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Un pallido sole d'inverno, filtrando attraverso le nebbie della Senna, illuminava sopra le porte della sala da pranzo i cani d'Oudry.
La signora Martin aveva alla sua destra il deputato Garain, ex-guardasigilli, già presidente del Consiglio, alla sua sinistra il senatore Loyer. A destra del conte Martin-Bellème, stava Berthier d'Eyzelles. Era un'intima e sobria colazione d'affari. Secondo quanto aveva previsto Montessuy, il gabinetto era caduto quattro giorni prima. Chiamato il mattino stesso all'Eliseo, Garain aveva accettato l'incarico di formare un ministero. Egli preparava a colazione la combinazione che doveva, alla sera, essere sottoposta al Presidente. E mentre facevano dei nomi, Teresa rivedeva dentro di sè le immagini della sua vita intima.
Era tornata a Parigi col conte Martin appena riaperto il Parlamento, e da quel momento conduceva una vita incantevole.
Giacomo l'amava con un misto delizioso di passione e di tenerezza, d'esperienza sapiente e d'ingenuità curiosa. Era nervoso, irritabile, inquieto; ma la mutevolezza del suo umore dava maggior pregio alla sua gaiezza. Questa gaiezza d'artista, che s'accendeva improvvisa come una fiamma, carezzava l'amore senza offenderlo. Ed era, per Teresa, una meraviglia questo riso spirituale del suo amico. Non avrebbe mai immaginato quel gusto sicuro che metteva naturalmente nel capriccio giocondo e nella fantasia familiare. Nei primi tempi, non le aveva mostrato che un ardore monotono e cupo, E questo soltanto l'aveva conquistata. Ma, poi, aveva scoperto in lui un'anima gaia, abbondante e diversa, una grazia unica nella sensualità, il dono di lusingare, di soddisfare tutta l'anima colla carne.
– Un ministero omogeneo – esclamò Garain – si fa presto a dire. Bisogna pur tener conto delle tendenze speciali delle diverse frazioni della Camera.
Egli era inquieto. Si vedeva circondato da tante imboscate quante ne aveva tese. Gli stessi suoi collaboratori gli diventavano ostili.
Il conte Martin voleva che il nuovo ministero rispondesse alle aspirazioni dello spirito nuovo.
– La vostra lista è formata da personalità che differiscono essenzialmente d'origine e di tendenze – disse. – Ora, è il fatto più considerevole della storia politica di questi ultimi anni, la possibilità, direi la necessità, d'introdurre una unità di vedute nel governo della Repubblica. Sono delle idee, mio caro Garain, che voi stesso avete espresse con una rara eloquenza.
Il senatore Loyer faceva delle pallottoline di midolla di pane. Antico frequentatore delle birrerie, trovava le sue idee sbriciolando della mollica e tagliando dei tappi. Alzò la sua faccia piena di bollicine, dalla quale pendeva una barba sporca. E, guardando Garain con degli occhi socchiusi in cui brillavano delle fiammelle rosse:
– Io l'ho detto e non m'hanno voluto credere. L'annientamento della Destra monarchica è stato per i capi del partito repubblicano una disgrazia irreparabile. Si governava contro di lei. Il vero appoggio d'un governo è l'opposizione. L'Impero ha governato contro gli orleanisti e contro noi; il Sedici Maggio ha governato contro i repubblicani. Più fortunati, noi abbiamo governato contro la Destra. La Destra, che buona opposizione era mai; minacciosa, candida, impotente, vasta, onesta, impopolare! Bisognava conservarla, e non abbiamo saputo farlo. Eppoi, diciamolo pure, tutto si logora. Eppure, bisogna sempre governare contro qualche cosa. Oggi non ci sono più che i socialisti, per darci quell'appoggio che la Destra ci ha offerto per quindici anni, con una così costante generosità. Ma essi sono troppo deboli. Bisognerebbe rafforzarli, ingrossarli, farne un partito politico. Questo, nel momento in cui siamo, è il primo dovere di un ministro dell'interno.
Garain, che non era cinico, non rispose niente.
– Garain, non sapete ancora – chiese il conte Martin – se, insieme alla Presidenza, prenderete anche il portafoglio della Giustizia o degli Interni?
Garain rispose che la sua decisione dipendeva dalla scelta che farebbe N***, la cui presenza era necessaria nel gabinetto e che esitava ancora fra i due portafogli. Lui, Garain, sacrificava le sue convenienze personali ai superiori interessi.
Il senatore Loyer fece una smorfia tra la sua barba. Egli ambiva il portafoglio della Giustizia. Questo desiderio gli veniva da lontano. Professore di diritto sotto l'Impero, egli dava, davanti ai tavolini dei caffè, delle lezioni apprezzate. Aveva la scienza del cavillo. Avendo cominciato la sua fortuna politica con degli articoli sapientemente fatti per attirarsi dei processi e qualche settimana di prigione, dopo d'allora aveva considerato la stampa come un'arma d'opposizione, che ogni vero governo doveva spezzare. Dopo il 4 settembre 1870, sognava di diventare Guardasigilli, perchè si vedesse come il vecchio bohèmien, il prigioniero dei tempi di Badinguet, il professore di diritto che, un tempo, spiegava il codice facendo colazione con una zuppa di cavoli, sapesse mostrarsi capo supremo della magistratura.
Dozzine di sciocchi gli erano passati avanti. Invecchiato nei mediocri onori del Senato, mal dirozzato, legato ad una sgualdrina di birreria, povero, pigro, deluso, il suo vecchio spirito giacobino e il suo sincero disprezzo per il popolo, facevano ancora di lui un uomo di governo. Stavolta, entrato nella combinazione Garain, credeva di tener la Giustizia. E il suo protettore, che non gliela dava, diventava un rivale importuno. Sogghignò, occupato a modellare un cagnolino colla midolla di pane.
Berthier d'Eyzelles, calmissimo, molto grave, molto freddo, carezzò i suoi bei favoriti bianchi:
– Non pensate anche voi, signor Garain, che converrebbe far posto nel gabinetto agli uomini che hanno seguito, fin dalla prima ora, la politica verso la quale ci orientiamo oggi?
– Essi ci si sono perduti – replicò impazientito Garain. – Un uomo politico non deve precorrere gli avvenimenti. È un torto, aver ragione troppo presto. Non si conclude niente con dei pensatori. Eppoi, parliamoci franchi: se volete un ministero del centro destro, ditelo: io mi ritiro. Ma vi avverto che nè la Camera nè il paese saranno con voi.
– È evidente – disse il conte Martin – che bisogna assicurarsi una maggioranza.
– Colla mia lista, è fatta, la nostra maggioranza, – disse Garain. È la minoranza che ha sostenuto il ministero contro di noi, più i voti che gli abbiamo tolto. Signori, faccio appello alla vostra abnegazione.
E la distribuzione laboriosa dei portafogli cominciò. Il conte Martin ebbe prima i Lavori pubblici, che rifiutò, per mancanza di competenza, e poi il portafoglio degli Esteri, che accettò senza obiezioni.
Ma Berthier d'Eyzelles, a cui Garain offriva l'Agricoltura e Commercio, si riservò una risposta.
Leyer fu messo alle Colonie. Sembrava molto occupato a far stare in piedi sulla tovaglia il suo cagnolino di midolla di pane. Intanto, colla coda dell'occhio grinzoso guardava la contessa Martin, e la trovava desiderabile. Intravide vagamente il piacere di rivederla, per l'avvenire, con un poco d'intimità.
Lasciando Garain dibattersi, si occupava di questa bella donna, cercava d'indovinare i suoi gusti e le sue abitudini, le domandava se amava il teatro, se andava qualche volta, la sera, al caffè con suo marito. E Teresa cominciava a trovarlo più interessante degli altri, sotto la sua scorza ruvida, colla sua ignoranza del mondo, nel suo superbo cinismo.
Garain si alzò. Bisognava che vedesse ancora N... e N... e N..., prima di portare la sua lista al Presidente della Repubblica. Il conte Martin offerse la vettura, ma Garain aveva la sua.
– Non pensate – domandò il conte Martin – che il Presidente possa fare qualche obiezione su qualche nome?
– Il Presidente – rispose Garain – s'ispirerà alle necessità della situazione.
Aveva già passato la porta, quando tornò, battendosi la fronte:
– Abbiamo dimenticato il ministro della guerra!
– Lo troverete facilmente fra i generali – disse il conte Martin.
– Ah! – esclamò Garain – voi credete che la scelta di un ministro della guerra sia facile. Si vede bene che non avete fatto parte, come me, di tre gabinetti e presieduto il Consiglio. Nei miei ministeri, e durante la mia presidenza, le difficoltà più spinose sono sempre venute dal ministro della guerra. I generali sono tutti gli stessi. Quello che avevo scelto nel gabinetto che ho formato, lo conoscete. Lo abbiamo preso estraneo agli affari. Sapeva appena che c'erano due Camere. È stato necessario spiegargli tutti gli ingranaggi del meccanismo parlamentare; insegnargli che c'era una commissione dell'esercito, una commissione delle finanze, delle sotto-commissioni, dei relatori, una discussione del bilancio. Ha chiesto che gli si scrivessero tutte queste informazioni sopra un foglietto di carta. La sua ignoranza degli uomini e delle cose ci sgomentava... In capo a quindici giorni, conosceva i più sottili meandri del mestiere, conosceva personalmente tutti i senatori e tutti i deputati, e complottava con loro contro di noi. Senza l'aiuto del presidente Grévy, che diffidava dei militari, ci avrebbe rovesciati. Ed era un generale qualunque, un generale come gli altri. Ah! no, non crediate che il portafoglio della Guerra possa essere dato a caso, senza riflessione...
E Garain, ricordandosi il suo antico collegio del boulevard Saint-Germain, fremeva ancora. Uscì.
Teresa si alzò. Il senatore Leyer le offerse il braccio col bel garbo compito che aveva imparato quarant'anni prima a Bullier. Essa lasciò gli uomini politici nel salotto: aveva premura di ritrovare Dechartre.
Dei chiarori rossastri coprivano la Senna, le rive di pietra e i platani dorati. Teresa, uscendo di casa, gustò deliziosamente la saporosa asprezza dell'aria e lo splendore morente del giorno. Dopo il suo ritorno a Parigi, felice, si rallegrava tutte le mattine della novità del tempo. Le sembrava che fosse per lei, che il vento soffiava negli alberi schiomati e che il grigio sottile della pioggia bagnasse l'orizzonte dei viali, e che il sole trascinasse nel cielo umido il suo disco raffreddato; per lei, e perchè ella potesse dire, entrando nella piccola casa delle Ternes: «Tira vento, piove, il tempo è piacevole», mettendo così l'oceano delle cose nell'intimità del suo amore. E tutti i giorni sorgevano belli per lei, poichè la riconducevano tutti fra le braccia del suo amico.
Mentre andava, quel giorno come al solito, alla casetta delle Ternes, pensava alla sua felicità inaspettata, così piena e di cui si sentiva finalmente sicura. Camminava in quell'ultima gloria del sole già tòcco dall'inverno, e diceva fra sè:
– Egli mi ama, credo che mi ami veramente. Per lui, amare è più facile e più naturale che per gli altri uomini. Essi hanno, nella vita, delle idee superiori a loro, una fede, delle abitudini, degli interessi. Credono in Dio o a dei doveri, o a se stessi. Egli non crede che in me. Io sono il suo Dio, il suo dovere e la sua vita.
Poi pensò:
– È anche vero che non ha bisogno di nessuno, nemmeno di me. Il suo pensiero è un mondo magnifico in cui potrebbe vivere comodamente. Ma io, io non posso vivere senza di lui. Che cosa diventerei, se non l'avessi più?
Si rassicurava per quel gusto vivo, per quell'abitudine affascinante ch'egli aveva preso di lei. Si ricordava che un giorno gli aveva detto – Tu non hai per me che un amore sensuale. Non me ne lamento, forse è il solo vero. – Egli le aveva risposto: – È anche il solo grande e il solo forte. Ha la sua misura e le sue armi; è pieno di senso e d'immagini; violento e misterioso; si attacca alla carne e all'anima della carne. Il resto non è che illusione e menzogna. – Era quasi tranquilla nella sua gioia. I sospetti, le inquietudini se n'erano andate come le nuvole d'un temporale d'estate. Il tempo più cattivo del loro amore, era stato quand'erano lontani uno dall'altra. Non bisogna mai lasciarsi, quando ci si ama.
All'angolo del viale Marceau e della via Galileo, indovinò, più che riconoscerla, un'ombra che l'aveva sfiorata, una forma dimenticata.
Credette, volle essersi ingannata. Colui che le era sembrato di vedere, non esisteva più, non era mai esistito. Era un fantasma visto nei limbi d'un mondo anteriore, nelle tenebre di una vita embrionale. E continuava a camminare, conservando per quell'incontro indeciso, un'impressione di freddo, di malessere vago, una stretta al cuore.
Mentre saliva il viale, vide sbucare verso di lei gli strilloni dei giornali che tenevano a braccia tese i giornali della sera, annunzianti a grossi caratteri il nuovo ministero.
Attraversò Piazza della Stella; i suoi passi seguivano l'impazienza del suo desiderio. Vedeva Giacomo attenderla ai piedi della scala, tra le figure nude di marmo e di bronzo, prenderla fra le braccia e portarla, già tramortita e fremente di baci, fino a quella camera piena di ombra e di delizie, in cui la dolcezza di vivere le faceva dimenticare la vita.
Ma, nella solitudine del viale Mac-Mahon, l'ombra già intravista all'angolo di via Galileo, si avvicinò, si drizzò vicino a lei con una nettezza banale e penosa.
Riconobbe Roberto Le Ménil, che, avendola seguita dopo il corso Debilly, la raggiungeva nel punto più tranquillo e sicuro.
Il suo aspetto, il suo atteggiamento lasciavano vedere quella limpidità d'anima che era piaciuta a Teresa in altri tempi. Il suo viso naturalmente duro, reso più scuro dal sole e dall'aria del mare, un po' dimagrito, calmissimo, nascondeva e lasciava trasparire una sofferenza profonda.
Essa rallentò il passo. Roberto camminò al suo fianco.
– Ho cercato di dimenticarvi. Dopo quel ch'era successo, era ben naturale, non è vero? Ho fatto di tutto. Certamente era meglio dimenticarvi. Ma non ho potuto. Allora, ho comprato un battello, ed ho navigato per sei mesi. Lo sapevate, forse?
Egli continuò:
– Rosebud, un grazioso yacht di ventiquattro tonnellate. Avevo sei uomini d'equipaggio. Manovravo con loro: era una distrazione.
Tacque. Teresa camminava lentamente, attristata, sopratutto annoiata. Era per lei una cosa assurda e penosa oltre ogni dire, ascoltare queste parole straniere.
Egli riprese:
– Quello che ho sofferto su quel battello, avrei vergogna a dirvelo.
Ella sentì che diceva la verità, e voltò la testa.
– Oh! vi perdono. Ho molto riflettuto, da solo. Ho passato dei giorni e delle notti disteso sul divano del «deck-house»; e rimuginavo sempre le stesse idee nella testa. Ho più riflettuto in questi sei mesi che in tutta la mia vita. Non ridete. Non c'è nulla più del dolore che allarghi lo spirito. Ho compreso che, se vi avevo perduta, la colpa era mia. Bisognava sapervi conservare. E, coricato bocconi, mentre Rosebud filava sul mare, mi dicevo: – Non ho saputo. Oh! se dovessi ricominciare! A forza di pensare e di soffrire, ho compreso; ho compreso che non ero entrato abbastanza nei vostri gusti e nelle vostre idee. Voi siete una donna superiore. Non me n'ero accorto, perchè non era per questo che vi amavo. Senza accorgermene, vi annoiavo, vi urtavo.
Teresa crollò il capo. Egli insistè:
– Sì! sì! Vi ho spesso urtata. Non rispettavo abbastanza la vostra delicatezza. Ci sono stati dei malintesi fra noi. Dipende dal fatto che non abbiamo lo stesso carattere. E poi, non ho saputo distrarvi. Non ho trovato i divertimenti ch'erano necessari; non v'ho procurato il genere di piaceri che convengono ad una donna intelligente come voi.
Così semplice e così sincero nei suoi rimpianti e nel suo dolore, ella lo trovava simpatico. Gli disse dolcemente:
– Amico mio, non ho avuto da lamentarmi di voi.
Egli riprese:
– Tutto quel che v'ho detto, è vero. L'ho compreso, da solo, al largo, nel mio battello. Ci ho passato delle ore che non augurerei al mio peggior nemico. Più di una volta m'è venuta l'idea di buttarmi in mare. Non l'ho fatto. È forse per i miei principii religiosi e i miei sentimenti di famiglia, o perchè non ne ho avuto il coraggio? Non lo so. Forse è perchè, anche da lontano, mi attaccavate alla vita. Ero attratto verso di voi, ed eccomi qua. Da due giorni vi seguo. Non ho voluto tornare a casa vostra non vi avrei trovata sola, non avrei potuto parlarvi. Eppoi avreste dovuto ricevermi per forza. M'è sembrato meglio parlarvi per la strada è ancora un'idea che ho avuto sul battello. Mi sono detto: – Per la strada, non m'ascolterà che se vuole, come quattro anni fa, nel parco di Joinville, vi ricordate, sotto le statue, vicino alla Corona.
E riprese con un profondo sospiro:
– Sì, come a Joinville, perchè tutto è da ricominciare. Sono due giorni che vi seguo. Ieri pioveva: siete uscita in vettura. Avrei potuto seguirvi, sapere dove andavate. Ne avevo vivo desiderio: non l'ho fatto. Non voglio fare quel che vi dispiacerebbe.
– Vi ringrazio. Sapevo bene che non avrei dovuto pentirmi della fiducia che avevo riposto in voi.
Allarmata, impaziente, nervosa, temendo quello ch'egli stava per dire, tentò di troncare il discorso e di sfuggire.
– Addio! avete tutta la vita dinanzi a voi. Siete felice. Sappiatelo dunque, e non tormentatevi per quel che non vale la pena.
Ma egli la fermò con uno sguardo. Il suo viso aveva preso quell'espressione violenta e risoluta ch'ella gli conosceva.
– Ho detto che avevo da parlarvi. Ascoltatemi un minuto.
Ella pensava a Giacomo, che già l'attendeva.
Dei rari passanti la guardavano e continuavano il loro cammino. Teresa si fermò sotto i rami neri d'un albero di Giudea, e attese, con della pietà e della paura nell'anima.
– Ecco: io vi perdono e dimentico tutto. Riprendetemi. Vi prometto di non dirvi mai una parola del passato.
Ella trasalì e lasciò apparire un movimento così naturale di sorpresa e di desolazione, che egli si fermò. Poi, dopo un momento di riflessione:
– Quello che vi propongo, non è una cosa ordinaria, lo so bene. Ma ho riflettuto, ho pensato a tutto. È la sola cosa possibile. Pensateci, Teresa, e non mi rispondete subito.
– Farei male ad ingannarvi. Io non posso, io non voglio fare quello che dite; e voi sapete perchè.
Una vettura passava lentamente vicino a loro. Fece segno al vetturino, che si fermò. Roberto la trattenne un momento ancora.
– Avevo previsto che mi direste questo. Ed è perciò che vi dico: Non mi rispondete subito.
Appena entrata nella vettura, gli diede uno sguardo d'addio. Fu per lui il momento doloroso: si ricordava il tempo in cui, quando bisognava separarsi, lo sguardo di quelle pupille d'un grigio adorabile, lo seguiva lungamente con riconoscenza fra le palpebre semichiuse, ch'egli aveva stancate. Roberto trattenne un singhiozzo nel petto, e mormorò con voce strozzata:
– Ascoltate: non posso vivere senza di voi; vi amo. È adesso, che vi amo. Prima, non lo sapevo.
E mentre ella dava, a caso, l'indirizzo di una modista; si allontanò colla sua andatura snella e viva, un po' traballante, questa volta.
Teresa conservava da quest'incontro un malessere e un'inquietudine. Poichè doveva rivederlo, avrebbe preferito trovarlo brutale come a Firenze.
All'angolo del viale, gridò vivamente al vetturino: