Anatole France
Il giglio rosso

XXXIV.

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               XXXIV.

Alle nove, nel cortile della piccola casa, Teresa trovò Fusellier che spazzava sotto la pioggia, fumando la pipa. La signora Fusellier uscì dal casotto. Avevano entrambi un aspetto imbarazzato. Fu la signora Fusellier la prima a parlare:

– Il signor Giacomo non è in casa.

E, poiché Teresa restava silenziosa e immobile, Fusellier si avvicinò, colla sua scopa, nascondendo nella mano sinistra la pipa dietro la schiena:

– Il signor Giacomo non è ancora tornato.

– Lo aspetteròdisse Teresa.

La signora Fusellier la condusse nel salotto, dove accese il fuoco. E, poichè la legna fumava e non si accendeva, restava chinata, colle mani sopra le cosce.

– È la pioggiadisse – che manda indietro il fumo.

La signora Martin mormorò che non valeva la pena di accendere il fuoco, perchè non aveva freddo.

Si vide in uno specchio.

Era livida, con delle chiazze ardenti sulle guance. Allora soltanto sentì che aveva i piedi gelati. Si avvicinò al fuoco. La signora Fusellier, vedendola inquieta, cercò una buona parola:

– Il signor Giacomo non tarderà a tornare. Intanto, signora, scaldatevi.

Una luce triste scendeva colla pioggia sul soffitto a invetriata. Lungo i muri, la Dama del liocorno, col gesto rigido e la carne sbiadita, non sembrava più bella fra i cavalieri, nella foresta piena di fiori e d'uccelli. Teresa ripeteva queste parole: «Non è tornato.» E, a forza di ripeterle, ne perdeva il senso. Cogli occhi che le bruciavano, guardava la porta.

Rimase così, senza movimento, senza pensiero, per un tempo di cui non sapeva la durata: forse mezz'ora. Un rumore di passi s'avvicinò; la porta si aprì.

Egli entrò. Vide che era inzuppato di pioggia e di fango, arso dalla febbre.

Teresa fissò su lui uno sguardo così sincero e così franco, ch'egli ne fu colpito. Ma, quasi subito, richiamò dal suo intimo tutta la sua sofferenza.

Le disse:

– Che cosa volete ancora da me? M'avete fatto tutto il male che potevate farmi.

La stanchezza gli dava un'aria di dolcezza. Ella ne fu sgomenta.

Giacomo, ascoltami...

Le fece segno che non aveva niente da sapere da lei.

Giacomo, ascoltami. Non t'ho ingannato. Oh! no, non t'ho, ingannato. Era forse possibile? Forse che...

Egli l'interruppe:

– Abbiate pietà di me. Non fatemi più soffrire. Lasciatemi, ve ne supplico. Se sapeste la notte che ho passato, non avreste il coraggio di tormentarmi ancora.

Si lasciò cadere sopra il divano in cui, sei mesi prima, le aveva dato dei baci sotto la veletta.

Aveva camminato tutta la notte, a caso, risalito la Senna, fino a trovarla fiancheggiata di salici e di pioppi. Per non soffrire troppo, aveva immaginato delle distrazioni. Sul Quai di Bercy, aveva guardato la luna correre fra le nuvole. Per un'ora l'aveva vista velarsi e riapparire. Poi s'era messo a contare le finestre delle case, con una cura minuziosa. La pioggia era cominciata a cadere. Era andato al Mercato, aveva bevuto dell'acquavite in una bettola. Una ragazza molto grossa, un po' strabica, gli aveva detto: «Non hai l'aria contenta.» Si era assopito sulla panchina di cuoio. Era stato un buon momento.

Le immagini di quella notte dolorosa si riflettevano nei suoi occhi. Disse:

– Mi sono ricordato la notte dell'Arno. Voi m'avete distrutto tutta la gioia e tutta la bellezza del mondo.

La supplicò di lasciarlo solo. Nella sua stanchezza provava una grande pietà di se stesso. Avrebbe voluto dormire; non morire: la morte gli faceva orrore. Ma dormire e non svegliarsi più. Intanto la vedeva davanti a , tanto desiderata e pur desiderabile come sempre nel turbamento del suo colore e malgrado la penosa immobilità dei suoi occhi asciutti. E incerta adesso, più misteriosa che mai. La vedeva. Il suo odio si rianimava insieme alla sua sofferenza. Con uno sguardo cattivo, cercava su lei il ricordo delle carezze ch'egli non le aveva date.

Teresa gli tese le braccia.

Ascoltami, Giacomo.

Le fece segno che era inutile che parlasse. Eppure, aveva desiderio di sentirla e già l'ascoltava avidamente. Quello che avrebbe detto, lo detestava e lo respingeva in anticipo, ma era tutto quel che l'interessava al mondo. Teresa disse:

– Hai potuto credere che ti tradissi, che non vivessi in te solo e di te solo. Ma dunque non comprendi nulla? Non vedi che, se quell'uomo fosse il mio amante, non avrebbe avuto bisogno di parlarmi a teatro, in quel palco; avrebbe avuto mille altri mezzi per darmi un appuntamento. Oh! no, amico mio, ti assicuro proprio che dopo che ho la felicità – ancora oggi, desolata, torturata, dico la felicità – di conoscerti, sono stata tutta tua. Avrei forse potuto essere di un altro? È mostruoso, quello che immagini. Ma io t'amo, t'amo! Non amo che te. Non ho mai amato che te.

Egli rispose lentamente, con un sarcasmo crudele:

– «Sarò tutti i giorni, dopo le tre, nel nostro appartamentino, in via Spontini.» Non è un amante, il vostro amante che vi diceva questo? No? Era uno straniero, uno sconosciuto...

Ella si alzò in piedi, e, con una gravità dolorosa:

– Sì, sono stata sua. Lo sapevi bene. Lo avevo negato, avevo mentito, per non affliggerti, per non irritarti. Ti vedevo inquieto, ombroso. Ma avevo mentito così poco e così male! Tu lo sapevi: non rimproverarmelo. Lo sapevi, m'hai parlato spesso del passato, e poi t'han detto un giorno al ristorante... E tu t'immaginavi ancor più di quello che fosse. Mentendo, non t'ho ingannato. Se tu sapessi quanto poco contava nella mia vita! Ecco! non ti conoscevo: non sapevo che tu dovevi venire. Mi annoiavo.

Si gettò in ginocchio:

– Ho avuto torto. Bisognava attenderti. Ma se tu sapessi a che punto tutto ciò non esiste più, non è mai esistito...

E la sua voce, modulando un lamento dolce e canoro, disse:

Perchè non sei venuto prima? Perchè?

Si trascinò fino a lui, volle afferrargli le mani, i ginocchi. Egli la respinse.

– Ero stupido. Non credevo, non sapevo: non volevo sapere.

Si alzò e, con uno scoppio d'odio:

– Non volevo, non volevo che fosse quello!

Teresa si sedette nel posto ch'egli aveva lasciato, e , piangente, a voce bassa, spiegò il passato. In quel tempo, era stata gettata, sola, in un mondo orribilmente banale. Era successo l'inevitabile: essa aveva ceduto. Ma subito s'era pentita. Oh! se egli sapesse la tristezza cupa della sua vita, non sarebbe geloso, la compiangerebbe.

Ella crollò il capo, e, guardandolo attraverso le trecce disfatte dei suoi capelli:

– Ma io ti parlo di un'altra donna. Non ho niente di comune con quella. Io, non esisto che da quando t'ho conosciuto, da quando sono stata tua.

Egli s'era messo a camminare nella camera, con un passo folle, come poco prima sulla riva della Senna. Scoppiò in una risata dolorosa:

– Sì, ma, mentre tu mi amavi, l'altra donna, quella che non era te?

Teresa lo guardò, indignata:

– Tu puoi credere...

– Non l'avete rivisto a Firenze, non l'avete accompagnato alla stazione?

Gli disse com'era venuto a ritrovarla in Italia, che lo aveva visto, che aveva rotto tutto, e che, poi, egli cercava di riprenderla, ma che essa non ci aveva nemmeno fatto attenzione.

Amico mio, io non vedo, non conosco che te al mondo.

Egli crollò il capo.

– Non ti credo.

Ella si ribellò:

– Vi ho detto tutto. Accusatemi, condannatemi, ma non mi offendete nel mio amore per voi. Questo, ve lo proibisco.

Colla mano sinistra, egli si coprì gli occhi.

Lasciatemi. M'avete fatto troppo male. Vi ho tanto amata, che tutti i dolori che avreste potuto darmi, li prenderei, li terrei, li amerei; ma quello è troppo ripugnante. L'odio. Lasciatemi, soffro troppo. Addio.

Diritta, coi piedi immobili sul tappeto:

– Sono venuta. È la mia felicità, è la mia vita che difendo. Sono aspra, lo sapete. Non me ne anderò.

E ridisse tutto quello che aveva già detto. Violenta e sincera, sicura di , spiegò come avesse rotto il legame, già così debole e che le dava noia; come, dal giorno in cui s'era data nel padiglione della Via Alfieri, non fosse stata che sua, senza rimpianti, certo, senza uno sguardo, senza un pensiero per altri. Ma, parlandogli di un altro, lo irritava. Ed egli le gridò:

– Non vi credo!

Allora Teresa ricominciò a dire quello che aveva detto.

E ad un tratto, istintivamente, guardò l'orologio:

Dio mio! è mezzogiorno.

Aveva gettato tante altre volte lo stesso grido d'allarme, quando l'ora degli addii veniva a sorprenderli. E Giacomo trasalì sentendo quella parola familiare, così dolorosa, stavolta, e disperata. Per qualche minuto ancora, essa si prodigò in parole ardenti e bagnate di lagrime. Poi bisognò bene che se ne andasse; non aveva guadagnato niente.

A casa, trovò nell'anticamera le Dame del mercato che l'attendevano per offrirle un mazzo di fiori. Si ricordò che suo marito era ministro. C'erano per lei dei mucchi di telegrammi, di biglietti da visita e di lettere; delle felicitazioni, delle domande. La signora Marmet le scriveva per pregarla di raccomandare suo nipote al generale Larivière.

Entrò nella sala da pranzo e si lasciò cadere affranta sopra una seggiola. Il signor Martin-Bellème finiva di far colazione. Era atteso al tempo stesso al Consiglio dei ministri e dal ministro dimissionario delle finanze, al quale doveva una visita. Già l'ossequiosità prudente del personale l'aveva lusingato, inquietato, stancato.

– Non dimenticate, cara amica, disse – di andare a trovare la signora Berthier d'Eyzelles. Sapete che è molto suscettibile.

Ella non rispose. Mentre egli bagnava nella coppa di cristallo i suoi diti gialli, alzò la testa, e la vide così stanca e così disfatta che non osò più dir niente.

Si trovava di fronte ad un segreto che non voleva conoscere, davanti a un dolore intimo che una sola parola poteva far prorompere. Provava dell'inquietudine, della paura, e come una specie di rispetto.

Gettò il tovagliolo:

Scusatemi, cara amica.

E uscì.

Teresa tentò di mangiare. Ma non potè inghiottire niente: tutto le produceva un disgusto insormontabile.

Verso le due tornò alla piccola casa delle Ternes. Trovò Giacomo nella sua camera. Fumava una pipa di legno. Una tazza di caffè, quasi vuota, era sulla tavola. Egli la guardò con una durezza che le gelò il sangue. Non osava parlare, sentendo che tutto quello che potrebbe dire lo offenderebbe e lo irriterebbe; e che, discreta e muta, soltanto mostrandosi, riavvivava la sua collera. Egli sapeva che sarebbe tornata; l'aveva attesa coll'impazienza dell'odio, con un cuore così ansioso come l'attendeva un tempo nel padiglione di Via Alfieri. Teresa ebbe un improvviso barlume, e vide che aveva avuto torto a venire; che, assente, l'avrebbe desiderata, voluta, chiamata, forse. Ma era troppo tardi; e, del resto, non cercava d'essere abile.

Gli disse:

Vedi. Sono tornata, non ho potuto far diversamente. Eppoi, era naturale, perchè t'amo; e tu lo sai.

Aveva ben sentito, che tutto quel che potrebbe dirgli non farebbe che irritarlo. Le chiese se diceva lo stesso in Via Spontini.

Teresa lo guardò con una tristezza profonda:

Giacomo, me l'avete detto parecchie volte, che nutrite per me un fondo d'odio e di collera. Vi piace farmi soffrire; lo vedo bene.

Con un'ardente pazienza, a lungo, gli ridisse la sua vita intera, il poco che vi aveva messo, le tristezze del passato, e come, dopo ch'egli l'aveva presa, non vivesse che per lui, in lui.

Le parole fluivano limpide come il suo sguardo. Si era seduta vicino a lui. Lo sfiorava a momenti colle sue dita, diventate timide, e col suo soffio troppo caldo. Egli l'ascoltava con un'avidità malvagia. Crudele verso se stesso, voleva saper tutto: gli ultimi appuntamenti coll'altro, la rottura. Essa gli raccontò fedelmente quello che era successo all'Hôtel Gran Brettagna; ma trasportò la scena fuori, in un viale delle Cascine, per paura che l'immagine del loro triste convegno in una camera chiusa irritasse ancora il suo amico. Poi spiegò l'appuntamento alla stazione. Non aveva voluto ridurre alla disperazione un uomo violento e che soffriva. Poi, non aveva avuto più notizie di lui, fino al giorno in cui le aveva parlato in Corso Mac-Mahon. Ripetè quel che le aveva detto sotto l'albero di Giudea. Due giorni dopo, lo aveva visto all'Opera, nel suo palco. Certo, non lo aveva incoraggiato a venire. Era la pura verità.

Era la verità. Ma il veleno antico, lentamente accumulato in lui, lo bruciava. Il passato, l'irreparabile passato, essa glielo rendeva presente colle sue confessioni. Vedeva delle immagini che lo torturavano.

Le disse:

– Non vi credo.... E, se vi credessi, non potrei più rivedervi, alla sola idea che siete stata di quell'uomo. Ve l'ho detto, ve l'ho scritto, – vi ricordate, a Dinard. – Non volevo che fosse quello! Eppoi...

Si fermò. Ella disse:

Sapete bene che, poi, non c'è stato altro.

– Poi, l'ho visto.

Rimasero a lungo silenziosi. Finalmente, ella disse, stupita e lamentevole:

– Ma, amico mio, dovete ben pensare che, così come sono, maritata com'ero... Si vedono tutti i giorni delle donne che recano al loro amante un passato assai peggiore del mio, e che pure si fanno amare. Ah! il mio passato, se sapeste che povera cosa era!

So quello che donate. Non si può perdonare, a voi, quel che si perdonerebbe ad un'altra.

– Ma, amico mio, io sono come le altre.

– No, voi non siete come le altre. A voi, non si può perdonare niente.

Parlava a denti stretti, colla bocca fremente d'odio. I suoi occhi, quegli occhi ch'ella aveva visto così grandi, pieni di fiamme dolci, adesso aridi, duri, rattrappiti dentro le pupille increspate, le gettavano uno sguardo nuovo, che le fece paura.

Andò a mettersi in fondo alla camera, sopra una seggiola, e , col cuore gonfio, le pupille attonite, come un fanciullo, rimase a lungo tremante, soffocata dai singhiozzi. Poi si mise a piangere.

Egli sospirò:

Perchè vi ho conosciuta?

Ella rispose fra le lagrime:

– Io, non rimpiango di avervi conosciuto. Ne muoio, ma non lo rimpiango. Ho amato.

Egli si ostinò malignamente a farla soffrire. Si sentiva odioso e non poteva frenarsi.

Dopo tutto, è possibile che abbiate amato anche me.

Teresa, con delle lagrime:

– Ma io non ho amato che voi! V'ho troppo amato, ed è per questo che mi punite... Oh potete pensare che io fossi con un altro quel che sono stata con voi!

Perchè no?

Lo guardò senza forza, senza più coraggio:

– È proprio vero, dite, che non mi credete?

E aggiunse con infinita dolcezza:

– Se mi uccidessi, mi credereste?

– No, non vi crederei.

Teresa si asciugò le guance col fazzoletto; poi, alzando gli occhi che brillavano attraverso le lagrime:

– Allora, tutto è finito!

Si alzò, rivide nella camera le mille cose tra le quali aveva vissuto in una intimità ridente e voluttuosa, che le erano sembrate sue, e che ad un tratto non eran più niente per lei, e la guardavano come una straniera e come una nemica: rivide le medaglie fiorentine, che le ricordavano Fiesole e le ore incantevoli d'Italia; il profilo abbozzato da Dechartre, quella testa di monella, che rideva nella sua graziosa magrezza sofferente. Si fermò un momento, con simpatia, davanti a quella piccola rivenditrice di giornali che, essa pure, era venuta , ed era scomparsa, travolta nell'immensità spaventosa della vita e delle cose.

Ella ripetè:

– Allora, tutto è finito?

Egli tacque.

Il crepuscolo già offuscava le forme.

Ella disse:

– Che ne sarà di me?

Egli rispose:

– Ed io, che diventerò?

Si guardarono con pietà, perchè ciascuno aveva pietà di se stesso.

Teresa disse ancora:

– Ed io che temevo d'invecchiare, per voi, per me, perchè il nostro bell'amore non finisse più! Era meglio non nascere. Sì, sarebbe stato meglio che non fossi nata. Che presentimento avevo dunque, quando, piccolina, sotto i tigli di Joinville, vicino alla Corona, davanti alle ninfe di marmo, volevo morire?

Colle braccia cadenti e le mani giunte, alzò gli occhi; il suo sguardo pieno di lagrime gettò nell'ombra un bagliore.

– E non c'è modo di farvi sentire che quel che vi dico è vero; che mai, da quando sono vostra, mai... Ma come avrei potuto? La sola idea mi sembra orribile, assurda. Mi conoscete dunque così poco?

Egli crollò il capo tristemente:

– No! non vi conosco affatto.

Ella interrogò una volta ancora collo sguardo tutte le cose che, nella camera, li avevano visti amarsi.

– Ma allora, quello che siamo stati uno per l'altro... era vano, era inutile. Ci si spezza uno contro l'altro: non ci si congiunge mai!

Si ribellò: non era possibile ch'egli non sentisse quello che era per lei.

E, nell'ardore del suo amore lacerato, si gettò sopra di lui, lo avvolse di baci, di lagrime, di gridi, di morsi.

Egli dimenticò tutto; la afferrò indolenzita, spezzata, felice, la strinse fra le sue braccia colla cupa rabbia del desiderio. Già, colla testa rovesciata sull'orlo del guanciale, ella sorrideva fra le lagrime. Bruscamente, egli si staccò da lei.

– Non vi vedo più sola. Vedo l'altro con voi; sempre!

Essa lo guardò, muta, indignata, disperata. Si alzò, aggiustò il suo vestito e i suoi capelli, con un sentimento sconosciuto di vergogna. Poi, sentendo che tutto era finito, girò intorno lo sguardo attonito dei suoi occhi che non vedevano più; – e, lentamente, uscì.

FINE.


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