frutta e di fiori fiancheggiavano la via. Sotto la tettoia invetriata d'un ristorante, degli uomini e delle donne facevano colazione. Teresa riconobbe fra loro, solo ad un tavolinetto, contro un alloro piantato in una cassa, Choulette che accendeva la pipa.
Avendola vista, gettò superbamente uno scudo sulla tavola, si alzò, salutò. Era molto grave: la sua lunga redingote gli dava un'aria di decoro e di austerità.
Disse che avrebbe voluto volentieri far visita alla signora Martin a Dinard. Ma era stato trattenuto in Vandea, dalla marchesa De Rieu. Frattanto aveva pubblicato una nuova edizione del Giardino chiuso, aumentata dall'Orto di Santa Chiara. Aveva toccato delle anime che credeva insensibili, fatto sgorgare delle sorgenti fra le rocce.
– Così – egli disse – sono stato una specie di Mosè.
Si frugò in tasca e levò dal portafoglio una lettera sgualcita e macchiata.
– Ecco quel che mi scrive la signora Raymond, moglie dell'accademico. Pubblico le sue parole, perchè vanno a sua lode.
E, spiegando i sottili foglietti, lesse:
«– Ho fatto conoscere il vostro libro a mio marito, che ha esclamato: «È del più puro spiritualismo! Ecco un giardino chiuso che, dal lato dei gigli e delle rose bianche, ha bene, mi immagino, una porticina che s'apre sulla via dell'Accademia».
Choulette gustò queste parole, mescolate, nella sua bocca, ai profumi dell'acquavite, e rimise accuratamente la lettera nel suo portafoglio.
La contessa Martin si congratulò col poeta d'essere il candidato della signora Raymond.
– Voi sareste il mio, signor Choulette, se mi occupassi d'elezioni accademiche. Ma avete forse desiderio d'entrare all'Istituto?
Egli stette qualche momento in solenne silenzio, poi disse:
– Sto per conferire, signora, con diverse notabilità del mondo politico e religioso, che abitano a Neuilly. La marchesa De Rieu mi spinge a presentare la mia candidatura, nel suo paese, ad un seggio senatoriale diventato vacante per la morte d'un vecchio che fu, si dice, generale durante la sua vita illusoria. Consulterò a questo riguardo dei preti, delle donne, dei fanciulli – o eterna saggezza! – in Boulevard Bineau. Il collegio di cui solleciterò i suffragi si trova in una terra ondulata e boscosa, dove dei salici tagliati circondano i campi. E non è raro trovare alle radici di questi salici lo scheletro di un vandeano, che impugna ancora il fucile e il rosario fra le sue dita scheletrite. Farò affiggere la mia professione di fede sulla scorza delle querce. Vi si leggerà: «Pace alle parrocchie! Venga il giorno in cui i vescovi, con una croce di legno tra le mani, diventeranno simili al più povero chierico della più povera parrocchia! Sono i vescovi che hanno crocifisso Gesù Cristo. Si chiamavano Anna e Caifa. E conservano ancora questi nomi davanti al Figlio di Dio. Ora, mentre essi lo appendevano alla croce, io ero il buon ladrone che pendeva al suo fianco.»
Alzò il suo bastone verso Neuilly:
– Dechartre, amico mio, non pensate che il boulevard Bineau sia carico di polvere laggiù, a destra?
– Addio, signor Choulette – disse Teresa. – Non mi dimenticate, quando sarete senatore.
– Signora, io non vi dimentico in nessuna delle mie orazioni, tanto mattutine che vespertine. E dico a Dio: «Poichè, nella vostra collera, le avete dato la ricchezza e la bellezza, guardatela con mansuetudine, Signore, e trattatela secondo la vostra grande misericordia».
E se ne andò, rigido e trascinante la gamba, per la grande strada popolosa.