Cesare Cantù
Gli eretici d'Italia

DISCORSO VII CROLLO ALL'ONNIPOTENZA PONTIFICIA. BONIFAZIO VIII E DANTE. CECCO D'ASCOLI.

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DISCORSO VII

 

CROLLO ALL'ONNIPOTENZA PONTIFICIA. BONIFAZIO VIII E DANTE. CECCO D'ASCOLI.

 

Quanto narrammo ci la ragione delle tante declamazioni che si fecero contro Bonifazio VIII, e che la posterità raccolse alla cieca, e ripete oggi ancora, malgrado un potente e sincero apologista156. Questo pontefice assistette al crollo che al potere papale diede la prevalenza dei re, non più solo per cessare la primazia che quello avea pretesa sopra tutti i dominanti della terra, ma per restringerlo ne' singoli paesi coll'astuzia, scassinando la base prima dell'autorità, il rispetto.

La Chiesa ebbe un essere assoluto ed immutabile, come la fede su cui era fondata; ma come unione visibile de' fedeli, era retta da un potere visibile, il quale, concernendo la formale esistenza di essa, non poteva essere che potenziale e progressivo. La predicazione e la fede furono sempre quali sempre saranno: la podestà ne variò insieme colla società dei fedeli, pur sempre attenendosi al cardine della fede, e mercè la visibilità della Chiesa. Il potere di chi governa una società si esercita a misura di ciò che tende a distruggerla: crescendo gli attacchi devono crescere le leggi e le pratiche riparatrici. Nessuno attentando al patrimonio della Chiesa primitiva, nessuna legge occorreva per proteggerlo: il che non vuol dire che in san Pietro non esistesse la facoltà di farla, che trascendessero i suoi successori col farne. Dicasi altrettanto delle leggi e altri mezzi temporali, coi quali via via la Santa Sede dovette tutelarsi, e che variò a misura de' bisogni, fino a restringersi nella monarchia.

Forse che questa era dell'essenza sua? No, mai i romanisti lo asserirono: ma lo svolgimento della società la portava; come l'ignoranza comune e la comune barbarie portarono i pontefici a capo del civile organamento, per la gran legge che attribuisce il governo ai migliori. Qual vantaggio non fu quello di erigere, in mezzo alle potenze armate, una che potesse obbligare senz'armi ad osservare la giustizia, rispettare il matrimonio, mantenere i patti conchiusi coi popoli! Ciò faceasi senz'armi, quasi senza possessi, perchè si credeva, e la coscienza reggeva il mondo; mentre nell'età moderna, ridotta ogni cosa alla materialità degli Stati forti, della coscrizione, dei tributi, l'autorità pontifizia fu pur essa ridotta a ricoverare la sua indipendenza dietro a un trono materiale, ad un esercito, al riconoscimento degli altri Stati. Deporre i re perfidianti, sciogliere i popoli dalla fedeltà verso il principe infedele, erano la vera e solida costituzione d'allora; diritti che oggi si trasferirono alle società segrete e alla ribellione157. Se queste non ne abusarono, imputino la Corte pontificia d'averne abusato. Certo è bene che coll'eccesso spuntò ella medesima le sue armi. Gli avversarj ben s'avvidero che il mezzo di scassinare quell'autorità morale era lo scemarle il rispetto, e a ciò contribuirono grandemente i Fraticelli, persone popolarissime, diffuse tra la plebe, in grand'aspetto di moralità, di povertà, di mortificazioni, e che poteano ripetere: «Ecco come ci maledice una Corte ricca, disonesta, gaudente».

Bonifazio VIII comparve al tempo che la società del medioevo, la quale della fanciullezza serbava tuttavia le ingenuità, veniva tratta nella malizia, non ancora dalla dottrina e dal ragionamento, ma dai principi, che le insegnavano a ricalcitrare contro quella tutela. Vedemmo come i Federichi avessero tentato surrogare la loro alla primazia pontifizia: quel tentativo spiacque ai re, che non voleano cambiar padrone, e perciò fallì. Or ecco i re farsi innanzi a voler rendersi indipendenti dal papa non men che dall'imperatore. Gli ajutò il disordine del grande interregno, succeduto alla deplorata fine degli Hohenstauffen.

Per resistere a questi, i papi aveano dovuto appoggiarsi al perpetuo antagonismo della Francia colla Germania; ma la Francia ne divenne incomoda patrona, e i suoi re, dacchè sentironsi ingagliarditi, rinegarono l'antica devozione per cui erano stati intitolati cristianissimi, e massime dacchè quella corona venne a Filippo il Bello, arguto in tutti i cavilli, a cui sa ricorrere chi vuol riuscire senza esser rattenuto da moralità.

Lo ajutava la posizione del pontefice, piccolo principe in mezzo a baroni ed a Comuni, che o colle prepotenze o coi privilegi impacciavano l'esercizio della sua sovranità; e che trovavasi in contrasto con Carlo di Napoli, il quale chiamato a salvar Roma e l'Italia dalla tirannide degli Hohenstauffen, presto da vassallo era divenuto tiranno della Santa Sede; sicchè, fra le petulanze aristocratiche dei dinasti, e la democratica della plebe, era impacciato nella sua podestà, e i conclavi stessi riuscivano tumultuosi. La Chiesa, che, nel conferimento delle dignità, ripudiò sempre ogni riguardo a distinzione di natali, attenendosi unicamente ai meriti personali, gemeva di vedere il cardinalato e le nunziature affidarsi a taluni, cui unico titolo era l'essere degli Orsini o dei Colonna o dei Savelli; case prevalenti in Roma per armi e per clientele. Esse, con emulazioni prorompenti spesso in guerra civile e in criminosi attentati, s'insinuavano nel concistoro e nel conclave: trescavano a voglia anche nel santuario, e prepotevano nelle cose ecclesiastiche, con tirannide peggiore di quella degli imperatori del secolo precedente, perchè più immediata, e toglievano al pontificato e al sacerdozio quella dignità che traggono dal rimanere superiori alle mondane rivolture.

Dopo un di questi tempestosi conclavi fu eletto pontefice uno, cui la rigida austerità rendea somigliante ai Fraticelli, Pietro Morone che, sulla Majella, alto monte presso Sulmona, erasi proposto d'imitare i solitarj della Tebaide; e che inventò un nuovo Ordine, detto de' Celestini quando, col nome di Celestino V, egli fu portato papa. Ignaro delle rinvolture di questa sciagurata prole d'Adamo, Celestino lasciava deperire il papato fra gl'intrugli de' suoi e le prepotenze degli avversarj, onde egli stesso abdicò, e gli fu surrogato Bonifazio VIII (1294). N'ebbero gran dispiacere quelli che della santa debolezza di Celestino traevano profitto, e non solo dichiararono illegittima l'abdicazione sua e quindi l'elezione di Bonifazio, ma procurarono indur Celestino a tornare sul soglio, e alzare tiara contro tiara. Fu dunque forza circondarlo di cautele e rigori; ed allora eccolo dichiarato martire, e persecutore questo Bonifazio VIII, già tiranno de' poveri Fraticelli.

Bonifazio, de' Cajetani d'Anagno, da' suoi studj e dalla sua devozione avea dedotto un elevato concetto dell'autorità pontifizia e della santità del ministero. A tacere tante istituzioni che non si rannodano al nostro tema, ordinò si celebrasse con rito più solenne la festa de' quattro massimi dottori della Chiesa, Gregorio, Ambrogio, Agostino, Gerolamo, «perocchè i lucidissimi salutari insegnamenti loro illustrarono la Chiesa, la decorarono di virtù, l'educarono ne' costumi; quai splendidi lumi sui candelabri nella Casa di Dio, dissiparono le tenebre degli errori; la loro faconda favella, ispirata dalla grazia celeste, schiude gli enimmi della Scrittura, scioglie i nodi, illumina le oscurità, chiarisce i dubbj; e dai profondi e belli loro sermoni il vasto edifizio della Chiesa sfavilla di gemme primaverili, e dell'eleganza delle parole più gloriosa risplende»158.

Vedendo ormai i re sottrarsi alla supremazia papale, e costituire i regni indipendenti, e di rimpatto i popoli cercare contro la tirannide altre garanzie che la tutela pontifizia, Bonifazio procurò da una parte consolidare il diritto ecclesiastico, pubblicando un sesto libro di Decretali (1298), e dall'altra rinfervorare la fede e la devozione mediante l'istituzione del giubileo, che dovesse ogni cento anni rinnovare l'affratellamento della cristianità alle soglie de' santi apostoli. I cronisti non rifinano di stupire dell'immensa folla, accorrente a Roma per quell'indulgenza, tanto che nuove porte dovettero aprirsi nelle mura: parve miracolo che, fra genti così diverse, nessun disordine nascesse, e che si potesse provederle di vitto e di ricoveri. Se i calcolatori meravigliarono al vedere, nella basilica di san Paolo, cherici che notte e giorno co' rastelli raccoglievano i gittati denari, bisogna non tacere che ducentomila pellegrini ciascun giorno aveano cibo dalla providenza del pontefice, il quale pure sfoggiava tutta la pompa delle cattoliche feste, e invitava Giotto, Oderisi di Gubio ed altri nuovi pittori ad abbellire la sua basilica di pitture, mentre vi s'ispiravano Dante e Giovan Villani.

Quanto più la supremazia papale era impugnata, Bonifazio più fortemente la asseriva, come si può vedere sia in quel vi delle Decretali, sia nella Bolla con cui riconobbe imperatore di Germania Alberto d'Austria, sia nell'altra tanto rinfacciatagli Clericis laicos (1296), dove, lagnandosi che i principi invadessero i beni ecclesiastici, scomunicò qualunque ecclesiastico pagasse, qualunque laico ne esigesse tributi, prestito, donativo senza licenza della Santa Sede: dottrina affatto conforme al diritto canonico, allora generalmente accettato, e più specialmente al canone 44 del concilio iv Lateranense159.

Ora Filippo il Bello, volendo dal lato suo attestare la indipendenza regia, tassava gli ecclesiastici, gl'imprigionava, e dal suo clero fece dichiarare quelle che poi intitolaronsi libertà gallicane, cioè l'obbligo di quella chiesa di obbedire interamente al re, senza che il papa potesse mettervi impedimenti160.

Bonifazio VIII si oppose, e come protesta pubblicò l'altra famosa Bolla Unam sanctam (1302), ove pronunzia che la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, ha per capo Cristo e il suo vicario in terra; la potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure è divina, e chi ad essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore all'ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall'anima il corpo, e quando i re trascorrono gravemente, li può ammonire e ravviare; ogni creatura umana rimane sottoposta al pontefice, ottiene salute chi creda altrimenti. E decretava che imperatori e re dovessero comparire all'udienza apostolica ogni qualvolta fossero citati, «tale essendo la volontà di Noi che, Dio permettente, imperiamo a tutto l'universo».

Era il grido di sbigottimento di un'autorità che civilmente vacillava. E ne nacque lungo conflitto di cavilli, di villanie, infine di violenze. Quel re appoggiossi ai baroni romani, a malcontenti, a fuorusciti, e dicea loro: «Fate me senatore di Roma: io lascerò libera la Chiesa: terrò il patrimonio di San Pietro, incaricandomi d'esigerne le imposte e pagarne i pesi, e darò al papa un lauto assegno, qual basti al rappresentante di Cristo». Indi procedendo mandò un suo cavaliere, il quale a Bonifazio, ch'e' chiamava Malifazio, intimò un libello, dichiarandolo falso, intruso, ladrone, nemico di Dio e degli uomini; e, secondo lo spirito de' tempi, gli rinfacciava un cumulo di eresie, ricalcate sul materialismo incredulo di Federico II. Quando e' l'ebbe esposto al disprezzo, Sciarra Colonna concitò la turba a gridargli morte; lo ingiuriò nella persona, lo schiaffeggiò; - il re di Francia facea schiaffeggiare lui papa di ottantasei anni, e la plebe sedotta e gli avvocati seduttori applaudivangli del tenerlo prigione: finchè il popolo ravveduto lo liberò; e presto pianse sul venerato sepolcro di esso (1303).

però l'ira de' nemici si spense, e vituperò la memoria di lui, col quale in fatto cessò il montare della potenza pontifizia; lo schiaffo datogli segnò il discendere del papato civile; e perchè questo in lui apparve personeggiato, Bonifazio trovasi più percosso, come avviene all'ultimo ritegno d'ogni rivoluzione.

Il re di Francia comprese quanto vantaggerebbe di denaro e d'influenza se rimovesse la santa sede da Roma per trasferirla nel suo paese, come ai nostri divisava Napoleone. ebbe troppa difficoltà a indurre il nuovo pontefice Clemente V a collocarsi in Francia (1309), e da quel punto cominciano quelli che gli Italiani qualificarono settantadue anni di cattività di Babilonia.

Re Filippo era lieto, ma non pago della sua vendetta; insultato in vita e spinto alla morte Bonifazio, anche dopo la tomba lo voleva disonorare, piuttosto disonorare la potestà pontifizia, che in lui avea voluta prostrare. A Clemente, sbigottito dai martirj del predecessore, mise attorno tale assedio, che l'indusse ad abolir l'Ordine dei Templari, e lasciargliene carpire le facoltà. Poi volle processasse Bonifazio di eresia: e fu veramente dato questo scandalo da un papa che non risedeva più in terra propria; e Clemente 13 settembre 1309 da Avignone notificava ai presenti e ai futuri, qualmente re Filippo, per zelo di fede e di pietà e per giovare alla Chiesa, avesselo pregato d'ascoltare alcuni signori, che asserivano Bonifazio esser morto eretico, e doversene condannare la memoria: per quanto gli pesasse il credere ciò, pure, essendo l'eresia il peggiore dei delitti, viepiù detestabile per la persona che n'era accagionata, dovendosi lasciarlo senza esame, assegnava il tempo a quei testimonj di comparire e deporre.

Se si fosse dichiarato eretico un papa, cioè interrotta la successione apostolica, Filippo avrebbe assicurato il trionfo della forza sul pensiero, dei governi sulla Chiesa, talchè ormai i re avrebbero potuto quel che voleano. Adunque la cristianità indipendente reclamò contro la scandalosa procedura: eppure in pieno concistoro disputarono accusatori e difensori, imputando Bonifazio d'essersi mostrato avverso a re Filippo in tutte le sue costituzioni, e inoltre ateo, e contaminato di tutte le conseguenze di tale dottrina; in occasione del giubileo avere detto agli ambasciadori di Lucca, di Firenze, di Bologna non doversi credere l'immortalità dell'anima, la futura distruzione del mondo, la divinità di Cristo. L'enormità stessa delle accuse le palesa false: e l'avere trovato chi le sosteneva attesta con quali arti le appoggiasse re Filippo. Il quale, se lasciò per allora mandare l'accusa agli archivj, ottenne una Bolla ove egli era dichiarato egregio difensore della Chiesa in quanto aveva operato contro Bonifazio; resigli tutti i privilegi tolti; ordinato che dai registri papali si cancellassero le lettere pontificie avverse a lui; a Bonifazio non restò neppure la pietà, che suole accompagnare le vittime della tirannide.

L'accenno che abbiamo fatto de' Templari, ci mena ad altra qualità di eretici. Era quello un Ordine cavalleresco e religioso, istituito per proteggere i pellegrini che visitavano il tempio di Gerusalemme. Vi entravano i cadetti di grandi famiglie; ed arricchitisi d'eredità e di commende, si diffusero per tutta Europa. Perduta Terrasanta, mancò il principale esercizio di loro attività, e abbandonaronsi alle tentazioni della giovinezza ricca ed oziante. Allora fu detto si costituissero in società di eresia e di peccato; e poichè secretissime tenevansi le loro iniziazioni, il vulgo vi suppose qualcosa di straordinariamente scellerato. Fomentò l'opinione Filippo il Bello, e fingendosi zelatore del buon costume per mettere gli artigli sulle immense loro ricchezze, domandò al papa abolisse quell'Ordine. Arrestati a un tratto tutti i cavalieri, processati colla durezza allora consueta, furono la più parte messi a morte.

Le variissime accuse a loro apposte si possono ridurre a queste: che rinnegassero la fede, bestemmiassero Cristo, Maria e i Santi; calpestassero e deturpassero le croci; nel consacrare tacessero la formola sacramentale; il maestro assolvesse i peccati, sebbene laico; adorassero la testa di Bafomet, idolo sopra il quale assai si fantasticò; e portassero cingoli benedetti dal contatto di esso: usassero fra loro baci indecenti; peccassero contro natura; tutto facessero con gran segretezza. Quest'ultimo fatto almeno era vero. È abbastanza noto quel processo, condotto colla passione e in gran parte coi modi, che nel secolo scorso fecero abolire un altr'Ordine ancor più famoso e riviviscente; e duole che Clemente V e il XV concilio ecumenico, tenuto a Vienna delle Gallie il 1311, vi assentissero.

In Italia si operò con maggiore umanità. Molti tribunali, come a Bologna e Ravenna161, li dichiararono incolpevoli. In Toscana aveano numerose case, ed è vero che il papa nel 1307 scriveva agli arcivescovi di Pisa, Ravenna ed altri che assumessero informazioni sui Templari, ma non che s'adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì il Tronci, dal 20 settembre al 23 ottobre 1308. Il processo contro i Templari di Lombardia e Toscana fu fatto in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di Pisa, Antonio vescovo di Firenze, Pietro de' Giudici di Roma canonico di Verona, i quali nel 1312 ne diedero al papa un ragguaglio, che conservasi nella Vaticana, legalizzato da nodaro e testimonj162. Il papa avea trasmesso cenventiquattro e più articoli, sui quali esaminarli: e gl'inquisiti erano cinque a Firenze, uno a Lucca. Furono esaminati senza le torture consuete in Francia, non perchè i tribunali ecclesiastici non le usassero, che anzi in quel processo parlasi delle deposizioni di sette altri fratelli di minor conto, le quali non pareano attendibili, licet, debito modo servato, eosdem exposuerimus coactionibus et tormentis. Inoltre gli accusati non doveano temere, confessando, di andare al rogo siccome in Francia, atteso che qui li giudicava un tribunale ecclesiastico, le cui pene erano il pentimento e la ritrattazione. Ciò cresce credito alla loro deposizione, che giurano aver fatta non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed pro veritate tantum.

Delle accuse alcune ammettonsi generalmente; altre solo da alcuni, o per casi e persone speciali, o soltanto come d'udita, o come d'uso di dal mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei capitoli e alla bestemmia miscredente.

Se dunque gli scellerati processi fatti loro in Francia invitano a crederli innocenti e vittime dell'avidità di Filippo il Bello, la calma con cui procedette la Chiesa, i processi istituiti regolarmente in Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni, senza violenze, lasciano supporre che molti de' Templari fossero rei, e che col re di Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale, col sopprimere l'ordine non de jure sed per viam provisionis, salvò individui innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità, applicandoli alla difesa di Terrasanta.

A ogni modo quest'era un sagrifizio ch'egli faceva alla paura di vedere la memoria di Bonifazio VIII chiamata a un processo capzioso di che Filippo era maestro: processo al quale predisponeva l'opinione Dante, esecrando quel pontefice ben nove volte nella Divina Commedia.

Questo nome del grande che ritrae l'austera fisionomia del medioevo, e irradia i crepuscoli della rinascenza, ci porta a indicare coloro che il poeta teologo, che il verseggiatore della scolastica vollero noverare fra gli eretici, fosse per denigrarlo, fosse per trovare precursori ai Protestanti del secolo xvi. Ed è vero che Dante rimprovera acremente i pontefici; più d'uno ne relega nel suo Inferno, e nominatamente Bonifazio VIII, non ancora morto. Quella collera che spesso invade i grand'uomini allorchè si trovano sconosciuti o perseguitati, ispirò l'esule ghibellino. E come tale, persuaso che la pace fra i piccoli potentati non possa assodarsi se non quando tutti obbediscano a un signore supremo, s'inviperiva contro coloro che reluttavano alla dominazione dell'imperatore, come Pisa, Pistoja, Genova, la Lombardia; Bruto e Cassio tormenta nel peggiore fondo dell'inferno con Giuda; in paradiso vede preparato un trono per l'imperatore Enrico VII; la serva Italia è ostello di dolore perchè non lascia che Alberto Tedesco inforchi gli arcioni di essa; e a questo impreca perchè non viene a vedere la sua Roma che piange.

Col sentimento stesso avventasi contro i papi, benchè allora fossero sconfitti e raminghi: e Bonifazio VIII che, favorendo Carlo di Valois (1301), avea cagionato la cacciata dei Bianchi da Firenze, è preso ogni tratto a bersaglio dall'iracondo fuoruscito.

In libri lodatissimi venne difesa la memoria di questo pontefice contro le declamazioni del poeta163. Il vero è che Dante non combatteva tanto la Corte romana quanto la democrazia; svelenivasi contro i nuovi tiranni che aveano abbattuto i vecchi baroni, contro la gente nuova e di guadagno ch'era prevalsa alla semenza santa delle stirpi conquistatrici; combatteva insomma pel passato che crollava, sempre nell'intento di surrogare alla delirante plebe il dominio de' migliori, de' sapienti.

E le sue invettive contro i pontefici, quando non siano da spirito di partito e di vendetta, sono dettate dal desiderio di vedere la santa sede così pura e splendida come meritava il posto di Cristo e di san Pietro; doleasi che tuttodì si mercasse Cristo; che lupi rapaci, in veste di pastori, si facessero Dio dell'oro e dell'argento; che coll'abuso delle scomuniche si togliesse or quinci or quindi il pane che il pio padre non serra a nessuno: che Caorsini e Guaschi s'inebriassero del sangue di Cristo; benediva san Francesco d'avere ajutato a rimettere la barca di Pietro sulla retta via164; sempre professa «riverenza alle somme chiavi»: sa che al cielo non si va se non accogliendosi «dove l'acqua di Tevere s'insala»: crede che Troja ed Enea e Roma fossero preparazioni del «luogo santo ove siede il successore del maggior Piero»165: e all'insulto che il re di Francia reca a Bonifazio VIII freme perchè sia «Cristo catturato nel vicario suo, e rinnovellati l'aceto e il fiele»166. Morto Clemente V, dirige una lettera ai cardinali adunati in Carpentrasso, acciocchè eleggano un papa italiano che ritorni a quella Roma, di cui perfino i sassi pareangli venerabili167.

Ed è comune agli Italiani d'allora questo sentimento d'indignazione contro i papi che, trasferendosi in Francia, aveano legato la Chiesa allo sgabello d'un re: note sono le invettive del Petrarca e i gemebondi viaggi di Caterina da Siena: pare v'alludesse anche il Boccaccio168: Cola di Rienzo non voleva abbattere il papato, anzi restaurarlo, e dal carcere di Boemia scriveva ad Ernesto di Parbubitz arcivescovo di Praga, com'egli non si tenesse che investito del potere legittimo dal pastore supremo; avere assunta la podestà tribunicia per odio alla senatoria oppressiva del popolo, e per cercare d'abbattere i baroni romani, e ridur la città santa, ch'è capo del mondo e fondamento della fede cristiana, in pacifica e sicura stanza dei papi. E Dante volea riforme, ma capiva sarebbero sterili senza l'unità, sia teocratica, sia imperiale; e l'uomo e il cittadino sottoponeva a un capo. Riprovava insomma i pontefici perchè erano o li supponeva traviati; mancando, se vogliasi, di rispetto, non di fede.

L'opinione di Dante poeta si accorda col suo concetto della monarchia, da noi altrove indicato, e ch'egli espose in un'opera apposita169. Impero e Chiesa pretendevano essere istituzioni divine e necessarie: le loro supreme funzioni sono accessibili a chiunque, purchè cristiano, il papato, l'impero essendo ereditarj; e tutt'e due debbono le loro cure all'intero mondo.

L'ordine religioso dunque e il politico costituivano due società, entrambe universali, distinte ma non separate; e Dante, che, nel vedere quegli incessanti cozzi dei piccoli Stati, era venuto nella persuasione non potessero aver pace se non ridotti all'unità, cerca accordare i due ordini per compiere l'opera sociale del cristianesimo: voleva ci fosse un padrone supremo delle società umane, ma per dirigerle al progresso, per tirare le conseguenze pratiche dai principj cristiani. L'imperatore, nel concetto di Dante, doveva avere predominio sopra tutti i re, dunque anche sopra il re di Roma: mentre allora Bonifazio VIII, e più Giovanni XXII pretendeano a se medesimi l'autorità imperatoria, massime allorchè fosse disputata.

Oh come dunque immiseriscono la quistione que' controversisti d'oggi, che suppongono Dante contendesse al pontefice quel piccolo territorio ch'è patrimonio suo temporale! Esclama egli contro Costantino, non perchè lasciasse le Romagne al papa, ma perchè gli trasmettesse la dignità imperiale, secondo asserivano le favole giuridiche del suo tempo e le pretensioni guelfe; e più chiaramente nel libro iii, capo 10 della Monarchia riprende esso Costantino d'aver lasciata ai papi la podestà imperiale, questa non potendosi dividere: col che confuta i Guelfi, i quali ne arguivano che le dignità non potessero riceversi se non dal papa. Del resto egli esalta Carlomagno che, quando il dente longobardo attentò alla Chiesa, la raccolse sotto le sue ale vincendo: e ognun sa che Carlomagno fu l'assertore della sovranità temporale dei papi: esalta la contessa Matilde, la più larga donatrice di beni ai papi. Non volea dunque privarneli esso, bensì che gli adoprassero per Terrasanta e per l'Italia, anzichè sciuparli con Caorsini e Guaschi, e intanto lasciare deserto dai papi il giardino dell'impero. Pure per quel suo libro della Monarchia, dove sostiene che l'imperatore non dipende dal papa se non nelle cose spettanti al Foro interiore, Dante venne tacciato d'eretico, non solo da qualche inquisitore, ma dal famoso giurista Bartolo170; da cui lo difese sant'Antonino. Altri dappoi vollero farlo credere non solo seguace, ma corifeo di opinioni ereticali. Duplessis Mornai, detto il papa de' Calvinisti, ne addusse molte opinioni171 non conformi al cattolicismo, ma Coeffetau rispondendogli rifletteva che Dante riprovò alcuni papi, non la dignità stessa. Il cardinal Bellarmino confutava un libello, che nel secolo xvi erasi pubblicato da un Protestante col titolo d'Avviso piacevole dato alla bella Italia da un nobile giovane francese, ove Dante era dipinto come avverso alle istituzioni cattoliche, o almeno all'autorità dei papi. Il famoso paradossista padre Hardouin nel 1727 asserì che l'autore della Divina Commedia fosse un impostore, mascherato seguace di dogmi eterodossi. Il secolo nostro, destinato a resuscitare tutte le stravaganze dei passati, ripetè quella bizzarria, prima per bocca d'un erudito, poi di Ugo Foscolo172 e di Gabriele Rossetti173, i quali, rifuggiti in Inghilterra, vollero ingrazianirsi quegli ospiti, sostenendo che Dante volesse «riordinare per mezzo di celesti rivelazioni la religione di Cristo e l'Italia», e così additando un ascendente illustre alla gran negazione. Dietro loro con multiforme erudizione e logica serrata Eugenio Aroux assunse che tutte le opere di Dante sono un'esposizione174 ereticale, ed aspirazioni rivoluzionarie e socialiste175.

Il costoro concetto sarebbe che le scuole patarine non fossero mai spente in Italia, ma vivessero in congreghe secrete, in una specie di framassoneria, dove tramandavansi arcanamente certe dottrine, tendenti alla libertà del pensiero e degli atti, a scassinare l'autorità della Chiesa e de' governi. Il Rossetti gli aveva intitolati Misteri dell'amor platonico.

La Chiesa cristiana era (a dir loro) divisa in due, allora appunto che più integra ne pareva l'unità: il genio protestante passò di generazione in generazione fino a coloro che altamente lo proclamarono nel secolo xvi, quando non fu novità, ma manifestazione delle persuasioni de' secoli precedenti. Anzi il Veltro di Dante era una profezia, dove fin le lettere stravolte esprimono il nome di Lutero. Doversi pertanto in questo senso intendere tutta la poesia nostra, elevata così a significazione sociale. E poichè non v'ha bizzarria che coll'ingegno non possa sostenersi, il Rossetti fe un curioso pellegrinaggio traverso alla letteratura patria con questo intendimento, in cinque volumi d'improba fatica pretendendo mostrare che i poeti nostri non si perdevano dietro la vanità di amori, siccome pare dalle loro rime, ma sotto quell'apparenza celavano la ricerca di verità superne, e la donna che fingeano vagheggiare non era Beatrice o Laura, ma la libera Chiesa: e tutto ravvicinò ai riti massonici, che ormai non sono più un mistero neppure ai profani.

Senza scendere a particolarità, la minima nozione d'estetica fa repudiare un sistema, ove la poesia non sarebbe più ispirazione, ma allusione; ove si celebrerebbero persone e vezzi mancanti d'ogni verità. E ciò a qual fine? La moltitudine, cioè quella per cui si poeteggia, non poteva intenderne nulla; gli iniziati soli gustavano queste allegorie; ma a che pro, se già aveano ricevuta la rivelazione dell'arcano? E se così profondamente coprivano il loro odio contro Roma, perchè poi volta a volta lo rivelavano con aperte invettive? Sta bene che Dante chiami i sani intelletti a mirar la dottrina che asconde sotto il velame de' suoi versi; ma perchè dare fumo di queste allusioni se doveano restare arcane? E se non osava proclamare il vero, come vantavasi poi d'avere voce che «percoteva le più alte cime», e d'essere «non timido amico del vero», e di sperare per ciò di conservare fama presso coloro che il tempo suo chiamerebbero antico? Non meriterebbe invece di stare o coi pigri «a Dio spiacenti ed ai nemici sui»176 o cogli ipocriti che stanno «nella Chiesa coi santi, ed in taverna coi ghiottoni177.

Il signor Aroux ampliò il tema, supponendo di quell'eresia intaccata tutta la cavalleria d'allora, e specialmente coloro che sopravvissero dei Templari, i quali, attraverso ai secoli, giunsero ad istituire ai nostri una nuova categoria di franchimuratori. Dalle fonti più varie l'Aroux trae argomenti per sostenere che Dante volesse mostrare la supremazia papale essere il regno visibile di Satana, in quella che è commedia del cattolicismo. Per esempio, quando Dante dice che si dee, per salvarsi, seguire il pastore della Chiesa, intendeva il capo di quell'arcana religione, di cui era non solo adepto, ma apostolo178. Era cioè dell'Ordine dei Templari, e volea vendicare sui papi la crociata contro gli Albigesi e la distruzione del Tempio. Ove si noti che i Templari aveano ricevuto la regola loro da san Bernardo179, e Dante li nomina o accenna allora soltanto quando bestemmia Filippo il Bello d'avere cacciato le mani avide nel Tempio senza decreto180.

La parola amore è la chiave di tutti que' misteri: Francesca non è più l'amante di Paolo, bensì la chiesa protestante di Rimini, uno de' focolaj dell'eresia. Il poeta, vinto da pietà per le dame antiche e i cavalieri, i quali eransi dipartiti dalla vita ghibellina per inclinare al cattolicismo, vede Paolo e Francesca, fedeli d'amore, leggeri al vento per la facilità nel cambiare al vento guelfo, che li spinse a seguire la Semiramide pontificia: il re dell'universo è Alberto tedesco, che, se fosse amico, darebbe pace a Dante; il qual Dante si fa tristo e pio, cioè ipocrita di papismo, per non esporsi ai martirj de' due amanti; il disiato riso di Francesca - intelligenza, baciata da Paolo - volontà, non significa che l'avidità con cui l'iniziato raccoglie la dottrina dalla bocca della filosofia razionale.....

Il sistema del signore Aroux non trovò assenso negli studiosi; in Italia poi egli si lagna che nessuno vi avesse fatto mente, eccettuato me, che gli diressi a stampa una lettera, dov'egli riconosce non solo un'amichevole cortesia nella contraddizione, ma qualche argomento cui non valeva a ribattere. E a chiunque abbia senso del bello domandiamo se sia possibile mai formare un poema, e così sublime, ove dovesse sempre intendersi diverso da quel che si legge. Dante scrive donare, e deve leggersi dona re; le verità più austere sulla Trinità, le confessioni più esplicite dell'autorità del papa, vere clariger regni cœlorum, che secundum revelata, humanum genus perducit ad vitam æternam; le lodi a san Bernardo, a san Domenico, sono finzioni e ironie: i commenti fatti nel Convivio alle canzoni vanno applicati alla Divina Commedia; la distinzione de' linguaggi nel Vulgare Eloquio esprime distinzione di partiti e credenze, e con queste chiavi Dante commentò se stesso in modo, che i Guelfi intendessero una cosa, i Ghibellini l'opposta. E tutto ciò nel poeta che vantavasi.

 

Io mi son un che, quando

Amore spira, noto, ed in quel modo

Ch'ei detta dentro, vo significando.

 

Certamente l'Alighieri serba quella scienza moderata che non presume spiegare tutto; non dubita della teologia, come neppure della filosofia; crede alla forza del sillogismo, agli artifizj della scolastica per raggiungere la verità; ammira la sapienza di Dio e la provvidenza, anzichè abbandonarsi alla scienza stanca e disillusa che, non credendo più nulla, a nulla conduce. Rimproverato ai Cristiani di non acquetarsi alle ragioni, giacchè, se avessero potuto sapere tutto, non era mestieri della rivelazione181, fa la più esplicita professione di fede davanti a san Pietro prima d'entrare nell'empireo182, e sa che per giungere alla salute ci vuol di credere al vecchio e al nuovo Testamento, e all'interpretazione che ne la Chiesa183.

V'è di più: egli riprova esplicitamente l'eresia: a «quei che presumono contro la nostra fede parlare», grida: «Maledetti siate voi, e la vostra presunzione e chi a voi crede»184: inneggia san Domenico «che negli sterpi eretici percosse»: nell'inferno vede le arche infocate piene di eretici. Forse erano gente che, in opposto della vita penitente e ascetica d'allora, cercavano i godimenti e l'oblio: ed erano intitolati Epicurei. La loro sètta era molto diffusa in Firenze nel 1115 e 1117, sotto i quali anni Ricordano Malaspini e Giovan Villani attribuiscono i ricorrenti incendj a giudizio di Dio contro la serpeggiante eresia: e il Villani dice altrove che i Patarini erano «epicurei per vizio di lussuria e di gola, che con armata mano difendevano l'eresia contro i buoni e cattolici cristiani».

Dante colloca Federico II nell'inferno tra gli eretici con più di mille, e tra essi Farinata sommo cittadino e Cavalcante Cavalcanti gran dotto, e padre del suo amicissimo185. Del primo, il commentatore Benvenuto da Imola riferisce che credeva il paradiso non doversi cercare se non in questo mondo; l'altro asseriva che uomini e bestie finiscono al modo eguale (unus est interitus hominis et jumentorum), e anche il Boccaccio ce lo dipinge che «alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva; e si diceva tra la gente vulgare, che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovarsi potesse che Iddio non fosse».

Al tempo di Dante erasi così lontani dal supporlo eretico, che l'intitolavano Theologus Dantes, nullius dogmatis expers: dopochè morì avvolto nel sajo di san Francesco, non che un legato pontifizio avesse intenzione di disperderne le ossa, queste riposarono benedette in chiesa, dove un legato pontifizio gli eresse un mausoleo, più benigno a lui che non la patria: subito si istituirono cattedre per ispiegarlo, e spesso in chiesa: ed era spiegato al concilio di Costanza, e frà Giovanni da Serravalle, minorita, a istanza de' prelati ivi raccolti, lo tradusse in prosa latina con commenti: nelle Logge Vaticane fu dipinto tra i padri della Chiesa; la sua effigie pendette a Firenze in Santa Maria del Fiore, come ai nostri vi fu messo sulla facciata di Santa Croce. Quando nel 1865 la radunata Italia volle celebrare il vi centenario della nascita di esso, l'iracondia da cui è ossessa la rivoluzione nostra volle palesarsi col celebrare l'inimicizia di Dante pei papi e per la religione. Ma mentre il vulgo ufficiale e scribacchiante diguazzava tra quel fango, i meglio pensatori e scrittori d'Italia s'elevarono a rivendicare il vero, e a presentare in Dante il poeta iracondo, accannito contro Bonifazio VIII personale nemico della sua fazione, indignato contro gli abusi della Corte pontifizia, allora oppressa dalla demagogia e dai re, ma pur sempre riverente alle somme chiavi, e attaccato a quella fede, che in Roma ha il centro e gl'interpreti legittimi.

In relazione a quanto sponemmo nel capitolo precedente, noteremo come l'inclinazione al misticismo fosse comune a Dante e a' suoi amici, malgrado lo studio della filosofia e delle scienze naturali e della politica: Dante sta a meditare sul sasso rimpetto a Santa Riparata: Cavalcante fra gli avelli di Santa Maria Novella cerca se si trovasse modo di negare Dio. Per Dante la filosofia era una scienza che vede tutto in Dio, tutto da lui deriva e a lui riferisce; indaga il volere e la parola di Dio; nella natura egli vede simboli del soprannaturale: sotto tale aspetto guardò Beatrice «vestita di gentilezza, d'amore e di fede»186, col che seguiva l'andazzo del suo tempo, l'educazione ricevuta, la complessiva tendenza della mente e dell'animo. Giovane, pensa farsi frate, e muore con la cocolla di frate: al par de' Fraticelli rimprovera i papi che si danno al lusso e alle cure mondane. E già nella Vita Nuova vedesi la trasformazione di Beatrice in simbolo, finchè nella Commedia quest'amor suo è convertito in desiderio beatifico della somma verità che lo conduce a Dio, attraverso la contemplazione de' tormenti e dell'espiazione.

Avversissimo a Dante si mostrò Cecco Stabili di Ascoli, che fu astrologo di Firenze, e compose un poema intitolato L'Acerba, volendo indicare un acervo o mucchio di cognizioni umane varie; poema filosofico bello di poesia, ricco di dottrina, ove in cinque rubriche o libri, parlato della scienza, nel sesto parla della rivelazione. La scienza ha secondo i tempi, ma ripetutamente batte Averroè187 e la sua scuola: nella rivelazione accetta affatto quel che la Chiesa, se non che qui pure mescola ciò che predomina nelle altre parti, la magia e l'astrologia; chiama «cieca gente e storpi intelletti» quelli che non conoscono il linguaggio de' corpi celesti, sanno indovinare il futuro, che sprezzavano l'astrologia, parlando «secondo il tempo antico»; credeva a un genio familiare, detto Florone, a' cui responsi sostenea doversi aver fede, sebbene talvolta inganni cogli oracoli suoi, come quando a re Manfredi rispose, Vincerai non morrai.

Le quali e ben più estese follie espone a lungo non solo, ma pretende persuaderle altrui; e lo fece a Bologna commentando la Sfera del Sacrobosco, e a Firenze mediante l'Acerba. Nel proemio all'esposizione del Sacrobosco dice che «molti si promettono giudicare della vita e della morte, e delle cose future mediante arti magiche, le quali sono da santa Madre Chiesa riprovate vituperevolmente (vituperabiliter improbata): e alle cinque scienze magiche, mantica, matematica, sortilegio, prestigio, maleficio prevale l'astronomia, cioè la rivelazione delle intelligenze mediante il cielo, al quale son note tutte le cose». Dalla magia anzi deduce pruove della divinità di Cristo, scrivendo: «Che Cristo fosse veramente figliuol di Dio ci è manifestato da molte cose, e primamente per i tre magi, i quali furono i maggiori astrologi che avesse il mondo, e seppero tutti i segni della natura». Ciò nel trattato della Sfera, dove pone ancora generarsi ne' cieli alcuni spiriti maligni, i quali, sotto l'influenza di certe costellazioni, valevano ad operar cose meravigliose: sotto una di tali costellazioni esser nato Cristo, perciò rimasto povero; mentre sotto un'altra verrebbe l'anticristo, la quale lo farebbe ricco. E tutta l'esposizione, come tutta l'Acerba, è un esaltamento delle varie guise di magia.

Eppure Guglielmo Libri, grand'encomiatore di chiunque fu censurato dalla Chiesa e viceversa, osa vantar quel poema come una vera enciclopedia, e che «l'autore fu uomo dotto non solo, ma di elevati sensi, e sarebbe omai tempo che gl'Italiani cominciassero a venerar la sua memoria, vittima non della sola inquisizione»188. Eppure basta scorrer l'opera di Cecco per convincersi come a torto e' gli dia merito di molte verità, le quali esso o accenna confusamente o confuta. Tra quest'ultime è, che la terra sia sostenuta da due forze, una che la tira, una che la respinge, e che noi ora chiamiamo centripeta e centrifuga; ma Cecco riprova altamente alcuni ascolitani e fiorentini che ciò sostenevano, e che probabilmente erano Guido Cavalcanti e Dino del Garbo famoso medico, i quali esso bersaglia. E se veramente Cecco fu medico, il merito principale di quest'arte riponeva nel conoscere, per via delle stelle, quali infermità sieno mortali, e quali no: altro motivo per cui esso Dino gli si palesò avversissimo.

E contro Dante si svelenisce più volte Cecco, asserendo che andò all'inferno e più non risalì, anzi rimase nel basso centro, ove il condusse la sua fede poca; e confutandone le dottrine più rette intorno al libero arbitrio dell'uomo, e accusandolo d'aver amato con desio una donna, e lodato le virtù di un sesso, del quale egli non rifina di dir ogni male, non eccettuando nessuna. Di rimpatto, esso pretende innovar lo scibile, e per esso la vita umana nell'attuazione intellettuale, morale, religiosa, professando il materialismo e il comunismo; l'astrologia, le scienze occulte, con mille superstizioni e fanciullaggini; insegnando, anzi esortando agli incantesimi; inveendo contro chi non gli ammette189.

Le magie e i sortilegi non erano spettanza dell'Inquisizione, siccome leggemmo nella Maestrazza, se già manifestamente non tenessero alcuna resia190.

Tale appunto era il caso di Cecco. Giovanni Villani narra191 che, nel trattato sopra la Sfera, avea messo che per incantamenti sotto certe costellazioni possono costringersi gli spiriti maligni a far cose meravigliose; che l'influenze delle stelle portano necessità, ed altre cose contro la fede. L'inquisitore lo riprovò, e gli fe giurare di non adoprar più questo libro, ma esso l'usò di nuovo a Firenze, onde fu preso dal cancelliere del duca d'Atene, allora dominante.

E un libretto contemporaneo, conservato in più biblioteche, particolareggia come frà Lamberto da Cingoli, inquisitore in Bologna, a' 16 dicembre 1324 lo condannò perchè avesse scompostamente parlato della fede, e obbligatolo a una confessione generale e a certe penitenze, gli tolse tutti i suoi libri d'astrologia, e gli proibì di più leggere questa scienza, e privollo dell'onor del dottorato e di qualunque magistrato. Quel processo fu mandato a frate Acursio fiorentino de' Minori Osservanti, a 17 luglio 1327, il quale citatolo, lo pronunciò eretico, e lo rimise al braccio secolare, onde il medesimo fu fatto bruciare. Della sentenza ecco le parti principali:

 

Precedente la fama pubblica sparsa da molte persone degne di fede, ci venne all'orecchio che maestro Cecco, figliuolo dell'illustrissimo Simone Stabili da Ascoli, andava spargendo per la città di Firenze molte eresie; e quello ch'è cosa più brutta, dava a leggere per le scuole pubbliche un certo suo eretico libretto, fatto da lui sopra la sfera celeste, contro al giuramento altre volte da lui dato. Facemmo alla presenza nostra venire il detto Cecco: e nella esamina, ricevendo prima il giuramento di dire la verità, senz'altra strettezza o forza, ma di sua libera e spontanea volontà, disse e confessò:

Come, essendo già stato citato e richiesto da frate Lamberto di Cingula, inquisitore nella provincia della Lombardia, confessò com'egli aveva insegnato per le scuole, che l'uomo poteva nascere sotto tale costellazione, che necessariamente sarebbe o ricco o povero, e simile: se Dio già non mutasse l'ordine di natura. Che aveva con giuramento promesso al detto frate Lamberto di lasciare ogni eresia e credenza, e ogni favore degli eretici, massime degli astrologi, e osservare la fede cattolica, e che ricevette la penitenza. E che, dopo dato il giuramento e fatto la penitenza, poi che venne a Firenze gli fu domandato se, per scienza astrologica, si potea sapere la fortuna o disgrazia di un esercito o di un principe, e rispose che sì: perchè una cosa che è possibile, disse, si può comprendere per mezzo di una scienza. E confessò aver consigliato i signori non esser bene per ora combattere coi nostri soldati contro il Bavaro; ma che se li concedesse il passo, infino a tanto che, con vera scienza di astrologia si potesse pigliare il tempo e il giorno atto alla guerra. E disse credere che le predette cose si possono sapere per scienza di astrologia, e che non crede esser questo contro la fede. Asserì che aveva fatto più profitto nell'astrologia, che alcun altro, da Tolomeo in qua. Confessò, che, domandato da un Fiorentino che gli dichiarasse il libro dell'Alcabizzo, che tratta de' segni e cognizione de' segni, della natività degli uomini, e dello eleggere i tempi del comprare, del vendere, e degli altri atti ed esercizj umani, gli disse che aveva fatto un comento sopra detto libro, e che perciò procurasse di averlo. Disse aver composto un libro sopra la sfera. Ora, le cose che si contengono in detto libro, non viste per detto inquisitore, sono contrarie alla natura e nimiche alla verità cattolica. Che cosa più eretica, e più a Dio e agli uomini infesta che dire, per la necessità de' corpi superiori e virtù delle costellazioni, come dice un tal libro, Gesù Cristo nascesse povero? Che Anticristo abbia a nascere da una vergine, e che abbia a venire duemila anni dopo Gesù Cristo, in forma di soldato valente, accompagnato da nobili, e non come poltrone accompagnato da poltroni? Qual maggiore eretica falsità che il porre l'ora, il luogo, la qualità della morte, le quali cose sono al tutto incognite al genere umano? E nelle azioni umane, col giudicare secondo la disposizione e operazione de' corpi celesti si toglie al tutto il libero arbitrio, e per conseguenza il merito e il demerito. E benchè egli al presente preponesse la divina potenza e il libero arbitrio, nondimeno è stato convinto per testimonj che hanno deposto contro di lui. E quando si avesse a oprare con tale supposizione, che cosa si potrebbe fare col libero arbitrio? vengono scusati tali errori dicendo, che queste cose non procedono di necessità, dicendo. La scienza dimostra quello che tu pensi, che porti chiuso in mano. Perchè così in fatto suppone, e con le parole nega. scusato debb'essere dicendo che crede non essere contro la fede pigliare il tempo, eleggere guerra, e simile; che sarebbe una ignoranza molto grossa, anzi un'opinione eretica. Il dire ancora i suoi scritti essere stati corretti per il detto inquisitore di Bologna, questo non è vero verosimile, anzi contrario, come apparisce per le proprie lettere dello stesso inquisitore. E posto che fussino corretti, egli se n'è servito ne' casi dove sono i maggiori errori. debbe scusare che in fine delli detti scritti esprime che, se in quelli fossero alcune cose non ben dette, di rimettersi alla cognizione della santa Madre Chiesa; perchè in quella si sono trovate espresse eresie, scritte dopo aver giurato; e basta che una sola volta abbia ingannato la Chiesa; perchè questa protestazione è indirettamente contraria al fatto stesso, e l'aggrava maggiormente. E siccome non possiamo dobbiamo passare tali e tante cose fatte per lo detto maestro delli errori, in dispregio dell'Eterna Maestà e per lesione della fede cristiana, considerata la sentenza data per frate Lamberto contro di lui, e il giuramento ch'esso fece, e la penitenza che ricevè, della quale non si curando, dice non si ricordare; e viste le altre cose che dal medesimo inquisitore abbiamo ricevuto, e udito i testimonj e le sue confessioni, e datoli il termine per finirle, e scusarsi; e poichè fece alcuna scusa, fare procurò, e, nel giorno che seguiva detto termine, quelle raffermò di sua spontanea volontà, e disse di nuovo essere vere; conferita la cosa con prelati, e molte altre persone e dottori di legge, e consigliandoci doversi procedere alla sentenza, come cascato nella pena dell'inosservanza del giuramento dato di non attendere più all'eresia, e avuto sopra le predette cose nuovo parlamento con più e diverse persone, religiosi teologi, e con altri tanto chierici che laici, pronunziamo il detto maestro Cecco, eretico costituito in nostra presenza, essere cascato nell'eresia, nella quale con giuramento aveva già promesso di non cascare, e pertanto doversi dare e concedere al giudizio secolare. E così lo concediamo al nobile milite messer Jacopo di Brescia, con onore ducale vicario fiorentino, presente e accettante dell'ill.mo Cecco, per punirlo con la debita pena. E ancora il libro composto sopra la sfera, pieno di eresie e d'inganni; e un altro libro in volgare nominato l'Acerba (dal qual nome ne segue, che non contiene in maturità alcuna, presupponendovi che molte cose che appartengono alla virtù e ai costumi nascono dalle stelle, e a quelle ritornano come a loro cause) e riprovando tutti i suoi ammaestramenti, senza dottrina composti, e dannando diversi, ordiniamo di abbruciare con detto Cecco. E così ordiniamo e comandiamo.

 

La condanna di Cecco non fu dunque per magia e astrologia: del che troppe persone erano macchiate allora, eppur teneansi a servizio da Comuni, da principi, da prelati. Bensì per eresie, e per esservi ricaduto dopo la promessa. E per verità, studiando l'opera di Cecco, vedesi ch'egli mirava a un innovamento della scienza, e per mezzo di questa, a un innovamento della vita nell'intelletto, nella morale, nella religione, e a ciò adoprava l'insegnamento, la conversazione, i libri. La scienza sua nuova consisteva nella necessità universale e nell'antivedere; le intelligenze erano le cagioni; loro organi le stelle; ogni cosa sotto la luna aver effetti necessarj; tutto esser fatato. L'uomo però, mediante la scienza, può costringere le intelligenze a palesargli il futuro. Perchè questa nuova scienza prevalesse, bisognava aver distrutta la verità razionale e la rivelata; e Cecco lo faceva con una fermezza, che non si smentì neppur davanti al rogo.

Insomma egli rappresenta la scienza naturale, contro la scienza cristiana di Dante: e potrebbe anch'essere che i Fiorentini, i quali vivo aveano cacciato Dante, morto il volessero vendicare perseguitando Cecco suo detrattore: il che viepiù ci si rende probabile vedendo principale avversario di lui Dino del Garbo. Anche l'Orgagna, nel Camposanto di Pisa, lo dipinse nell'inferno. Pure il suo poema nel principio del cinquecento fu ristampato ben diciannove volte; e il gesuita Appiani ne fece un'insulsa difesa, pretendendo fosse d'inappuntabile dottrina. Speriamo non si qualifichi egualmente quella che noi stendemmo del poeta teologo d'Italia, contro o uno zelo intemperante, o un'arguta miscredenza.

 

 

 





156                Nella bella Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi del padre Luigi Tosti (1847), leggesi che «quest'uomo, vituperato da molti, non può non ammirarsi da tutti, come ultimo sostegno di quel magnifico pontificato civile, in cui questo, sponendo a luce nel seno dell'Italia una civiltà forbita e gentile, sconosciuto, calunniato da' suoi figli, stanco e doloroso si ritraeva a posare ne' penetrali santi ed inviolabili della religione che informava». Libro v, in principio.



157                Giuseppe Ferrari, nelle Lezioni sugli scrittori politici, riflette che, cinque secoli più «tardi, un'altra dottrina s'impossessava della Francia, e a nome della ragione reclamava pure il diritto di procedere col terrore, di bandir la crociata, e di spodestare tutti i re della terra».



158                Ap. Raynaldi al 1293, n. 55.



159                Vedansene le prove in Philipps, Diritto ecclesiastico, vol. iii, lib. i, § 138.



160                Il Sismondi, caloroso protestante e accannito contro Bonifazio, scrive che i Francesi «avidi di servitù, chiamarono libertà il diritto di sacrificare persino le coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che contro la tirannide offriva loro un capo straniero e indipendente.... I popoli dovrebbero desiderare che i sovrani dispotici riconoscessero al di sopra di loro un potere venuto dal Cielo, che li fermasse sulla strada del delittoStoria delle Repubbliche italiane, c. 24.



161                De Rubeis, Storia di Ravenna, lib. vi.



162                De' processi in Toscana discorse ripetutamente all'Accademia Lucchese monsignor Telesforo Bini, com'è a vedersi negli Atti del 1838 e 1845. I molti documenti, da cui raccolgonsi nomi di centosette Templari, spargono gran luce s'un punto storico, molto dibattuto dopo la tragedia del Raynouard.



163                Oltre il Tosti suddetto 1847, vedansi varj scritti pubblicati pel VI centenario di Dante.



164                Paradiso xi.



165                Inferno ii.



166                Purgatorio xx.



167                «E certo sono di ferma opinione che le pietre che nelle mura sue (di Roma) stanno, sieno degne di reverenza, ed il suolo dove ella siede, sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e provato». Convivio.



168   Il chiarissimo filologo Bartolomeo Sorio lesse quest'anno all'Istituto Veneto una memoria sopra il Filicopo di Giovanni Boccaccio, ove pretende mostrare che scopo di questo romanzo storico era di esortare i principi Angioini al dovere che come feudatarj aveano di accorrer a difesa del papa, ch'era stato costretto uscir di Roma ed esulare ad Avignone; sicchè, com'ebbe dire nel Decamerone, Roma, già capo del mondo, allora era coda.

                Con quello stravagante e fin empio infrascamento di sacro e profano, ivi racconta l'incarnazione del figlio di Giove, e come subì l'iniqua percossa di Atropos, poi ritornato al padre, dopo spogliata di molti prigioni l'antica città di Dite, mandò a' principi de' suoi cavalieri il promesso dono del santo ardore. Segue la predicazione del vangelo nella Spagna per opera del possente Dio occidentale, ch'è san Giacomo. «E in te, o alma città, o reverendissima Roma, la quale egualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signoril giogo sopra gl'indomiti colli, tu sola permanendo vera donna, molto più che in altra parte risuona, siccome degno luogo della cattedral sede dei successori di Cefas. E tu di ciò dentro a te non poco ti rallegra, ricordando te essere quasi la prima predatrice delle sante armi; perciocchè conosci te in esse dover tanto divenir valorosa, quanto per addietro in quelle di Marte pervenisti, e molto più. Onde contentati, o Roma, che, siccome per l'antiche vittorie più volte la tua lucente fronte ornata fu delle belle frondi di Penea, così di quest'ultima battaglia (religiosa) con le nuove armi trionfando, tu vittoriosamente meriterai d'esser ornata d'eternal corona. E dopo i lunghi affanni la tua immagine fra le stelle sarà allogata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri, beata ti troverai». Lib. i, num. 25 e seg.



169                Lo studio della natura dell'impero e delle sue relazioni colla Chiesa è di suprema importanza per intendere la storia del medioevo. Perciò noi v'insistiamo. Su ciò versa un'opera recente dell'inglese James Bryce, The holy Roman Empire. Oxford 1864.



170                Lege I de requir. reis.



171                Mystéres d'iniquité, pag. 419.



172                Foscolo, Discorso sulla D. C. Londra 1823.



173                Sullo spirito antipapale che produsse la riforma. Londra 1832, 3 vol. Già l'Aconzio (Stratagematum Satanæ, Lib. viii) avea supposto negli autori un linguaggio a due sensi. Il famoso scettico Bayle conchiudeva: «Badate che Dante offre pruove e a quei che lo dicono buon cattolico, e a quei che il negano».



174                Nell'originale "un esposizione". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



175   Dante hérétique, revolutionnaire et socialiste, revélations d'un catholique sur le moyen age. Paris 1834.

            La Comédie de Dante traduite en vers selon la lettre, et commenté selon l'esprit, suivie de la clef ou langage symbolique des fidèles d'Amour. Tomi 2. Paris 1856.

            Le Paradis de Dante illuminé a giorno; dénouement tout maçonnique de sa Comédie albigeoise. 1855.

            Preuve de l'hérésie de Dante, notamment au sujet d'une fusion opérée vers 1312 entre la Massènie albigeoise, le Temple et les Gibelins pour constituer la Franc Maçonnerie,ib.

            Clef de la Comédie anticatholique de Dante.

            L'Hérésie de Dante démontrée par Francesca da Rimini.

            Les mystéres de la chevalerie et de l'amour platonique au moyen age. 1858.

                In senso opposto vedasi Dante revolutionnaire et socialiste, non hérétique, par Ferjus Boissard, 1850.



176                Inferno iii.



177                Inferno xxii.



178                Come terrà questa regola quando Dante chiama i prelati in veste di pastor lupi rapaci? e quando intima che di voi, pastor, s'accorse il vangelista? e quando si lamenta sia usurpata per colpa del pastor la giustizia di Firenze?



179                Per esser conseguente, Lenoix (Origine de la Francmaçonnerie, p. 235) sostiene che san Bernardo era francomuratore.



180   Veggio il nuovo Pilatocrudele

          Che... senza decreto

          Porta nel Tempio le cupide vele.

 



181   State contenti, umana gente, al quia;

          Che se potuto aveste veder tutto,

          Mestier non era partorir Maria.



182   Beatrice dice a san Pietro.

 

          O luce eterna del gran viro

          A cui nostro Signor lasciò le chiavi

          Ch'ei portò giù di questo gaudio miro,

            Tenta costui de' punti lievi e gravi

          Come ti piace, intorno della fede

          Per la qual tu su per lo mare andavi.Paradiso 24.

 



183   Avete il vecchio e il nuovo Testamento,

          E il pastor della Chiesa che vi guida

          Questo vi basti a vostro salvamento.Paradiso v.

 



184                Convivio, Tratt. iv, c. 5. «Oh istoltissime e vilissime bestiole, che a guisa d'uomo vi pascete, che presumete contro a nostra fede parlare, e volete sapere, filando e zappando, ciò che Dio con tanta prudenza ha ordinato. Maledetti siate voi e la vostra presunzione, e chi vi crede».



185                Inferno, c. viii.



186                Sonetti della Vita Nuova.



187                Nell'originale "Averoè". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



188                Hist. des sciences matem. en Italie, tom. ii, pag. 195 e 200.



189                Vedi Palermo nel Catalogo dei manoscritti della Palatina di Firenze.



190                Capo 91. Vedi qui sopra, a pag. 109.



191                Lib. x, c. 41.



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