Anatole France
Il giglio rosso

XXXIII.

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               XXXIII.

Nella vettura, nella sua camera, Teresa rivedeva quello sguardo del suo amico, quello sguardo crudele e doloroso. Conosceva quella sua facilità alla disperazione, quella pronta volontà di non volere più. L'aveva visto fuggire così sulla riva dell'Arno. Felice allora, nella sua tristezza e nella sua angoscia, aveva potuto correre a lui e gridargli: «Venite!» Stavolta ancora, circondata, sorvegliata, avrebbe dovuto trovare, dire qualcosa, non lasciarlo partire muto e desolato. Era rimasta sorpresa, accasciata. L'accidente era stato così assurdo e così rapido! Si sentiva troppo lontana da Le Ménil per perseguitarlo colla sua collera, e lo scartava dal suo pensiero. È a se stessa che faceva dei rimproveri amari per aver lasciato partire il suo amico, senza una parola, senza uno sguardo in cui avesse messo la sua anima.

Mentre Paolina attendeva per spogliarla, ella andava e veniva in preda all'impazienza. Poi si fermava bruscamente. Negli specchi oscuri in cui sfumavano i riflessi delle candele, rivedeva il corridoio del teatro e il suo amico che la fuggiva senza ritorno.

Dov'era adesso? Che si diceva, da solo? Era per lei un supplizio, non poterlo raggiungere, rivederlo, subito.

Appoggiò a lungo le mani sul suo cuore: soffocava.

Paolina lanciò un piccolo grido. Vedeva sul corsetto bianco della padrona delle gocce di sangue, Teresa, senza accorgersene, s'era lacerata la mano ai fermagli del giglio rosso.

Staccò il gioiello simbolico, che aveva portato davanti a tutti come il segreto sfolgorante del suo cuore, e, tenendolo fra le dita, lo contemplò a lungo. Allora rivide i giorni di Firenze, la cella di San Marco, in cui il bacio del suo amico venne a posarsi dolcemente sulla sua bocca, mentre attraverso le ciglia abbassate ella scorgeva ancora vagamente gli angeli e il cielo azzurro dipinti sul muro, la Loggia dei Lanzi, e la fontana luminosa del gelatiere sulla tovaglia di cotonina rossa; il padiglione di Via Alfieri, le sue ninfe, le sue capre, e la camera in cui i pastori e le maschere dei paraventi sentivano i suoi gridi ed i suoi lunghi silenzi.

No, tutto questo, non erano le ombre del passato, i fantasmi delle ore antiche: era la realtà presente del suo amore. E una parola gettata stupidamente da uno distruggerebbe queste belle cose! Fortunatamente, non era possibile. Il suo amore, il suo amante, non dipendevano da una simile miseria. Se soltanto avesse potuto correr da lui, com'era , mezzo svestita, nella notte, entrare nella sua camera... Lo troverebbe davanti al fuoco, coi gomiti sulle ginocchia, la testa fra le mani, triste. Allora, colle dita nei capelli del suo amico, lo costringerebbe a rialzar la testa, a vedere che lo amava, che era la cosa sua, il suo tesoro vivente di gioia e d'amore.

Aveva rimandato la sua cameriera. Nel suo letto, colla lampada accesa, rimuginava una sola idea nel suo spirito.

Si trattava di un accidente, un assurdo accidente. Egli lo comprenderebbe bene, che il loro amore non aveva niente a che vedere con questa cosa bestiale. Quale follìa! lui, inquietarsi per un altro! Come se vi fossero al mondo degli altri uomini!

Il signor Martin-Bellème socchiuse la porta della camera. Vedendo la luce accesa, entrò.

– Non dormite, Teresa?

Veniva da conferire coi suoi colleghi in casa di Berthier d'Eyzelles. Voleva domandare consiglio, su certi punti a sua moglie, che sapeva intelligente. Sopratutto aveva bisogno di sentire delle parole sincere.

– È fatto, – disse. – Voi m'aiuterete, mia cara amica, ne sono sicuro, in una posizione molto invidiata, ma difficilissima ed anche pericolosa, che in parte devo a voi, perchè vi sono stato condotto sopratutto per l'influenza potente di vostro padre.

La consultò sulla scelta d'un capo gabinetto.

Essa lo consigliò del suo meglio. Lo trovava sensato, calmo, e non più sciocco degli altri.

Egli si sprofondò in riflessioni:

– Bisogna che io difenda davanti al Senato il bilancio com'è stato votato dalla Camera. Questo bilancio contiene delle innovazioni che non approvavo. Deputato, le ho combattute; ministro, le voterò. Guardavo le cose dal di fuori, viste dal di dentro, cambiano aspetto. Eppoi, non sono più libero.

Sospirò:

– Ah! se si sapesse quanto poco possiamo, quando si è al potere!

Le comunicò le sue impressioni. Berthier era riservato, gli altri restavano impenetrabili. Soltanto Loyer si mostrava eccessivamente autoritario.

Essa lo ascoltava senza attenzione e senza impazienza. Quel viso e quella voce scialba segnavano per lei, come un orologio, i minuti che passavano uno ad uno, lentamente.

– Ha avuto delle uscite bizzarre, Loyer. Nel momento in cui si dichiarava strettamente concordatario: «I vescovi – ha detto – sono dei prefetti spirituali. Io li proteggerò, poichè dipendono da me. E per mezzo loro terrò le guardie campestri delle anime: i curati

Le ricordò che dovrebbe andare in un mondo che non era il suo, e che senza dubbio la urterebbe colla sua volgarità. Ma la loro situazione esigeva che non disprezzassero nessuno: del resto, contava sul suo tatto e sulla sua abnegazione. Essa lo guardò, un po' sgomenta.

– Non c'è fretta, amico mio. Vedremo più tardi...

Egli era stanco, affranto. Le augurò la buona notte, la consigliò di dormire: si rovinerebbe la salute a leggere così tutta la notte. E la lasciò.

Teresa intese il rumore dei suoi passi, un po' più pesanti del solito, mentre attraversava il gabinetto da lavoro, ingombro di libri azzurri e di giornali, per raggiungere la sua camera dove dormirebbe, forse. Poi sentì pesare sopra di lei il silenzio della notte. Guardò l'orologio: era l'una e mezzo.

Disse dentro di : «Anche lui soffre... M'ha guardata con tanta disperazione e tanta collera

Essa conservava tutto il suo coraggio e tutto il suo ardore. Quello che l'angustiava, era di sentirsi , prigioniera, e quasi segregata. Libera quando verrebbe giorno, andrebbe, lo vedrebbe, gli spiegherebbe tutto. Era così chiaro! Nella monotonia dolorosa del suo pensiero, ascoltava il rumore dei carretti che, a lunghi intervalli, passavano per la strada. Quel rumore, che le interrompeva le ore, l'occupava, quasi la interessava. Tendeva l'orecchio al rumore dapprima debole e lontano, poi ingrandito e in cui si distinguevano il fragore delle ruote, lo stridore delle assi, l'urto degli zoccoli ferrati, e che, diminuendo a poco a poco, finiva in un impercettibile mormorio.

E, quando tornava il silenzio, ricadeva nella sua idea.

Egli comprenderebbe che lo amava, che non aveva mai amato che lui. La disgrazia, era che la notte fosse così lenta a passare. Non osava guardare l'orologio, per paura di vedervi l'accasciante immobilità del tempo.

Si alzò, andò alla finestra e sollevò le tendine. Una luce pallida si spandeva nel cielo nuvoloso. Credette che fosse il giorno che cominciava a spuntare. Guardò l'orologio: erano le tre e mezzo.

Tornò alla finestra. L'infinito cupo del di fuori l'attirava. Guardò: il marciapiede luceva sotto i lampioni a gas. Una pioggia invisibile e muta cadeva dal cielo livido. Ad un tratto, una voce salì nel silenzio; acuta e poi: grave, a sbalzi, che sembrava fatta di diverse voci che si rispondevano. Era un ubriaco che, camminando sul marciapiede e urtando contro gli alberi, impegnava una lunga disputa cogli esseri del suo sogno ai quali dava generosamente la parola, e che investiva poi con dei grandi gesti e delle parole imperiose. Teresa vedeva, lungo il parapetto, il povero uomo ondeggiare, nel suo camiciotto bianco, come uno straccio nel vento della notte, e sentiva ogni tanto delle parole che le giungevano come un ritornello «Ecco quello che gli dico io, al governo

Presa dal freddo, tornò a letto. Un'angoscia la afferrò. Pensò: «Egli è geloso, pazzamente. È una questione di nervi e di sangue. Ma anche il suo amore è fatto di sangue e di nervi: il suo amore e la sua gelosia sono una stessa cosa. Un altro comprenderebbe: basterebbe soddisfare il suo amor proprio.» Ma lui, era geloso con una mostruosa sensualità. Lo sapeva, che in lui la gelosia era una tortura fisica, una piaga sanguinante, irritata da tutte le tanaglie della fantasia. Sapeva quanto il male fosse profondo. L'aveva visto impallidire davanti al San Marco di bronzo, quando aveva gettato una lettera nella cassetta, nel muro della vecchia casa fiorentina, quando non la possedeva che col desiderio e il sogno.

Si ricordava i suoi lamenti soffocati, le sue brusche tristezze, più tardi, dopo i lunghi baci, e il mistero doloroso delle parole che ripeteva sempre: «Bisogna che ti dimentichi in te.» Ricordava la lettera di Dinard, e quella disperazione furiosa per una parola intesa alla tavola d'una trattoria. Sentiva che il colpo era stato portato a caso nel punto sensibile, nella piaga sanguinante. Ma non si perdeva di coraggio. Direbbe tutto, confesserebbe tutto, e tutte le sue confessioni griderebbero: «T'amo, non ho ma amato che te!» Non lo aveva tradito, non aveva niente da dirgli che già non avesse indovinato. Aveva mentito così poco, il meno possibile, e soltanto per non dargli dolore. Come non comprenderebbe? Era meglio che sapesse tutto, poichè questo tutto era niente. Essa ruminava sempre le stesse idee, si ripeteva le stesse parole.

La lampada non mandava più che una luce fumosa. Accese delle candele. Erano le sei e mezzo. Si accorse di aver sonnecchiato. Corse alla finestra: il cielo era nero e confuso colla terra in un caos di tenebre dense. Allora, le venne la curiosità di sapere esattamente a che ora si levava il sole. Non ne aveva nessuna idea: pensava soltanto che le notti erano lunghissime in dicembre. Cercò di ricordarsi, ma non vi riuscì. Non pensò a guardare il calendario dimenticato sulla tavola. Il passo pesante degli operai che passavano a squadre, il rumore delle vetture dei lattivendoli e degli ortolani colpirono il suo orecchio come suoni di buon augurio. Trasalì a quel primo risveglio della città.

              


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