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Era un venerdì, all'Opera. Il sipario era calato sul laboratorio di Faust. Dalle profondità agitate dell'orchestra gli occhialetti si puntavano, e gli sguardi, sotto le luci perdute nel vuoto immenso, scrutavano la sala di porpora e d'oro. Gli scrigni cupi dei palchi chiudevano le teste scintillanti e le spalle nude delle donne. L'anfiteatro stendeva la sua lunga curva al disopra della platea, colla sua ghirlanda di diamanti, di fiori, di capigliature, di carni, di veli e di sete. Si riconoscevano nei palchi di proscenio l'ambasciatore d'Austria e la duchessa di Gladwin; nell'anfiteatro, Berta d'Isigny e Jane Tulle, illustratasi, il giorno prima, per il suicidio di un amante; nei palchetti, la signora Bérard de la Malle, cogli occhi bassi e le lunghe ciglia che ombreggiavano le sue guance pure; la principessa Seniavine, che, superba, nascondeva sotto il suo ventaglio degli sbadigli da pantera; la signora De Morlaine, fra due giovani donne, che iniziava alle eleganze dello spirito; la signora Meillan, assisa sui suoi trent'anni di bellezza sovrana, la signora Berthier d'Eyzelles, rigida sotto i suoi nastri color grigio ferro carichi di diamanti. La lieve eruzione del suo viso rialzava la dignità del suo atteggiamento. Essa era molto guardata. Si era saputo, al mattino, che dopo l'insuccesso della combinazione Garain, Berthier d'Eyzelles aveva accettato l'incarico di formare un ministero. Le trattative stavano per riuscire. I giornali pubblicavano delle liste col nome di Martin-Bellème alle Finanze. E gli occhialetti si voltavano inutilmente verso il palco ancora vuoto della contessa Martin.
Un immenso mormorio di voci empiva la sala. Nella terza fila dietro l'orchestra, il generale Larivière, in piedi, al suo solito posto, discorreva col generale Le Briche.
– Farò ben presto come te, mio vecchio camerata: andrò a piantare i miei cavoli in Turenna.
Era in una delle sue ore di malinconia, in cui il nulla gli appariva alla prossima fine della vita. Aveva lusingato Garain, e Garain trovandolo troppo intelligente, gli aveva preferito, come ministro della guerra, un generale d'artiglieria miope e chimerico. Almeno, Larivière provava il piacere di vedere Garain abbandonato, tradito dai suoi amici Berthier d'Eyzelles e Martin-Bellème. Ne rideva colle rughe dei suoi occhietti: la sua zampa d'oca si rallegrava stendendosi sul suo viso burbero. Rideva di profilo. Stanco d'una lunga vita di dissimulazione, si concesse ad un tratto la gioia e la bellezza d'esprimere il suo pensiero:
– Vedi, mio buon La Briche, ci fanno andare in bestia col loro esercito civile, che costa caro e non vale niente. Soltanto i piccoli eserciti di professione sono buoni. Era l'opinione di Napoleone, che se n'intendeva.
– È vero, è vero – sospirò il generale La Briche, commosso, colle lagrime agli occhi.
Montessuy, raggiungendo la sua poltrona, passò davanti a loro; Larivière gli tese la mano.
– Si dice che siate stato voi, Montessuy, a dare lo sgambetto a Garain. I miei complimenti.
Montessuy negò d'esercitare alcuna azione politica. Egli non era nè senatore, nè deputato, nemmeno consigliere generale dell'Oise. Ed esaminando la sala, disse:
– Guardate, Larivière; c'è in quel palco, a destra, una signora molto bella, bruna, con dei capelli che le scendono attaccati alle guance.
E prese il suo posto, tranquillo, gustando le realtà della potenza.
Frattanto, nel ridotto, nei corridoi, nella sala, i nomi dei nuovi ministri passavano di bocca in bocca, in mezzo ad una molle indifferenza: Presidenza del Consiglio e Interni, Berthier d'Eyzelles; Giustizia e Culti, Loyer; Finanze, Martin-Bellème. Si conoscevano tutti, fuorchè i titolari del Commercio, della Guerra e della Marina, che non erano ancora designati.
Il sipario s'era alzato sull'osteria del Dio Bacco. Gli studenti cantavano il loro secondo coro, quando la signora Martin apparve nel suo palco, coi capelli annodati sull'alto del capo; il suo vestito bianco aveva delle maniche come delle ali, e, sulla stoffa del corsetto, al seno sinistro, brillava un gran giglio di rubini.
Miss Bell si sedette vicino a lei, in veste Queen Ann di velluto verde. Fidanzata al principe Eusebio Albertinelli della Spina, era venuta a Parigi a ordinare il suo corredo.
Nel movimento e fra il rumore della festa:
– Darling – disse Miss Bell – voi avete lasciato a Firenze un amico che conserva preziosamente il fascino del vostro ricordo. È il professore Arrighi. Vi riserva la lode che è per lui la più bella: dice che siete una creatura musicale. E come il professor Arrighi non si ricorderebbe di voi, darling, quando i citisi del giardino non v'hanno dimenticata? I loro ramoscelli sfioriti si lagnano della vostra assenza. Oh! essi vi rimpiangono, darling.
– Dite loro – rispose Teresa – che ho riportato da Fiesole un ricordo di cui voglio vivere.
In fondo al palco, Martin-Bellème esprimeva a bassa voce le sue idee a Giuseppe Springer e a Duvicquet. Diceva: – La firma della Francia è la prima del mondo. – Diceva anche: – Ammortizzare con delle eccedenze, non con delle imposte. – E inclinava alla prudenza in materia finanziaria.
– Oh! darling, dirò ai citisi di Fiesole che li rimpiangete, e che tornerete presto a visitarli sulla loro collina. Ma ditemi un po': vedete a Parigi il signor Dechartre? Avrei molto piacere di vederlo. Mi è simpatico perchè ha un'anima elegante. Oh! darling, l'anima del signor Dechartre è piena di grazia e d'eleganza.
Teresa rispose che Dechartre si trovava senza dubbio in teatro e che non mancherebbe di venire a salutare Miss Bell.
La tela calò sul turbine colorito del valzer. I visitatori si affollavano nel corridoio: finanzieri, artisti, deputati, in un momento si riunirono nel piccolo salone attiguo alla galleria. Essi circondavano Martin-Bellème, mormorando delle congratulazioni, lanciandogli al di sopra delle teste dei gesti graziosi, e si affannavano per stringergli la mano. Giuseppe Schmoll, tossicoloso e gemente, cieco e sordo, si aprì un cammino nella loro massa disprezzata e giunse fino alla signora Martin. Le prese la mano, la coprì di soffi e di baci sonori.
– Si dice che vostro marito è nominato ministro. È vero?
Ella sapeva che si diceva, ma non credeva che la cosa fosse ancora sicura.
Del resto, suo marito era là: potevano domandarglielo.
Sensibile al significato letterale delle parole, Schmoll disse:
– Ah! vostro marito non è ancora ministro? Quando sarà nominato, vi chiederò un minuto di colloquio. Si tratta di un affare della più alta importanza.
Poi tacque, girando sotto i suoi occhiali d'oro quegli sguardi di cieco e di visionario che lo conservavano, malgrado la precisione brutale della sua natura, in una specie di misticismo. Domandò bruscamente:
– Siete andata in Italia, quest'anno, signora?
E, senza lasciarle il tempo di rispondere:
– Lo so, lo, so; siete andata a Roma. Avete guardato l'arco dell'infame Tito, quel marmo esecrabile in cui si vede il candelabro a sette bracci fra le spoglie degli Ebrei. Ebbene! ve lo dico, signora, è la vergogna dell'universo che quel monumento rimanga ancora in piedi, nella città di Roma, in cui i papi non hanno resistito che per l'arte degli Ebrei, finanzieri e cambiavalute. Gli Ebrei hanno portato in Italia la scienza della Grecia e dell'Oriente. La Rinascenza, signora, è opera d'Israele. Ecco la verità sconosciuta e sicura.
E uscì attraverso la folla dei visitatori, fra lo scricchiolìo sordo dei cappelli che schiacciava.
Frattanto, la principessa Seniavine, affacciata al suo palco, coll'occhialetto guardava la sua amica con quella curiosità che le produceva a lampi la bellezza delle donne. Fece segno a Paolo Vence, ch'era vicino a lei:
– Non vi sembra che la signora Martin sia straordinariamente bella, quest'anno?
Nel ridotto, vibrante di luce e d'oro, il generale La Briche chiedeva a Larivière:
– Sì, Roberto. Era nella sala poco fa.
La Briche restò un momento pensieroso. Poi:
– È venuto questa estate a Sémanville. L'ho, trovato bizzarro, taciturno. Un giovanotto simpatico, schietto come l'oro e intelligente. Ma avrebbe bisogno di un'occupazione, di uno scopo nella vita.
La suoneria che annunziava la fine dell'intermezzo s'era taciuta da un momento. Nel ridotto deserto, i due vecchi passeggiavano.
– Uno scopo nella vita – ripeteva La Briche, grande, magro e curvo, mentre il suo collega, alleggerito, ringiovanito, sfuggendo, raggiungeva l'entrata della scena.
Margherita, nel boschetto, filava e cantava. Quand'ebbe finito, Miss Bell disse alla signora Martin:
– Oh! darling, il signor Choulette m'ha scritto una lettera bellissima. Mi dice che era ormai celebre, e sono stata ben contenta di saperlo. Mi dice pure: «La gloria degli altri poeti riposa nella mirra e negli aromi; la mia sanguina e geme sotto una pioggia di pietre e di scaglie d'ostriche.» È proprio vero, my love, che i Francesi lapidano il buon Choulette?
Mentre Teresa rassicurava Miss Bell, Loyer, imperioso, si fece aprire il palco.
– Vengo dall'Eliseo.
Ebbe la galanteria d'annunziare subito alla signora Martin la notizia.
– I decreti sono firmati. Vostro marito ha le Finanze; è un bel portafoglio.
– Il Presidente della Repubblica – chiese Martin-Bellème – non ha fatto obiezioni quando è stato pronunziato il mio nome?
– No. Berthier ha elogiato al Presidente la probità ereditaria dei Martin, la vostra condizione sociale, e sopratutto i legami che vi attaccano a certe personalità del mondo finanziario, il cui concorso può essere utile al governo. E il Presidente, secondo la felice espressione di Garain, s'è ispirato alle necessità della situazione. Ha firmato.
Sulla faccia ingiallita del conte Martin apparvero due o tre rughe: egli sorrideva.
– Il decreto – riprese Loyer – comparirà domani nella «Gazzetta Ufficiale». Ho accompagnato io stesso in vettura l'addetto al gabinetto che lo portava in tipografia. È più sicura: al tempo di Grévy, che pure non era una bestia, si intercettavano i decreti nel tragitto dall'Eliseo al Quai Voltaire.
E Loyer si buttò sopra una seggiola. Là, gustando cogli occhi e colle narici le spalle della signora Martin:
– Non si dirà più, come al tempo del mio povero amico Gambetta, che la Repubblica manca di donne. Voi ci darete delle belle feste, signora, nei saloni del ministero.
Margherita, guardandosi nello specchio, colla sua collana e i suoi orecchini, cantava l'aria dei gioielli.
– Bisognerà – disse il conte Martin – redigere la dichiarazione. Ci ho pensato. Per quel che riguarda il mio dicastero, ho trovato, credo, la formula: «Ammortizzare con delle eccedenze, non con delle imposte».
– Mio caro Martin, noi non abbiamo niente d'essenziale da cambiare alla dichiarazione del precedente gabinetto: la situazione è rimasta sensibilmente la stessa.
– Perbacco! dimenticavo. Abbiamo messo alla Guerra il vostro amico, il vecchio Larivière, senza consultarlo. Sono incaricato di avvertirlo.
Pensava di trovarlo nel caffè del Boulevard dove vanno i militari. Ma il conte Martin sapeva che il generale si trovava in teatro.
– Bisogna non lasciarlo sfuggire – disse Loyer.
E salutando:
– Permettete, contessa, che conduca vostro marito?
Erano appena usciti, quando Giacomo Dechartre e Paolo Vence entrarono nel palco.
– Mi congratulo, signora – disse Paolo Vence.
Ma ella si voltò verso Dechartre:
– Spero che non verrete a congratularvi, voi...
Paolo Vence le domandò se sarebbe andata ad alloggiare negli appartamenti del ministero.
– Ah! no davvero!
– Almeno, signora – riprese Paolo Vence – andrete ai balli dell'Eliseo e dei ministeri; e noi ammireremo con quale arte vi conserverete il vostro fascino misterioso, come vi rimarrete ancora quella di cui si sogna.
– I cambiamenti di ministeri – disse la signora Martin – vi ispirano, signor Vence, delle riflessioni ben frivole.
– Signora – riprese Paolo Vence – io non dirò, come Renan, mio ben amato maestro: «Che cosa importa, questo, a Sirio?» perchè con ragione mi si potrebbe rispondere: «Che importa il grande Sirio alla piccola Terra?» Ma io sono sempre un po' sorpreso nel vedere delle persone adulte ed anche vecchie lasciarsi conquistare dall'illusione del potere, come se la fame, l'amore e la morte, tutte le necessità ignobili o sublimi della vita, non esercitassero sulla folla degli uomini un impero troppo sovrano per lasciare ai padroni di carne altra cosa che una potenza di carta ed un impero di parole. E, quello ch'è più meraviglioso ancora, si è che i popoli credano pure d'avere altri capi di Stato ed altri ministri oltre alle loro miserie, i loro desideri e la loro imbecillità. Era un saggio, chi ha scritto: «Diamo agli uomini per testimoni e per giudici l'Ironia e la Pietà.»
– Ma siete voi, signor Vence, – disse ridendo la contessa Martin – che avete scritto questo. Io vi leggo.
Frattanto i due ministri cercavano invano il generale nella sala e nei corridoi. Per consiglio delle attrici, passarono tra le quinte, e, attraverso le decorazioni che si alzavano e si abbassavano, nella folla delle giovani Tedesche in gonnella rossa, delle streghe, dei demoni, delle cortigiane antiche, raggiunsero il ridotto del ballo. La vasta sala, ornata di pitture allegoriche, quasi deserta, aveva quell'aria di gravità che danno alle loro istituzioni lo Stato e la ricchezza.
Due ballerine stavano immobili, con un piede sulla sbarra che corre lungo i muri. Qua e là degli uomini in abito nero e delle donne in sottana corta e sbuffante formavano dei gruppi silenziosi.
Loyer e Martin Bellème, entrando, si levarono il cappello. Essi scorsero, in fondo alla sala, Larivière con una bella ragazza, la cui tunica rossa, stretta da una cintura d'oro, era aperta ai fianchi sulla maglia.
Essa teneva in mano una coppa di cartone dorato. Avvicinandosi, sentirono che diceva al generale:
– Siete vecchio, voi, ma sono sicura che ne fate almeno quanto lui.
E mostrava sdegnosamente col suo braccio nudo un giovanotto che, vicino a loro, con una gardenia all'occhiello, sogghignava.
Loyer fece segno al generale che voleva parlargli; e, spingendolo contro la sbarra:
– Ho il piacere d'annunziarvi che siete stato nominato ministro della Guerra.
Larivière, diffidente, non rispose nulla. Quell'uomo mal vestito, dai capelli lunghi, che, nel suo abito ondeggiante e polveroso, somigliava ad un prestigiatore da piazza, gli ispirava così poca fiducia, che sospettava un tranello, fors'anche uno scherzo di cattivo genere.
– Il signor Loyer, guardasigilli – disse il conte Martin.
– Generale, non potete rifiutarvi. Ho risposto della vostra accettazione. Esitando, favorireste un ritorno offensivo di Garain. Egli è un traditore.
– Mio caro collega, esagerate – disse il conte Martin. – Ma Garain manca forse un poco di franchezza. E l'adesione del generale è urgente.
– La patria prima di tutto – rispose Larivière balbettando per l'emozione.
– Voi sapete, generale: – riprese Loyer – le leggi esistenti vanno applicate con un'inflessibile moderazione: tenetevi a questa regola.
Fissava collo sguardo le due ballerine che allungavano sulla sbarra la loro gamba muscolosa.
– Il morale dell'esercito è eccellente... La buona volontà dei capi all'altezza delle circostanze più critiche...
– Mio caro collega, i grandi eserciti hanno del buono.
– Sono del vostro parere, – rispose Larivière – l'esercito attuale risponde alle necessità superiori della difesa nazionale.
– I grandi eserciti hanno questo di buono – riprese Loyer – che rendono la guerra impossibile. Bisognerebbe essere pazzo per impegnare in una guerra queste forze smisurate, il cui impiego sorpassa ogni facoltà umana. Non siete di questo parere, generale?
Il generale Larivière strizzò l'occhio.
– La situazione – disse – esige una grande circospezione. Ci troviamo di fronte ad una temibile incognita.
Allora Loyer, guardando il suo collega della Guerra con un dolce disprezzo:
– Nel caso molto improbabile d'una guerra, non pensate, mio caro collega, che i veri generali sarebbero i capistazione?
I tre ministri uscirono dalla scala dell'amministrazione. Il Presidente del Consiglio li aspettava a casa sua.
L'ultimo atto cominciava; la signora Martin non aveva più nel suo palco che Dechartre con Miss Bell. Miss Bell diceva:
– Sono rallegrata, darling – come dite voi in francese? – sono esaltata pensando che portate sul cuore il giglio rosso di Firenze. E il signor Dechartre, che ha un'anima artistica, dev'essere anch'egli ben contento di vedere sul vostro corsetto quel gentile gioiello. Oh! vorrei conoscere il gioielliere che l'ha fatto, darling. Questo giglio è svelto e flessuoso come un fior di giaggiolo. Oh! è elegante, magnifico e crudele. Avete notato, my love, che i bei gioielli hanno un'aria di magnifica crudeltà?
– Il mio gioielliere – disse Teresa – è qui, e voi l'avete nominato: è il signor Dechartre che ha voluto gentilmente disegnare questo gioiello.
Il palco si aprì. Teresa voltò a metà il capo e vide nell'ombra Le Ménil, che la salutava.
– Signora, vi prego di porgere le mie congratulazioni a vostro marito.
La complimentò un po' seccamente sul suo florido aspetto. Ebbe per Miss Bell alcune parole cortesi e corrette.
Teresa lo ascoltava, ansiosa, colla bocca semiaperta, nello sforzo doloroso di rispondere delle cose insignificanti. Le domandò se aveva passato una buona stagione a Joinville. Anch'egli avrebbe voluto andarci nel momento della caccia, ma non aveva potuto. Aveva navigato sul Mediterraneo; poi, era stato a caccia a Sémanville.
– Oh! signor Le Ménil, – disse Miss Bell – voi avete vagato sul mare azzurro. Avete visto delle sirene?
No, non aveva incontrato delle sirene; ma, per tre giorni, un delfino aveva navigato nelle acque dello yacht.
Miss Bell gli domandò se questo delfino amava la musica.
Egli non lo credeva.
– I delfini – disse – sono semplicemente dei piccoli cetacei che i marinai chiamano oche di mare, per una certa somiglianza nella forma della testa.
Ma Miss Bell non voleva credere che il mostro il quale portò il poeta Arione al promontorio di Tenaro avesse una testa d'oca.
– Signor Le Ménil, se, l'anno prossimo, un delfino viene ancora a navigare intorno al vostro battello, ve ne prego, suonate per lui, sul flauto, l'inno ad Apollo delfico. Amate il mare, signor Le Ménil?
– Preferisco i boschi.
Padrone di sè, semplicissimo, parlava con tranquillità.
– Oh! signor Le Ménil, so che amate molto i boschi e le radure dove i leprotti ballano al chiaro di luna.
Dechartre, pallido, si alzò ed uscì.
Si rappresentava la scena della chiesa. Margherita, inginocchiata, si torceva le mani, colla testa gravata dal peso delle lunghe trecce bionde. E le voci dell'organo e del coro fecero udire il canto dei morti:
Quando di Dio il dì verrà,
In ciel la croce risplenderà,
E l'universo rovinerà.
– Oh! darling, sapete che questa nenia dei morti che si canta nelle chiese cattoliche proviene da un eremo francescano? Essa conserva il rumore del vento che soffia, d'inverno, tra i larici, sulla cima della Verna.
Teresa non sentiva. La sua anima s'era dileguata per la piccola porta del palco.
Si udì un rumore di poltrone rovesciate: Schmoll ritornava. Aveva saputo che Martin-Belléme era nominato ministro. Egli reclamava subito la croce di commendatore e un appartamento più vasto all'Istituto. Il suo era oscuro, stretto, insufficente per sua moglie e le sue cinque figlie. Aveva dovuto mettere il suo gabinetto di lavoro in una soffitta. Si prodigò in lunghe lamentazioni, e non accondiscese a partire che dopo aver ricevuto l'assicurazione che la signora Martin parlerebbe per lui.
– Signor Le Ménil – chiese Miss Bell – tornerete a navigare l'anno venturo?
Le Ménil pensava di no: non aveva intenzione di tenere Rosebud. Il mare era triste.
E calmo, energico, ostinato, guardò Teresa.
Sulla scena, nella prigione di Margherita, Mefistofele cantava: «Spuntato è il dì», e l'orchestra imitava il galoppo pauroso dei cavalli.
– Ho mal di testa; qui si soffoca.
Le Ménil andò a socchiudere la porta.
La frase chiara di Margherita, invocante gli angeli, salì in bianche scintille per l'aria.
– Darling, vi dirò: quella povera Margherita non vuol essere salvata secondo la carne e, per questo, è salvata in spirito e in verità. Credo una cosa, darling, credo fermamente che saremo tutti salvati. Oh! sì, credo alla purificazione finale dei peccatori.
Teresa si alzò, sottile e bianca, col fiore di sangue da un lato. Miss Bell, immobile, ascoltava la musica. Le Ménil, nel salotto, prese il mantello della signora Martin. E, mentre lo teneva spiegato, essa attraversò il palco, il salotto, e si fermò davanti allo specchio vicino alla porta socchiusa. Egli posò sulle spalle nude, sfiorandole colle dita, la grande cappa di velluto rosso ricamato d'oro e foderato d'ermellino, e disse piano, con voce breve, chiarissima:
– Teresa, vi amo. Ricordatevi di quello che v'ho chiesto ieri l'altro. Sarò tutti i giorni, tutti i giorni dopo le tre, nel nostro appartamentino, in via Spontini.
In quel momento, mentre essa faceva un movimento del collo per aggiustare il mantello, vide Dechartre, colla mano sulla maniglia della porta. Egli aveva udito. La guardò con tutto quello che degli occhi umani possono contenere di rimproveri e di dolore. Poi s'allontanò nell'ombra del corridoio. Ella sentì dei martelli di fuoco batterle in petto e rimase immobile sulla soglia.
– M'aspettavi? – le chiese Montessuy che veniva a prenderla. – Oggi ti lasciano proprio sola. Vi accompagnerò io, tu e Miss Bell.