Anatole France
Il giglio rosso

XXX.

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               XXX.

Avvolta in un manto di seta rosa. Teresa scese con Dechartre i giardini della scala. Egli era arrivato al mattino a Joinville. Essa l'aveva fatto venire nel piccolo cerchio dei suoi intimi, prima delle battute di caccia, a cui temeva che Le Ménil, del quale non aveva notizie, fosse invitato quest'anno come al solito. L'aria leggera di settembre agitava i riccioli dei suoi capelli, e il sole declinante faceva brillare dei punti d'oro nel grigio profondo delle sue pupille. Dietro di loro, la facciata del castello mostrava, sopra le tre arcate del pianterreno, fra gl'intervalli delle finestre, sopra le lunghe mensole, dei busti d'imperatori romani. Il corpo principale del fabbricato era stretto fra due alti padiglioni, che erano ancor rialzati, sotto i loro grandi tetti d'ardesia, da un ordine misurato di pilastri ionici. A questa disposizione si riconosceva l'arte dell'architetto Leveau, che aveva costruito nel 1650 il castello di Joinville sull'Oise per quel ricco Mareuilles, creatura di Mazarino e complice fortunato del sovrintendente Fouquet.

Teresa e Giacomo vedevano davanti a loro le aiuole i cui fiori formavano delle grandi volute, disegnate da Le Nôtre, il tappeto verde, il bacino; poi la grotta colle sue cinque arcate rustiche e le sue terme gigantesche, coronata dai grandi alberi su cui l'autunno aveva già cominciato a distendere il suo manto di porpora e d'oro.

– Eppure è belladisse Dechartre – questa geometria verdeggiante.

– Sì – disse Teresa. – Ma io penso al platano curvo, nel piccolo cortile dove l'erba spunta fra le pietre. Ci metteremo dei fiori, non è vero?

Appoggiata contro uno dei leoni di pietra, dal volto quasi umano, che vegliavano sui fossati colmi, in fondo agli scalini, si voltò verso il castello e, guardando uno dei lucernari a gola di drago aperto sopra la cornice:

– La tua camera è lassù; ci sono, salita ieri sera. Allo stesso piano, dall'altra parte, proprio in fondo, è lo studio del babbo. Una tavola di legno bianco, uno scaffale d'acajou, una bottiglia sul caminetto: ecco il suo gabinetto da giovane. Tutta la nostra fortuna è uscita di .

Attraverso i sentieri sabbiosi delle aiuole, raggiunsero il muro di bussi tagliati che limitava il dal lato di mezzogiorno. Passarono davanti alla serra degli aranci, la cui porta monumentale era sormontata dalla croce lorenese di Mareuilles, e s'infilarono poi nel viale dei tigli, lungo il verde tappeto. Sotto gli alberi mezzo spogliati, delle statue di ninfe sembravano rabbrividire nell'ombra umida, punteggiata di pallide luci. Un piccione, posato sopra la spalla d'una delle donne di marmo, prese il volo. Ogni tanto, un soffio di vento staccava una foglia secca, che cadeva, conchiglia d'oro rosso in cui restava una goccia di pioggia.

Teresa mostrò la ninfa e disse:

– Essa mi ha visto, quando, da bambina, desideravo di morire. Soffrivo di desiderii e di paura. Ti aspettavo. Ma tu eri così lontano!

Il viale dei tigli s'interrompeva, alla rotonda occupata dal grande bacino in mezzo al quale si elevava un gruppo di tritoni e di nereidi che soffiavano nelle loro conchiglie per formare, coi giochi delle acque, un diadema liquido, una ghirlanda di spuma.

– È la Corona di Joinvilledisse Teresa.

Mostrò un sentiero che, partendo dal bacino, andava a perdersi nella campagna, dalla parte di levante.

– Ecco il mio sentiero. Quante volte sono andata a passeggiarvi malinconicamente! Ero triste, quando non ti conoscevo.

Ritrovarono il viale che, con altri tigli ed altre ninfe, proseguiva di dalla rotonda; e lo seguirono fino alle grotte. Erano, in fondo al parco, un emiciclo di cinque grandi nicchie di rocce sormontate da balaustre e separate da gigantesche pietre di termine. Una di queste pietre, all'angolo del monumento, li dominava colla sua nudità mostruosa, e abbassava su loro il suo sguardo di pietra, feroce e dolce.

– Quando mio padre comprò Joinvilledisse Teresa – le grotte non erano che un mucchio di rottami pieno d'erbe e di vipere. Migliaia di conigli ci avevano fatta la tana. Egli ha rialzato i termini e le arcate secondo le stampe di Perrelle, conservate in biblioteca. È stato l'architetto di se stesso.

Un desiderio d'ombra e di mistero li condusse verso la siepe di carpini che copre il fianco delle grotte. Ma un rumore di passi che intesero, proveniente dal viale coperto, li fece fermare un momento. E videro, attraverso il fogliame, Montessuy che teneva per la vita la principessa Seniavine. Tranquillissimi, andavano verso il castello. Giacomo e Teresa, rincantucciati contro l'enorme pietra del termine, attesero che fossero passati. Poi ella disse a Dechartre, che la guardava in silenzio:

Comprendo adesso perchè, quest'inverno, la principessa Seniavine domandava consiglio a papà per comperare dei cavalli.

Tuttavia Teresa ammirava suo padre per aver conquistato quella bella donna, che passava per difficile e che si sapeva ricca, malgrado gli imbarazzi in cui la metteva il suo disordine folle. Domandò a Giacomo se non trovava bellissima la principessa. Egli le riconosceva uno splendore animale e un sapor di carne troppo forte secondo il suo gusto: immaginava che avesse dei seni marcati da una grande aureola bruna, un ventre di zafferano, di zolfo e d'ocra, e delle gambe pelose. Le rimproverava sopra tutto una carnagione troppo grossolana. Al che Teresa replicò che la cosa era possibile, e che, pertanto, di sera, la principessa Seniavine eclissava tutte le altre donne.

Condusse Giacomo alle scale muscose che, salendo dietro le grotte, portavano alla fontana dell'Oise, formata da un ciuffo di canne di piombo, in mezzo ad una vasca di marmo rosa. si elevavano i grandi alberi che chiudevano la prospettiva del parco, e cominciavano i boschi. Andarono sotto gli alti tronchi, in silenzio, nel debole gemito delle foglie. Al di della magnifica cortina degli olmi si stendevano i boschi cedui coi loro ciuffi di tremule e di betulle, la cui scorza pallida s'accendeva d'un ultimo raggio di sole.

Egli la strinse fra le braccia e le mise dei baci sugli occhi. La notte scendeva dal cielo, le prime stelle tremolavano fra i rami. Nell'erba umida sospirava il flauto delle raganelle. Quel giorno più non andarono avanti.

Quando Teresa riprese con lui, nella notte, la strada del castello, le restava sulle labbra un sapore di baci e di menta, e negli occhi l'immagine del suo amante che, in piedi contro il tronco di una betulla, sembrava un fauno, mentre, sollevata sulle sue braccia, colle mani intrecciate dietro la nuca, ella moriva di voluttà. Sorrise sotto i tigli alle ninfe che avevano visto le lagrime della sua infanzia. Il Cigno elevava nel cielo la sua croce di stelle e la luna specchiava la sua falce sottile nel bacino della corona. Nell'erba, gli insetti gettavano dei richiami d'amore. All'ultimo svolto della muraglia di busso, Teresa e Giacomo scoprirono la triplice massa nera del castello, e per le grandi arcate del pianterreno, intravedevano, nella luce rossa, delle forme che si movevano. La campanella sonava.

Teresa esclamò:

– Ho appena il tempo di vestirmi per la cena.

E fuggì davanti ai leoni di pietra, lasciando al suo amico una visione di naiade o d'oreade.

Nel salotto, finito il pranzo, Berthier d'Eyzelles leggeva il giornale, e la principessa Seniavine, giuocava al solitario. Teresa, cogli occhi socchiusi sopra un libro e sentendo alle caviglie la puntura delle spine scavalcate nei cespugli, dietro la Fontana d'Oise, si ricordava con un fremito l'amico che l'aveva presa tra le foglie come un fauno che giocava con una ninfa.

La principessa le domandò se leggeva qualcosa di divertente.

– Non so. Leggevo e pensavo. Paolo Vence ha ragione: «Nei libri, noi non troviamo che noi stessi».

Attraverso le tende venivano dalla sala da bigliardo le voci brevi dei giuocatori e il rumore secco delle biglie.

Vittoria! – gridò la principessa, gettando le carte.

Aveva puntato una grossa somma sopra un cavallo che correva quel giorno alle corse di Chantilly.

Teresa disse che aveva ricevuto una lettera da Fiesole: Miss Bell le annunziava il suo prossimo matrimonio col principe Eusebio Albertinelli della Spina.

La principessa si mise a ridere:

– Ecco un uomo che le renderà un magnifico servizio.

– Quale? – domandò Teresa.

– Quello di disgustarla degli uomini, perbacco!

Montessuy entrò nel salotto, molto allegro. Aveva vinto la partita.

Si sedette a fianco di Berthier d'Eyzelles e, prendendo un giornale spiegato sul divano:

– Il ministro delle finanze annunzia che alla riapertura presenterà il suo progetto di legge sulle Casse di risparmio.

Si trattava di autorizzare le Casse di risparmio a prestare del danaro ai Comuni, ciò che avrebbe tolto agli istituti finanziari che dirigeva Montessuy la loro migliore clientela.

Berthierdomandò il finanziere – siete voi risolutamente contrario a questo progetto?

Berthier assentì col capo.

Montessuy, alzandosi, posò la mano sulla spalla del deputato.

– Mio caro Berthier, ho l'idea che il ministero cadrà all'inizio della sessione. Si avvicinò a sua figlia:

– Ho ricevuto una lettera bizzarra da Le Ménil.

Teresa andò a chiudere la porta che separava il salotto dal bigliardo.

– Una lettera singolare, – riprese Montessuy. – Le Ménil non verrà a caccia a Joinville. Ha comprato uno yacht di ottanta tonnellate, Rosebud. Naviga nel Mediterraneo e non vuol vivere più che sull'acqua. Peccato: non c'è che lui che sappia dirigere la caccia.

In quel momento, Dechartre entrò nel salotto col conte Martin, che, dopo averlo vinto al biliardo, avendolo preso in simpatia, gli spiegava i pericoli di un'imposta basata sul reddito familiare e sul numero dei domestici.

              


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