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DISCORSO III ETÀ FERREA DEL PONTIFICATO. I CONCUBINARJ. LE INVESTITURE. GUERRA FRA IL PASTORALE E LA SPADA. |
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DISCORSO III
ETÀ FERREA DEL PONTIFICATO. I CONCUBINARJ. LE INVESTITURE.
GUERRA FRA IL PASTORALE E LA SPADA.
La nostra religione è inalterabile nella essenza; ma nella sua attuazione esterna toccando alle cose umane, trovasi esposta alla contaminazione degli interessi e delle passioni terrene. Nuove irruzioni di Saraceni ed Ungheri, e orrida sequela di sventure aveano colpito l'Italia; lo stesso rinnovamento che i papi aveano sperato ricostruendo l'impero d'Occidente riuscì a nuovi disastri, causati dal disordine feudale, che annetteva la giurisdizione al possesso, cioè tramutava ogni possidente in principe, con diritto di giustizia e di guerra. Ne seguiva uno stato di perpetui e personali conflitti, e la depravazione che accompagna la guerra permanente.
I principi e i baroni invidiando le vaste ricchezze e il conseguente potere acquistato dalla Chiesa, ne voleano almen qualche porzione. Ogni vacanza di vescovadi e del papato apriva l'arena a brogli, a corruzioni, a violenze; disputandosi la mitra e la tiara, siccome un tempo la corona imperiale. Gli imperatori, quali tutori della Chiesa, credettero rimediarvi col presedere alle elezioni e confermarle: ma ciò che prima era una protezione, un rimedio a deplorabili abusi, divenne un'arroganza e un peso quand'essi non tennero per legittima l'elezione d'un papa se non fosse approvata da loro. Secondo le norme feudali, ogni dovere veniva da un impegno personale; il possesso medesimo era una concessione, simboleggiata con atti materiali e solenni, e condizionata a patti espressi. Tale natura aveano anche i possessi, di cui gli imperanti o i baroni investivano le chiese e gli ecclesiastici, a titolo di regalie. In conseguenza essi pretendevano di godere di quei beni, duranti le vacanze (regalia utile), e conferire i benefizj mentre i vescovadi vacassero (regalia onoraria): pel qual modo l'imperatore e gli alti signori investivano i prelati non solo dei beni, ma della dignità, cioè non solo collo scettro e la spada che significavano il possesso temporale, ma anche coll'anello e il pastorale che esprimevano la podestà spirituale, e ne riceveano l'omaggio e la promessa di soggezione. Era un mettere in ceppi la Chiesa, e stornarne lo spirito; imperocchè, le fazioni portando imperatore ora un Franco, ora un Italiano, ora un Tedesco, a capriccio di questi modellavasi la scelta de' papi; la tiara acquistavasi per intrighi di donne, cabale di politicanti, violenza di bravi; papa Formoso, forse perchè mostratosi avverso alla fazione italiana, era fatto disseppellire dal suo successore, e giudicare, e condannare ad avere mozzo il capo e le tre dita con cui benediceva, poi gittato nel Tevere, disacrando quelli che da lui aveano ricevuto l'ordinazione; Teodora e Marozia portavano al supremo seggio i loro favoriti e parenti; la fazione di Albano o quella di Tusculo, l'italiana o la tedesca ergeano, deponeano, richiamavano i papi, fino a crearne uno di 18 anni (Giovanni XII). Questi disordini52 sono raccontati colle esagerazioni consuete ai partiti, fino a dire che sedesse papa una Giovanna, la quale poi, nella solennità d'una processione, fu côlta dal travaglio del parto53.
Quasi non trovasse in se stessa gli elementi della propria rigenerazione, la Chiesa li domandava all'autorità secolare. Ottone Magno di Sassonia, ottenuta a Roma la corona imperiale, prestò omaggio ligio a papa Giovanni XII, confermandogli le donazioni di Pepino, di Carlomagno, e di Lodovico il Pio; poi informato de' turpi portamenti del pontefice, lo depose, e fece decretare dai prelati che spetta agli imperatori dar l'istituzione ai papi e l'investitura ai vescovi (964). Così il romano impero, rinnovellato ai tempi di Carlomagno come principio d'equilibrio politico e tutela della sociale giustizia, per le mal determinate attribuzioni veniva a collidersi coll'autorità pontifizia, e tra le violenze e la vigliaccheria, capitali nemici della libertà, l'uno perdea del carattere sacro, l'altra dell'indipendenza.
Badie e parrocchie commendavansi a qualche secolare, cioè se gliene attribuivano i frutti, i pesi negligendo o affidando a qualche frate. Gli uomini di retta coscienza rifuggivano dai turpi maneggi, sicchè le sedi rimanevano a persone o basse o perverse; che entrate nel gregge o colla violenza di lupi o collo strisciar di serpenti, come poteano esserne vigili custodi? I vescovi che aveano ricevuta la dignità ed altre ne speravano dal principe, favorivano gl'interessi di questo; cercavano oro in ogni modo per poter con questo comprarsele, poi se ne rifaceano col trafficare delle cose sacre; doveano andar in guerra o mandare i loro uomini, e sostenere viaggi, e alla Corte sfoggiare di fasto profano; non di rado le dignità venivano in premio di umili e vergognosi servigi e fin del peccato; canoniche e monasteri, più che di cantici e litanie, risonavano di trombe, latrati e nitriti; anteposta la spada alla virtù e alla scienza, alla religione la superstizione che n'è la peggiore avversaria, come i prelati poteano più riprendere e correggere vizj, ne' quali essi erano tuffati?
Ridotti usufrutto secolare anche i benefizj ecclesiastici, restava solo che il clero ai tanti vantaggi aggiungesse quello di trasmetterli ereditariamente. A ciò tendeva l'eresia de' Nicolaiti, che fondandosi su condiscendenze antiche, più o meno accertate, domandavano il matrimonio dei preti. Così nella Chiesa introducendo le dignità ereditarie, assurdità ch'essa avea sempre rejetta, sarebbero divenuti retaggio domestico i beni ch'eranle attribuiti qual patrimonio universale de' poveretti.
Se mai fu momento in cui potesse dubitarsi della promessa di Cristo sull'eterna conservazione della sua Chiesa fu allora; tanto pareva spento lo spirito di santità e carità. Pure non mancarono i rimedj ad essa consueti; decreti di morale e di disciplina per parte de' concilj, riforma degli Ordini monastici antichi e introduzione di nuovi, come furono quelli de' Camaldolesi, de' Cluniacesi e de' Certosini, donde uscirono modelli di meravigliosa santità e carità, quali san Pier Damiani, san Giovan Gualberto, il beato Andrea da Vallombrosa, san Romoaldo, san Nilo, e ben presto Gregorio VII.
Questi era Ildebrando, di Soana nel Sanese, di profonda erudizione, di costume integerrimo, di cuor retto e ponderato giudizio nell'ideare, di ferma prudenza nell'eseguire. Per tali meriti salito ad alte dignità ecclesiastiche, e stomacato dell'universal corruttela, si propose di correggere il mondo, correggendo la Chiesa che n'è il capo. Sinchè vendevansi le sedi pastorali, sinchè le dignità vi si ottenevano per moneta e brighe, sinchè il libertinaggio facea propendere ai principi venditori più che ai pontefici emendatori, potea sperarsi che i vescovi recuperassero l'indipendenza d'autorità, della quale avean fatto gitto per acquistare indipendenza di costumi? Ildebrando deliberò di rompere il triplice vincolo che incatenava il clero alla società, cioè i terreni, la famiglia, la podestà. A tal fine bisognava cozzare coi re che ne scapitavano di potenza, coi preti che perdeano comodità alle passioni, colle perverse abitudini e la cupidigia de' godimenti. A imprese sì gravi richiedesi un uomo straordinario; e uomini tali non vanno misurati col metro comune.
Accostatosi ai papi eletti dagli imperatori, li persuadeva a rinunziare, e farsi legittimamente rieleggere dal clero e dal popolo; e perchè vi brigavano le fazioni, indusse ad affidare l'elezione ad un'accolta di cardinali vescovi e cardinali cherici54, «salvo l'approvazione del clero e l'onore dovuto all'imperatore».
Spiacque ai grandi il perdere un privilegio da cui traevano e lucro e influenza, e ricorsero all'imperatore Enrico IV (1061) perchè desse egli un papa, scegliendolo a preferenza nel «paradiso d'Italia»; voleano dire nella dissoluta Lombardia, acciocchè avesse viscere da compatire la fragilità umana. Ed egli scelse Cadolao vescovo di Parma, che sostenuto dalle armi imperiali e dalla fazione di Tusculo, s'insediò; ma Ildebrando fece dai cardinali proclamare il rigoroso milanese Anselmo da Baggio, che s'intitolò Alessandro II. Ne derivò guerra civile, finchè Cadolao restò vinto, e Alessandro confermato dal concilio di Mantova.
Com'egli morì (1073), il popolo tumultuariamente gridò papa quel che da molto tempo faceva i papi, cioè Ildebrando, che assunse il nome di Gregorio VII. Munitosi anche dell'assenso dell'imperatore, affronta a viso aperto la simonìa e l'incontinenza, cerca che alla forza prevalga il pensiero, che all'oltrepotenza dell'impero sovrasti l'efficacia del sacerdozio, come al corpo l'anima, come il talento alle braccia.
Non è del nostro quadro il divisare le cure che in tal senso diede a tutto il mondo. Fermandoci all'Italia e alle eresie di qua, diremo come in Lombardia sopratutto si fossero estesi fra gli ecclesiastici il concubinato e la simonìa55. A Milano principalmente pretendevasi che il vescovo sant'Ambrogio avesse concesso la moglie al clero56: il quale, della propria ricchezza insuperbito, asseriva che sant'Ambrogio non fosse inferiore a san Pietro, e rinegando i papi, appoggiavasi a re e imperatori, dai quali comprava per rivendere. Il clero minore e il popolo scandolezzavansi di que' disordini, viepiù pel confronto colle austerità de' monaci; e quando i prelati dicevano messa, la plebe li piantava soli sull'altare. Anselmo da Baggio stava a capo de' zelanti anche dopo che fu vescovo di Lucca, e s'intese con Landolfo Cotta e Arialdo d'Alzate, caporioni degli ortodossi, affine di opporsi all'arcivescovo Guido da Velate e alle sue creature. Videsi così partita la diocesi; da un lato i Nicolaiti, dall'altra i devoti, che chiamavano Patarini. Roma sostenne questi: i sinodi provinciali li favorirono; le armi gli oppressero invano; ma Anselmo e Pier Damiani riuscirono a ridurre la Chiesa milanese in obbedienza del papa; sicchè in un sinodo a Roma l'arcivescovo tenne il primo posto dopo il pontefice, e ricevette da questo l'anello, col quale prima lo investivano i re d'Italia: ai colpevoli s'imposero penitenze, cioè ai meno rei il digiuno in pane e acqua per cinque anni due giorni la settimana e tre nelle quaresime di Pasqua e di san Giovanni; ai più gravati, sette anni, oltre il digiuno d'ogni venerdì lor vita durante; all'arcivescovo per cento anni, con facoltà di redimersi a prezzo, e promessa di mandare tutti i cherici colpevoli in pellegrinaggio alle soglie degli apostoli e a Terrasanta.
In tale pellegrinaggio aveva attinto nuovo fervore il cavaliere Erlembaldo, che si pose alla testa de' Patarini, e sembrandogli che i Nicolaiti avessero fatto sommessione unicamente per ipocrisia, tolse a incalzarli (1066). Benedetto da Anselmo di Baggio, ch'era divenuto papa, strappava dagli altari i preti ammogliati, faceva popolo per respingere i nobili, che colle armi proteggevano i prelati loro parenti. Questi fanno trucidare Arialdo; e invocano l'imperatore, che intrude un altro arcivescovo; Erlembaldo repulsa gli attacchi fin col saccheggio e coll'incendio, ed eretto in Milano un altro governo, confisca i beni de' preti concubinarj, e domina, malgrado le armi e le beffe avversarie, sinchè dai nobili è ucciso, e dal popolo onorato come martire (1075); culto riconosciuto dalla Chiesa57.
Il messo dell'imperatore lodò l'assassinio, proscrisse i Patarini, elesse nuovo arcivescovo; ma il popolo non sapea darsi pace che i beni della Chiesa e le limosine andassero a pro de' ricchi e delle famiglie de' preti, e prevalse, e volle osservato il decreto del papa che imponeva il celibato. Così sciolti dai legami di famiglia, i sacerdoti restarono una milizia dedicata interamente al servizio della Chiesa e al vantaggio del popolo.
Torino apparteneva allora alla provincia ecclesiastica di Milano, e a Cuniberto vescovo di quella città, san Pier Damiani diresse una lettera in otto capitoli Contra clericos intemperantes, ove lo rimprovera d'aver mostrato troppa connivenza verso i preti che tenevansi donne a modo di mogli: del che tanto più si meraviglia, perchè sa che è austero ne' proprj costumi, mentre chiude gli occhi sugli altrui; e perchè i suoi preti sono del rimanente onesti e dati agli studj, e quando andarono a lui pareano un coro di angeli luminosi58.
Anche il patriarca d'Aquileja, che dicemmo da un pezzo essersi sottratto a Roma, allora vi si sottomise (1079), e nel ricevere il pallio prestò un giuramento, che poi fu esteso a tutti i metropoliti e vescovi nominati direttamente da Roma. In esso si obbligavano, come i vassalli verso i loro signori, a serbare fedeltà al pontefice; non tramare contro di lui; difendere la primazia della Chiesa romana e le giustizie di san Pietro; assistere ai sinodi convocati dal papa, riceverne orrevolmente i legati; dappoi vi si aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli apostoli, e mandare a render conto dell'amministrazione della diocesi; osservare le costituzioni apostoliche, non alienare verun possesso della mensa.
Quest'autorità della Chiesa, recuperata colle abnegazioni del clero e col suo sottomettersi a un capo, bisognava saldarla col togliere il diritto che i signori laici arrogavansi d'investire i prelati, e di esigerne soggezione e servigi. Se la Chiesa per sottrarsene avesse rinunziato alle temporalità, rimanea destituita d'ogni considerazione e d'ogni giurisdizione, quando questa era innestata al possesso delle terre. Se le conservasse senza formalità d'investitura, i beni, che erano forse un terzo di quelli della cristianità, si troverebbero sottratti all'autorità principesca, e sottomessi alla pontificia, la quale sarebbesi ingagliardita a segno, da predominare ai re. Gregorio non indietreggiava da quest'ultima conseguenza59, come il potrebbe fare l'età nostra, annichilatasi in fatto davanti ai monarchi, mentre in parole ostenta di contradirli e avversarli. Allora la libertà intendevasi in un senso molto più pieno e positivo, e questa lotta del sacerdozio coll'impero, delle usurpazioni dei governi colle naturali libertà, generò l'idea moderna dello Stato. Se fonte del potere è Dio, e Dio è rappresentato in terra dal papa, questo è superiore ai re. Se la società corrotta non può rigenerarsi che dalla Chiesa, è necessario che questa sovrasti ai troni. E come superiore, già Gregorio VII provedeva agli interessi anche temporali dei popoli; agli uni vietava il trafficare di schiavi, ad altri rinfacciava i vizj, scomunicava re contumaci; obbligò altri a continuar alla Chiesa l'omaggio con cui i predecessori ne aveano compensata la tutela; volea ridurre uomini quei che i baroni teneano schiavi; tanto più efficace perchè nulla faceva per vantaggio o ambizione sua personale, e sempre irremovibile come chi s'appoggia a dettati che non ammettono dubbio e non consentono paure.
Da ciò quel che i moderni, inneggiatori d'un imperatore che insultò ad un papa supplichevole, rinfacciano come la maggior tracotanza: il rappresentante dei diritti del popolo e della morale, che umilia un tiranno depravato. L'imperatore Enrico IV, oltre le turpitudini personali, avea violato la costituzione giurata ai Sassoni. Questi ne portarono reclamo al papa, e il papa ne ammonì ripetutamente Enrico. E perchè questi promise e mancò, citollo a Roma onde giustificarsi, altrimenti lo dichiarava decaduto, e scioglieva i popoli dall'obbedirlo (1076). Oggigiorno in simili emergenti si fan rivoluzioni, barricate, sangue; allora i re erano eletti colla sottintesa condizione che regnavano perchè meritevoli, cioè conforme a una moralità, che non era diversa per essi che per tutti. Questa era sottoposta al giudizio di un arbitro supremo; quand'egli proferisse ch'era violata, i popoli cessavano dall'obbedire, e il re indegno era colpito da una pena tutta morale, la scomunica, che mettea fuor delle comuni orazioni lui e le persone o le provincie che gli continuassero la devozione. Nel paese scomunicato cessavano quelle cerimonie religiose che consacrano tutti gli atti solenni della vita, e consolano e rinfrancano l'anima nelle battaglie della vita. Chiuso il tempio, immagine della città di Dio; non letizia d'organi, non richiamo di campane; non più l'assoluzione per tranquillar le coscienze; non la santa cena per refiziare lo spirito; non quelle feste ove il barone e il villano trovavansi uniti e pari nella medesima preghiera: spente le lampade, velati i crocifissi e le immagini edificanti; veruna solennità accompagnava l'entrare e l'uscir dalla vita: insomma pareva non esistesse più mediatore fra il peccatore e Dio. In secoli credenti questa pena era spaventosa, come sarebbe ai nostri gaudenti il chiuder i teatri od i caffè; e il re colpito, abbandonato da tutti, era costretto a sottomettersi.
Non è raro che la città di Roma imprechi a' suoi pontefici per favorire altri re. Anche allora Cencio, prefetto della città, in nome di Enrico IV contrariò Gregorio, lo aggredì tra le affettuose cerimonie della notte di Natale, e afferratolo pei capelli, lo trasse al proprio palazzo. Il popolo, levatosi a rumore, lo liberò, e a fatica il perdono di Gregorio salvò l'offensore.
Enrico imperatore, incapricciato in tali ostilità, v'era incalorito dal favore de' prelati lombardi, lieti di veder umiliato quel che li frenava; ma quando il papa lo scomunicò, Sassoni e Turingi ritiraronsi dall'ubbidirlo, e tutta Germania applause al papa, che rappresentava la volontà e i diritti del popolo; onde l'imperatore fu costretto venir a piedi di qua dell'Alpi, ed egli, re delle spade, umiliarsi al re della giustizia, che, nel castello di Canossa presso Reggio, lo fece aspettare tre giorni in abito di penitente (1077), poi gli perdonò e l'ammise alla comunione. Presa l'ostia consacrata, Gregorio lo assolse, e appellando al giudizio di Dio se mai fosse reo d'alcuno dei misfatti che erangli imputati dagli imperiali, ne inghiottì una metà; l'altra porse ad Enrico perchè facesse altrettanto se si sentiva incolpevole. Potere della coscienza! Enrico non ardì un atto che avrebbe risolta ogni questione, e paventò il giudizio di Dio.
Indispettito, non compunto, tese insidie al papa, e reluttò, sicchè i suoi lo deposero, e Gregorio, riconoscendo il surrogatogli Rodolfo di Svevia, ideò di far un regno dell'Italia settentrionale e media, che fosse vassallo della sede romana, come già l'erano i Normanni dell'Italia meridionale, e a questo regno restasse subalterna la Germania, invece di sovraneggiarlo com'essa allora faceva. Ma Enrico venne con buone armi, elesse un antipapa, e Gregorio VII, profugo dalla sua città, come tante volte i suoi antecessori e successori, morì a Salerno esclamando: «Amai la giustizia e odiai l'iniquità; perciò finisco in esiglio» (1089).
Matilde, contessa di Toscana, il personaggio più potente allora in Italia, ed uno de' più insigni del medioevo, aveva sostenuto Gregorio, e così sostenne i suoi successori nella quistione sopravvissuta, e morendo lasciò alla santa sede l'eredità de' suoi possessi, che, oltre la Toscana, il ducato di Lucca e immensi territorj, comprendeano Parma, Modena, Reggio, Cremona, Spoleto, Mantova, Ferrara ed altre città. In questi trovandosi mal distinti i beni allodiali dai feudali, nuove quistioni ne originarono cogli imperatori, ai quali ricadeano i feudi vacanti, e che col diritto del forte occupavano anche la proprietà, e trovavano sempre fautori in Italia e nel clero60.
Pasquale papa, volendo appianar ad ogni costo le differenze, si spinse sino all'estrema concessione; cioè che gli ecclesiastici rinunziassero a tutti i possessi temporali, coi castelli e i vassalli avuti dagli imperatori, purchè gl'imperatori rinunziassero all'immorale diritto delle investiture. Nel suo desiderio di pace non s'accorgeva ch'era impossibile spogliar i signori ecclesiastici, tanto potenti, nè togliere ai nobili laici l'aspettativa di tanti benefizj. In fatti sorse un'opposizione universale, e s'incalorì la guerra, dove la città di Roma per lo più osteggiava il papa sinchè non l'avesse cacciato; cacciatolo, tornava a volerlo.
A quel litigio, dove Voltaire non vide che una questione di cerimoniale, mentre invece implicava la libertà umana, quattro soluzioni poteano darsi. O annichilar il potere morale e l'elemento spirituale surrogandovi la forza sfrenata, come voleano gl'imperatori. O annichilare l'ordine politico, sublimando il papa come voleva Gregorio VII, ma vi repugnavano le costituzioni nazionali. O come propose Pasquale II, separare affatto i due ordini, isolandoli in modo che lo Stato non sorreggesse la Chiesa, nè questa illuminasse lo Stato; al che si opponevano e i costumi e gl'interessi. Non restava se non che il capo politico smettesse la nomina diretta dei vescovi e degli abbati, vigilando però sulle elezioni; e investendoli delle temporalità, in modo che fossero preti insieme e vassalli, come il tempo portava. Tal fu la transazione Calistina (23 settembre 1122), ove l'imperatore rinunziava ad investire i prelati coll'anello e col pastorale, lasciando libera l'elezione alle chiese; mentre Calisto II assentiva all'imperatore che le elezioni de' vescovi e abbati del regno tedesco si facessero coll'assenso imperiale, purchè senza simonia o violenza; l'eletto, prima d'essere consacrato, bacierebbe lo scettro col quale eragli conferita dall'imperatore l'investitura per tutti i beni e le regalie. In Italia e nelle altre parti dell'impero, l'eletto, fra sei mesi dopo consacrato, riceverebbe l'investitura.
È la prima di quelle transazioni fra il potere spirituale e il temporale, che si chiamano Concordati; e il concilio lateranese (1123), ch'è il primo universale in Occidente, la confermò; poi il secondo lateranese (1139) rinnovò la scomunica contro chi ricevesse l'investitura laicale.
In tale accordo il vantaggio restava tutto al poter secolare, perocchè l'imperatore non recedeva da alcuna delle sue pretensioni, vedevasi confermato l'alto dominio, e dirigeva le scelte. Ma la Chiesa sacrificava le eventualità temporali al desiderio di far indipendente lo spirituale61. Dappoi l'imperatore Lotario II rinunziò al diritto di assistere alle elezioni; e fu rimesso al papa il decidere delle differenze che in tal fatto si suscitassero; come poco a poco fu tolto ai principi il goder de' frutti de' benefizj vacanti, e dello spoglio de' vescovi e abbati defunti.
Duranti questi fatti, l'autorità ecclesiastica dei papi erasi viepiù ingrandita col restringere quella de' metropoliti, revocare a Roma la collazione di molti benefizj; riservarsene le annate; sottrarre ai vescovi la giurisdizione sui conventi e sui beni parrocchiali. Queste prerogative furono convalidate dalle decretali del falso Isidoro. Così chiamossi una raccolta di leggi, che non erano state realmente pubblicate dai papi, ma dove l'autore, tutt'altro che ignorante e inetto, pare raccogliesse titoli antichi, trasformando in decreti alcune allusioni del pontificale romano, o relazioni storiche, o brani di lettere dei papi, dei codici di Teodosio e d'Alarico, della regola di san Benedetto, del Liber pontificalis e d'altre autorità. Qualche volta adottò titoli spurj; qualche volta alterò, pure quelle norme doveano esser conformi alle istituzioni vigenti nella Chiesa, perocchè furono accolte senza ostacolo, e sinodi e papi le citarono, e altri compilatori fondaronsi su di esse, finchè al rinascere della critica i Cattolici le posero in dubbio, ben prima dei Protestanti62.
Un grave colpo al cristianesimo avea dato l'arabo Maometto, predicando una religione, desunta dalle credenze ebraiche e cristiane, e colla pretenzione di semplificarle; asserendo l'assoluta unità di Dio, cioè escludendo la trinità delle persone63; non vedendo perciò in Cristo che un profeta come Mosè, come Maometto; proibendo ogni rappresentazione della divinità; indulgendo alla poligamia e alle inclinazioni della carne, e propagando la sua religione colla spada. Così conquistata gran parte dell'Asia e dell'Africa, la dinastia degli Aglabiti di Cairoan venne a invadere la Sicilia (827), e vi piantò lo stendardo del profeta, che ben presto passò anche sul continente d'Italia.
I Cristiani dovettero allora soffrire persecuzioni dall'intollerante apostolato musulmano, e probabilmente alcuni avranno abbracciata la religione de' vincitori. I pontefici ebbero dunque l'impresa e di salvare i dominj loro da questi nuovi invasori, che minacciavano fin Roma, e di impedire la diffusione delle loro dottrine e de' loro costumi. E poichè essi aveano occupato la Terrasanta, teatro della redenzione e meta di devoti pellegrinaggi da tutto il mondo, i papi eccitarono l'Europa a muoversi per liberarla, come fecesi nelle crociate. Queste imprese, ch'erano un indirizzo dato dalla Chiesa alla forza e al sentimento esuberanti, verso uno scopo religioso e civile, dovettero ingrandire il potere de' papi che le intimavano, le benedivano, le dirigevano, e che investivano i principi e i vescovi de' paesi recuperati.
Di rimpatto la potenza degli imperatori in Italia era stata attenuata dal costituirsi de' Comuni. Questi aveano poco a poco recuperato i diritti civili, sostenuti sempre dagli ecclesiastici, e massime dai vescovi, i quali, ottenendo che le città di loro residenza restassero immuni dalla giurisdizione dei conti, e sottoposte alla loro propria, aveano agevolato la costituzione de' municipj. Sempre più rinforzandosi, questi fondavano l'eguaglianza popolare, eleggevano magistrati proprj, rendevano giustizia secondo leggi fatte dai loro parlamenti, o ripristinavano le romane, e faceansi guerra dall'uno all'altro, deplorabile conseguenza ma pur sintomo di libertà. Gli imperatori o doveano combattere in Germania per le disputate elezioni, o campeggiavano in Terrasanta, o cozzavano coi papi per le investiture; laonde nè potevano sostenere colle loro armi i baroni, nè opprimer i Comuni, che assodavansi collo spossessare i dinasti vicini.
Quel movimento repubblicano, sebbene originato e favorito dal clero, riusciva però nulla meno che favorevole all'autorità temporale de' pontefici. In Francia Abelardo (1079-1142), noto ancor più pe' suoi malincontrati amori che per l'ardimento filosofico, accoppiando la dialettica colla teologia, avea voluto far precedere la scienza alla fede, anzichè considerar quella come uno sviluppo di questa, e la sottoponeva al giudizio individuale, quasi coll'esame e col dubbio si progredisse. Lo aveva udito un bresciano di nome Arnaldo, mutatosi dal mestier delle armi alla cocolla, e ne portò le idee in Italia. Bel parlatore, cominciò come tutti i novatori dal rimbrottare i costumi del clero; donde passò a battere la potenza ecclesiastica; repugnare al buon diritto e al vangelo che il clero possedesse beni, i vescovi regalie; ma dovrebbero restituire ai principi i possessi che ne aveano ricevuto, e ridursi all'apostolica, a viver di decime e di spontanee oblazioni. Non intendendo la libertà nuova, vagheggiava quella che apparivagli ne' libri classici, blandendo idee che sempre diedero per lo genio al popol nostro. Piaceva a questo pel dolce suono di repubblica: piaceva ai signori laici, che teneano feudi dagli ecclesiastici, e speravano emanciparsene; e formò una fazione detta de' Politici, che dal dir ingiurie al pontefice passava a negargli obbedienza.
Roma era allora circondata da baroni e da Comuni, che aspiravano del pari all'indipendenza; dentro era straziata da due fazioni, guidate dai Frangipani e da Pier di Leone, che pretendeano usurpar i beni delle chiese, ed eleggere a voglia papi e antipapi. Con costoro ebbe capiglie Innocenzo II (1130), che costretto andar fuggiasco in Germania, in Francia, in Inghilterra, ebbe sostegno l'eloquenza di san Bernardo, fondatore dell'ordine de' Cistercensi. Dall'imperator Lotario ricondotto a Roma, il papa doveva tenersi munito in Laterano, mentre l'antipapa Anacleto fortificavasi in Vaticano (1133). Ma ben presto i Normanni che, colla solita facilità, aveano acquistato le due Sicilie, fecero di queste omaggio al papa, chiedendogliene l'investitura; poi radunato in Laterano l'xi concilio ecumenico, ai 2000 prelati raccolti il papa diceva: «Sapete che Roma è metropoli del mondo; che le dignità ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo pontefice siccome feudo; nè altrimenti possono legittimamente possedersi».
Malgrado l'opposizione di san Bernardo, Arnaldo riuscì a ribellare la città (1141), che gridò la repubblica, e pose un senato di 56 membri, decretando in nome di questo e del popolo. E un amico di Arnaldo fu scelto per nuovo papa col nome di Celestino II, ma questi cessò ben presto dal favorirlo; ed anche il popolo recosselo in sinistro, dimodochè dovette fuggire, e ricoverarsi a Zurigo. Quivi anticipate le declamazioni di Zuinglio contro la Chiesa, passò in Francia e in Germania, sempre inseguito dall'occhio e dalla voce di san Bernardo.
Coi sussidj, che mai non mancano a chi guerreggia la Chiesa, soldò 2000 Svizzeri, e con questa forza venale tornato a Roma, ripristinò la magistratura repubblicana; e invasato da reminiscenze di libri, rinnovò i consoli e i tribuni; ideava un ordine equestre, che fosse medio fra il popolare e il senatorio; al papa non lasciava che i giudizj ecclesiastici, mentre l'autorità imperiale supremava.
Bastano le più vicine memorie per ricordarci come il popolo romano s'inebbrii di siffatte idee; e come all'entusiasmo dell'applauso si accoppii l'entusiasmo dell'ira. Mentre osannavano quell'intempestiva restaurazione, i Romani gettavansi a furia sulle torri dei baroni, sui palazzi degli avversi e de' cardinali, e anche sulle loro persone; abolivano il prefetto della città; negavano obbedienza al nuovo papa Eugenio III (1145), il quale dovette coll'armi domar quella gente che san Bernardo qualificava proterva e fastosa, disavvezza dalla pace, avvezza solo al tumulto; immite, intrattabile, non sottomessa se non quando le manchi forza di resistere. E questa prevalse, e cacciò il papa che andò esule in Francia, sicchè Bernardo scriveva: «Ecco l'erede di Pietro, per opera vostra espulso dalla sede e dalla città di san Pietro; ecco per le vostre mani spogliati de' beni e delle case loro i cardinali e i vescovi ministri del Signore. O popolo stolto e disennato! I padri vostri resero Roma donna del mondo; voi v'industriate di renderla favola delle genti. Or ch'è divenuta Roma? miratela; un corpo informe senza testa, una fronte incavata senz'occhi, un volto privo di luce. Apri, infelice popolo, apri una volta gli occhi, e guarda la desolazione che ti sovrasta. Come in brev'ora lo splendore di tua gloria s'è offuscato! fatta sei come vedova, tu ch'eri la signora delle nazioni, la regina dei regni. Eppur questi non sono che principj de' mali; più gravi calamità ti minacciano, se più ti ostini nella fellonia»64.
Intanto i repubblicani invitavano l'imperatore Corrado III, vantando d'avere operato solo per restituire a Roma l'ecclissato splendore; e secondo la storia, le prediche d'Arnaldo e il voto de' giureconsulti classici, voleano riformare lo statuto, assicurando illimitata autorità al principe. Ma ai nobili premea di conservar le loro prerogative, a fronte dell'imperatore come del papa; e quando il popolo trucidò il cardinale di santa Prudenziana (1154), il nuovo papa Adriano IV diede l'insolito esempio di metter all'interdetto la capitale del cristianesimo, finchè non ne fosse espulso Arnaldo. Commosso dal vedersi negati i sacramenti all'avvicinar della Pasqua, il popolo cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.
Intanto era venuto imperatore di Germania Federico Barbarossa, risoluto di ripristinar l'autorità imperiale, scassinata in Italia dal costituirsi de' Comuni, riformare il sistema ecclesiastico, il feudale, il municipale. Son divulgatissime le costui imprese in Lombardia; nè noi dobbiamo ricordare se non che, mentre Milano gli resisteva, egli mosse a Roma per esser coronato.
Quivi trovò in piedi la repubblica istituita da Arnaldo, la quale, ristretto il papa nella città Leonina, gl'intimava rinunziasse ad ogni podestà temporale, e s'accontentasse del regno che non è di questo mondo. I repubblicani speravano prevarrebbe in Federico l'antica nimicizia contro i papi; ma egli, uom dell'ordine, astiava le rivoluzioni, e questo slancio della gran città verso la forma che fu sempre prediletta in Italia, ma che ridurrebbe al nulla la prerogativa imperiale. Pertanto (1153) avuto nelle mani Arnaldo, lo consegnò al prefetto imperiale della città. A questo l'esser presente l'imperatore conferiva pieni poteri, elidendo ogni contrasto de' preti; sicchè egli fece, come eretico e ribelle, strangolare Arnaldo, ardere in piazza del Popolo, e gettarne le ceneri nel Tevere. La turba accorse come ad ogni spettacolo; gli scrittori applaudirono; Goffredo di Viterbo canta:
Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum
Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt65:
Gunter nel Ligurino dice s'era fatto reo contro ambedue le maestà:
Majestate reum geminæ se fecerat aulæ;
nè alcun contemporaneo lo compiange, o nega gli aberramenti suoi. Solo nel secolo passato si cominciò a presentarlo come una vittima della tirannide papale, come un precursore de' riformatori del cinquecento, o dei Giansenisti del seicento66.
Nelle avventure di lui, come in tutto il conflitto che descriviamo, non fu abbastanza distinta la lotta dei laici coi chierici67, da quella dell'autorità imperiale coll'autorità pontifizia: differenza troppo notevole. In fondo gl'imperatori, sebbene con maggior misura, sostenevano quel che oggi la rivoluzione: la Chiesa, congregazione spirituale, non aver bisogno di temporalità; queste metter ostacolo ai principi, e però dover cessare, necessaria essendo l'unità del comando, nè esser vero principe chi ha un superiore. Rispondeasi: la Chiesa sovrasta a tutti i diritti, perchè è la fonte di questi; nè si dà diritto quando essa nol voglia riconoscere; esistendo divinamente, e assolutamente essa non tien conto che di se medesima. La legge, l'ubbidienza derivano da Dio: dacchè il principe le rompe, perde, quant'è da lui, il diritto di comandare, e la coscienza il dover di obbedire. La giustizia è il bene armato, la legge morale armata, sicchè bisogna rimanga in mani morali e legittime. Più si restringe la Chiesa, più fa duopo estender la forza che la surroga.
I fautori della Chiesa nominavansi Guelfi; Ghibellini i sostenitori dell'impero, ma entrambi i partiti riconoscevano un principio superiore a tutte le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale dall'ecclesiastico, dello spirito dalla legge, della fede dal diritto, della coscienza dell'individuo dal vigore della società, dell'unità umana dall'unità civile. Il prevalere d'una di queste tesi porta necessariamente l'antitesi dell'altra: se la Chiesa si fa democratica col popolo, l'impero si fa democratico colla plebe: se i Guelfi stabiliscono l'eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge; se prevale l'idea della libertà individuale, bisogna frenarla colla potenza sociale.
Questi partiti si spiegarono massimamente sotto i due Federichi di Svevia. Il primo credette potere nella gagliarda mano schiacciare le libertà comunali e la Chiesa: ma a Venezia dovette piegar il collo sotto al piede del papa, che esclamò, Super aspidem et basiliscum ambulabis68, e per sua mediazione pacificato colle città lombarde, riconobbe l'indipendenza di queste, e andò a morire in Terrasanta.
La sua discendenza rinnovò il cozzo coi papi, anche per l'eredità della contessa Matilde, sicchè essi favorirono l'elezione di Ottone di Baviera. E questi, davanti a tre legati pontifizj prestò questo giuramento (1201):
«Io Ottone, per la grazia di Dio, prometto e giuro proteggere con ogni mia forza e di buona fede il signor papa Innocenzo, i suoi successori e la Chiesa romana in tutti i dominj loro, feudi, diritti, quali sono definiti dagli atti di molti imperatori, da Lodovico Pio sino a noi; non turbarli in quel che già hanno acquistato; ajutarli in quel che lor resta ad acquistare, se il papa me lo ordini quando sarò chiamato alla sedia apostolica per la corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa romana per difendere il regno di Sicilia, mostrando al signore papa Innocenzo obbedienza e onore, come costumarono i pii imperatori cattolici fino a quest'oggi. Quanto all'assicurare i diritti e le consuetudini del popolo romano, e delle leghe Lombarda e Toscana, m'atterrò ai consigli e alle intenzioni della santa Sede, e così in ciò che concerne la pace col re di Francia. Se la Chiesa romana venisse in guerra per cagion mia, le somministrerò denaro secondo i miei mezzi. Il presente giuramento sarà rinnovato a voce e in iscritto quando otterrò la corona imperiale».
Ai Tedeschi spiacque siffatta sommessione; altrettanto sarebbe dovuta gradire agli Italiani, de' quali assicurava l'indipendenza come della Chiesa; ma ben presto Ottone, venuto qua co' suoi Tedeschi, disgustò i nostri e il papa, che lo scomunicò, e gli eresse incontro Federico II, nipote del Barbarossa. Questo allievo e favorito dei papi, ben presto divenne il più dichiarato loro avversario, e ravvivò la lotta delle investiture, colle vicende che in altri lavori noi divisammo più che non occorra in questo speciale.
Innocenzo III, uno de' pontefici più insigni per scienza e virtù, convocò il XII concilio ecumenico lateranense (1215), dove assisteano quattrocendodici vescovi, ottocento abati, ambasciadori di tutta cristianità; vi fu letto un discorso sulle prerogative del papa, e acciocchè anche i laici lo comprendessero, venne ripetuto in spagnuolo, francese, tedesco; fu esposta la dottrina cattolica contro Albigesi e Valdesi ed altri eretici, scomunicando il signore che non purga il suo paese da questi: colla parola transustanziazione si espresse il cambiamento operato nell'eucaristia: fu imposto a tutti i fedeli di confessarsi e comunicarsi almeno alla Pasqua.
Innocenzo attese a riformar la costituzione interna della Chiesa mediante lo spirito mistico con cui i Francescani operavano sulle classi basse, e i mezzi legali con cui i Domenicani difendeano la società feudale e religiosa. Onde far che le istituzioni civili non si togliessero dall'ombra del trono papale, e impedire che la società laica invadesse la ecclesiastica, volle ridurre in atto i concetti di Gregorio VII intorno alla supremazia del papa. Era allora dottrina comune ai canonisti e ai politici che tutta la cristianità gravita attorno a due centri: il papa e l'imperatore, delegati da Dio a governar le cose spirituali e temporali. Nessun altro ideale conosceasi in fatto di governo, e se ne valeano i due poteri per impedir sia le usurpazioni dell'uno sull'altro, sia le pretensioni de' baroni o de' cittadini; l'eresia al par della ribellione: due mali (dice Pier dalle Vigne) cui la Provvidenza preparò non due rimedj ma un solo sotto duplice forma: il balsamo della potenza sacerdotale e la forza della spada imperiale.
Tale era dottrinalmente la quistione: ma nel fatto ciascuno di questi due fanali della via sociale aspirava a splender unico; e si osteggiavano colle armi e colle scomuniche. Ma due podestà, diverse eppure non opposte, con idee e linguaggio differenti, non possono intendersi, sicchè nè la violenza riesce nè la discussione.
Federico II, ricco delle doti più belle e più ammirate, dotto, poeta, guerriero, legislatore, a guisa dei re moderni abborriva le libertà municipali, e la religione voleva ridurre a ramo dell'amministrazione. Pel primo scopo lungamente contese colle repubbliche dell'Italia superiore, e se non riuscì a spegnerle, impedì si estendessero anche al resto d'Italia, e costituissero l'intera penisola in un sistema, che potea divenir modello all'Europa e cambiarne i destini.
Uomo d'ordine, vide negli eretici dei disobbedienti e ribelli, e condannò senza esame le sêtte dualiste, ridestando le più severe leggi imperiali. Fece il solenne trasporto delle reliquie di san Carlomagno: onorò quelle della buona santa Elisabetta d'Ungheria, sul cui capo posò una corona d'oro, attestandone pubblicamente i miracoli. Pure dai papi è tacciato di eresie; ma quali fossero non è precisato.
Veneratore della civiltà pagana, usava e abusava dei titoli divini che l'adulazione del basso impero aveva attribuiti agli imperatori. A suo figlio Corrado diceva «stirpe divina del sangue de' Cesari», e diva mater nostra alla regina Costanza; i suoi cortigiani applicavano a lui frasi scritturali: Terra promessa, Betlem della marca d'Ancona la città di Jesi ove nacque: egli il giusto disceso dalle nubi, e su cui i cieli versano la rugiada; egli il Signore a cui avviarsi camminando sulle acque; egli antistite, cooperatore e vicario di Dio, immagine visibile dell'intelligenza celeste. Pier dalle Vigne suo segretario era denominato suo primo apostolo, nuovo Pietro, destinato a confermar la fede altrui, dacchè l'imperatore gli disse: «Pietro, poichè tu mi ami, pasci le mie pecorelle»; eretto a fronte al falso vicario di Cristo, per esser vicario vero governando secondo la giustizia, istruendo, riformando per mezzo della fede; su questa pietra angolare fondasi la nuova Chiesa imperiale (in cujus petra fundatur imperialis ecclesia); su lui riposò Augusto quando celebrò la cena co' suoi apostoli; ciò ch'egli chiude nessun altro apre; nessun chiude ciò ch'egli aperse: Pietro di Galilea rinegò tre volte il suo maestro, Pietro di Capua non v'è pericolo che neghi il suo, neppur una volta69.
Così da un lato profanavansi le memorie sante, dall'altro tornavasi verso quell'antichità, a cui non repugnava la pretensione di governar le coscienze non meno che i corpi, e Federico fantasticava una supremazia religiosa, simile a quella degli imperatori greci e dei musulmani, che congiungevano i due poteri; e invidiava Vatace imperator d'Oriente, che nulla aveva a temere dalla indipendenza de' preti, e lo persuadeva a non acconsentire alla riunione della Chiesa greca colla romana che era scismatica. E poichè sentiva di non bastare a lottar col papa, divisava spartire la cristianità in tante Chiese nazionali, dove il re fosse anche pontefice, e così il conflitto divenisse impossibile.
Tutto ciò sembra costituirlo quel che oggi diremmo un materialista incredulo, o se vogliasi, un politico indifferente; difetto ben raro in quei secoli. Raccontano che, traversando un campo spigato, dicesse ai suoi seguaci: «Badate a non far guasto, giacchè quei grani potrebbero divenire corpo di Cristo». E veduta la Palestina, esclamò: «Se Dio avesse conosciuto Napoli, certo non sceglieva questa per terra prediletta». E metteva in burla il parto della Vergine, il viatico ed altri dogmi, quasi repugnassero alla ragione e alla natura. Scandolezzava poi col tener a tavola ambasciadori musulmani insieme coi vescovi; guardie arabe custodivano il suo corpo e le sue fortezze; odalische allietavano i suoi riposi abbelliti da rarità orientali e dalle voluttà che avea vedute presso gli emiri di Sicilia e gli sceichi dell'Asia; i Musulmani stessi lo consideravano come un loro credente, perchè educato in Sicilia, e un d'essi avendo, in presenza di lui, proferito un versetto del Corano che nega la divinità di Cristo, egli vietò di infliggergli alcun castigo.
Si disse che egli avesse chiamato Mosè, Cristo e Maometto tre impostori, e l'asseriva Gregorio IX scomunicandolo. Nell'abitudine del medioevo di atteggiare ogni idea in un fatto, il motto trasformossi in un libro Dei tre impostori. Quest'opuscolo venne attribuito a chiunque voleasi denigrare: ad Averroé, a Federico II, a Pier dalle Vigne, ad Arnaldo di Villanuova, a Bonifazio VIII, al Boccaccio, al Poggio, all'Aretino, al Machiavello, al Pomponazio, al Cardano, all'Ochino, al Campanella, a Giordano Bruno, al Vanino, per non dir che dei nostri, ma da nessuno fu veduto. Veramente perirono anche i libri de' Gnostici, de' Manichei, degli Albigesi: distruzione non difficile quando mancava la stampa; anche dopo inventata questa perirono alcune opere, come quella del Sacrifizio di Cristo di cui appena testè si fece lo scoprimento: pure il libro Dei tre impostori noi crediamo non esistesse mai, ma simboleggiasse l'incredulità materiale, derivata dagli Arabi.
L'origine stessa della costoro religione era un'eresia; prendeano a edificare una terza Chiesa accanto alla giudaica e alla cristiana; molti filosofi di quella gente consideravano le tre siccome pari, e siccome sviluppo l'una dell'altra; di tutte con egual libertà discutevano, e con maggiore il gran commentatore Averroé, che tratta di ciarlieri i teologi, e di fantasie le dispute su qualsiasi religione.
Tormentato dalla febbre del sapere, Federico lo cercava interrogando anche i sapienti musulmani. Ad essi nel 1240 presentò varie quistioni, sull'eternità del mondo, il valore e numero delle categorie, la natura dell'anima, il metodo che conviene alla metafisica e alla teologia. Non soddisfatto da alcuno, s'indirizzò al califo almoade Rascid per sapere ove dimorasse Ibn Sabin di Murcia, e saputolo, mandògli quelle dimande. Il dotto arabo rispose come un pedante che vuol mostrare più scienza che non abbia, e finge esser costretto a dissimulare il troppo più che sa; a tu per tu coll'imperatore, o con sapienti da lui mandati, direbbe altre cose secrete, perocchè, soggiunge, se i dottori fossero certi che io risposi a certi punti, mi guarderebbero con orrore, e non so se Dio colla sua bontà e sapienza mi camperebbe dalle loro mani70.
L'eresia di Federico era più pratica, e consisteva nel voler sostituire se stesso al papa, usurpare le funzioni del sacerdozio, far moneta coi vasi sacri, deporre e istituir prelati, e da questi pretendere segni di sommessione e quasi d'adorazione; e mentre sprezzava la Chiesa perchè non fa più miracoli, voleva ricondurla alla semplicità primitiva.
Per ciò, e per aver giurato di andare alla crociata, poi mentito; andatovi poi, aver patteggiato co' Musulmani, anzichè sterminarli, Gregorio IX lo scomunicò. Federico s'appella a un concilio generale, e Gregorio lo convoca a Roma (1241), poi Innocenzo IV un altro a Lione (1245), ove la Chiesa riunita, e per essa il vicario di Cristo, dichiarano Federico convinto di sacrilegio ed eresia, scaduto dall'impero, dispensati i sudditi dall'obbedirgli. Pier dalle Vigne avea composto un trattato De consolatione, uno De potestate imperiali, e credesi il libello Paro figuralis, ove nel pavone raffigura Innocenzo IV al concilio di Lione, circondato di colombe, tortore, oche, anitre, passeri, rondini, figuranti i cardinali, i vescovi, gli abati d'ogni colore, i cittadini, i mendicanti; il gallo rappresenta il re di Francia, la pica i Guelfi, il corvo i Ghibellini; l'aquila l'imperatore; gli uccelli grifagni Tedeschi, Siciliani, Spagnuoli. Il libercolo non trae valore che dall'opportunità, ma mostra come le nazioni d'Europa non fossero così estranie fra loro, come darebbe a supporre la asserita barbarie; e che già la letteratura militante elaborava l'opinione pubblica. In fatti Federico le proprie discolpe diramò ai principi, mostrandosi eretico appunto nell'atto che voleva scolparsene, poichè gli incitava contro il papa: «Come mai soffrite d'obbedire a figli di vostri sudditi? La Chiesa è divenuta affatto mondana; i suoi ministri, inebriati delle delizie terrestri, non badano guari al Signore; uniamoci, e vigiliamo insieme, affinchè, privati d'ogni superfluo, costoro servano all'Altissimo, contenti di poco... Assisteteci contro la superbia di questi prelati, acciocchè possiamo rassodar la Chiesa dandole le guide più degne, e riformare pel suo bene e per la gloria di Dio, com'è nostro dovere. Ve' come essi impinguano71 di limosine! Gonfi d'ambizione, aspettano che tutto il Giordano coli nelle loro bocche. Quanto denaro risparmiereste sbrattandovi da codesti scribi e farisei! ai quali se tendete la mano, essi pigliano tutto il braccio; e voi somigliate all'uccello preso nella ragna che, più cerca fuggire, più s'accalappia. Intenzion mia fu sempre ricondurre gli ecclesiastici, e principalmente i più grandi, a tale stato che perseverino sin al fine nelle vie che furono quelle della Chiesa primitiva, menando una vita apostolica, e mostrandosi umili come Gesù Cristo72. Noi crediamo far opera di carità togliendo a costoro i tesori di cui sono satolli per loro eterna dannazione».
Ipocrito! se tanto ti sta a cuore la loro salute, perchè non ne lasci a loro stessi la cura? perchè inviti a spogliarli, come poi farà Lutero? Questi pure griderà di tornar la Chiesa alla purità primitiva, e con ciò provocherà tre secoli di guerre e dissidj. E come lui, Federico seminava il concetto di nazionalizzar le Chiese in tutta Europa; e già in Germania, sia per favorire al loro tedesco, sia per l'antica avversione alle cose italiane, varj vescovi e capitoli più non badavano alle ordinanze pontifizie, e persone senza nome giravano liberamente dicendo: «Che scomuniche? che papa? Egli è così tristo, che neppur s'ha da parlarne; piuttosto predicate per Federico imperatore e suo figlio Corrado; essi perfetti; essi re galantuomini».
Di sottomettere la Chiesa allo Stato fece Federico il tentativo nel regno delle Sicilie, ove già la dominazione de' Greci e degli Arabi aveva abituato a una tal condizione di cose. I Normanni eransi provati a delimitare i mutui poteri mediante que' concordati, che il nostro secolo bestemmia senza pur conoscerli, e a cui vuol sostituire la formola assurda della assoluta indipendenza delle due potestà. I trattati conchiusi coi due Guglielmi, con Tancredi, con Costanza imperatrice emanciparono più o meno la società civile; ma Federico, infatuato della propria persona e della propria autorità, cercò sottrarnela affatto; negò al papa l'omaggio che doveagli come re di Sicilia; vi mutò leggi, crebbe tributi, levò soldati senza consenso del pontefice. Per ricolpo Innocenzo IV pubblicò più tardi la famosa bolla 8 dicembre 1248, che tendeva ad assorbir lo Stato nella Chiesa, escludendo ogni intervenzione laica dalla nomina de' prelati, dispensando questi dal giuramento al sovrano e dalla giurisdizione laica, civile o criminale; autorizzando i possessori di beni ecclesiastici a fortificar i castelli, rialzare le ville, ripopolare le distrutte, senza bisogno di regia placitazione.
L'imperatore rispose con supplizj, paragonando ad eretici i fautori del papa, e sè stesso al profeta Elia che purgò Israele dai sacerdoti di Baal; e così sotto pena di morte si dovette riconoscere che solo capo della Chiesa è il capo dello Stato.
Il popolo non aveva mezzo d'esprimere le sue proteste, e i cortigiani, che soli scrissero, ci dicono come fosse lietamente obbedito l'imperatore, rappresentante del Dio vivo; e dalle stesse loro adulazioni traspare come, senza innovar il dogma, Federico II tendesse a render il papa cappellano dell'imperatore. Se fosse riuscito, l'aquila tedesca avrebbe surrogata la croce italiana, e tutta Europa avrebbe presentato il tristo spettacolo che scorgesi a Costantinopoli e a Mosca; la podestà spirituale serva alla temporale; il papa ridotto a registrare i decreti di Cesare; il quale, come il czar o come il sultano, avrebbe avuto impero assoluto sul clero e sui laici. Un papa che obbediva a un imperatore avrebbe cessato d'ispirare fiducia o d'imporre riverenza ai paesi estremi: Toledo e Reims, Cantorbery e Vienna avrebber preso per sé73 porzione dell'autorità di esso; tutti i patriarchi, tutti i principi ecclesiastici di Germania avrebbero voluto dirsi pari al pontefice; il quale si sarebbe trovato ridotto a null'altro che figurare in qualche cerimonia, e disputare sulla consustanzialità e sul filioque.
Roma lo vide: vide come quest'esempio sarebbe funesto in tutto l'Occidente, e sostenne la lotta dei Lombardi, di Venezia, di Genova contro Federico. Persuaso egli che bisognava colpir la testa, si diresse sopra Roma, ma il popolo la difese, e salvò il poter temporale e con esso l'indipendenza del papa, e respinse Federico anche quando due altre volte vi si accostò.
Vinto sul terreno politico, invase il religioso, cercando sottrarre al papa il governo delle anime; cercò tirar dalla sua i frati mendicanti, carezzando il loro generale frate Elia, ma non riuscì: fomentò gli eretici, sol perchè avversi a Roma, e così propagavasi anche in Italia la negazione. Pure il popolo ascoltava al papa, suo rappresentante; e ai frati e ai preti, immediati suoi consiglieri e amici, e a sant'Ambrogio Sansedone, a santa Rosa da Viterbo, a sant'Antonio da Padova, al beato Giordano Forzaté, ad altri che Federico perseguitava con armi, legulei e carceri. Poi Dio mandò al superbo il flagello dei re, il sospetto; e credendosi tradito da amici e parenti, mandò al supplizio molti e lo stesso Pier dalle Vigne: e benchè fosse un de' più insigni talenti del medioevo, e durasse trentadue anni d'impero, nulla compì di grande, perchè, com'ebbe a dire il contemporaneo san Luigi di Francia, «fe guerra a Dio coi doni suoi»: e al suo sepolcro il popolo guardava tra meraviglia e spavento, riflettendo che sarebbe stato senza pari sulla terra «se avesse amato l'anima sua».
Sulla sua discendenza parve pesare l'anatema, trovandosi a guerra coi popoli e tra loro. Manfredi, bastardo di Federico, usurpato il regno di Sicilia, periva nella battaglia di Benevento; Corradino, ultimo di quel sangue, moriva sul patibolo di Napoli. Il nome di Federico II restò fra gli antesignani della riforma: nel secolo seguente un cronista svizzero ne invocava e prediceva la resurrezione per riformar la Chiesa; i primi apostoli del protestantismo si giovarono degli argomenti di lui e di Pier dalle Vigne. Un riscontro moderno possiamo trovargli in Enrico VIII, che al luogo di Pier dalle Vigne ebbe Tommaso Cromwel, e che, al par di Federigo, proclamava lo scisma da una parte, dall'altra bruciava gli eretici: ma l'opinione al tempo di Federico era volta tutt'altrimenti, e ne vennero infiniti mali al suo secolo e lo sterminio della sua famiglia. Il patetico fine di questa dee compatirsi da tutti, può deplorarsi dagli avvocati della monarchia assoluta e del diritto divino dei re, ma i liberali dovran riconoscere che essa fu osteggiata per la libertà del popolo, per l'indipendenza delle varie nazioni, la quale sarebbe dovuta soccombere a un impero che avesse assorbito anche la potestà spirituale. Che i papi trascendessero lo credette fin il pio re san Luigi, ma furono stromenti della Provvidenza a un grande scopo, il progresso civile, e la costituzione delle nazionalità74.
Spenta la famiglia di Svevia, al concilio ecumenico IV di Lione (1274) comparve un messo di Rodolfo d'Habsburg, povero conte dell'Argovia che era stato eletto imperatore, e che non avendo puntigli ereditarj, sentiva l'opportunità di terminar questo litigio, ripullulante da 70 anni. Giurò dunque adempier le promesse d'Ottone IV e Federico II; confermava al papa le antiche donazioni del paese da Radicofani a Ceprano, oltre l'Emilia, la Marca d'Ancona, la Pentapoli, l'eredità della contessa Matilde e l'alto dominio sulla Sicilia, la Corsica, la Sardegna, rinunziando alle terre disputate fra l'impero e la Chiesa; non accetterebbe tenute ecclesiastiche nè cariche nello Stato Romano se non assenziente il papa.
La Chiesa assicuravasi dunque l'indipendenza, e sugli imperatori riportava una vittoria ben più vistosa che l'altra volta, ma non più profittevole. Attesochè cessava l'importanza che i papi traevano dall'opporsi al dominio tedesco, e i Guelfi divennero un partito, non propugnatore dell'indipendenza nazionale, ma di certe idee o certe persone, e facilmente stromento de' prepotenti e degli scaltriti. Aggiungi che, nella contesa, le reciproche ragioni si eran portate al tribunale del pubblico, che ormai pretenderebbe giudicarne.
Landolfo Seniore invece, parteggiando affatto per l'indipendenza della Chiesa milanese, non solo svisa i fatti contemporanei, ma anche i precedenti, volendo sempre esporli come tipo e specchio de' presenti; esalta tutti i vescovi precedenti, e massime Eriberto da Cantù; trova le virtù e i meriti tutti ne' concubinarj, asserendo con leggerezza e mentendo con impudenza, come avviene de' settarj.
Ottocento anni dopo, Royer Collard in Francia diceva: «Nel 1793 le persone della mia età videro la filosofia del tempo, sostenuta dal terrore, ammogliar alcuni preti. Che preti erano? che donne sposavano? I pochi che restano ancora di tali vergognosi matrimonj stanno sotto la riprovazione universale. La pruova non si rinnoverà; ma se fosse, non esito affermare che il prete ammogliato salendo all'altare desterebbe orrore al nostro popolo cattolico, e l'indignazione pubblica lo dichiarerebbe incapace e indegno del sacerdozio».
Risulta di là che la Spagna non le conobbe mai; che fino al secolo xi uscente non ebbero mai autorità in Italia: a tal segno che nel 1085 il cardinale Otto, il quale fu poi Urbano II, incontrandone primamente alcune in un concilio tedesco, le ripudiò con disprezzo: che l'opera fu compilata in Germania, probabilmente da Benedetto Levita, cherico dell'arcivescovo di Magonza Autcario, verso l'834.
Quanto al fondo, le decretali non toccano pur un punto che già non fosse stabilito; e scopo loro è di sorreggere i diritti de' prelati a fronte de' metropoliti, cioè sostenere l'indipendenza de' vescovi, anzichè ringrandire il potere pontifizio.
Il contemporaneo Geroldo di Reichersperg (nel libro I De investigat. Antichrist. ap. Gretser, Prolegomena ad scriptores adversus Waldenses, cap. 4) dice: Quam ego vellem pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio vel carcere, aut alia pœna præter mortem punitum esse, vel saltem taliter occisum, ut romana Ecclesia sive curia ejus necis quæstione careret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis civibus perpessus fuerat; quare non saltem ab occisi crematione et submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint, sane de doctrina et nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus pravæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus necis perperam actæ videar assensum prœbere.
Del resto, in quei giorni il papa ed i cardinali erano affatto in arbitrio del Barbarossa, che giunse fin a portarli via: e il suddetto Ottone di Frisinga dice: Mane facto, quia victualia nobis defecerant, assumpto papa et cardinalibus cum triumpho victoriæ læti discessimus (p. 989 dell'edizione del Muratori).
Meglio del Tamburini e d'altre meschinità dei Giansenisti del secolo passato, vedi H. Franke, Arnold von Brescia und seine Zeit. Zurigo 1852.