Cesare Cantù
Gli eretici d'Italia

DISCORSO VIII L'ESIGLIO D'AVIGNONE. IL GRANDE SCISMA. CONCILJ DI COSTANZA, DI BASILEA, DI FIRENZE.

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DISCORSO VIII

 

L'ESIGLIO D'AVIGNONE. IL GRANDE SCISMA. CONCILJ DI COSTANZA, DI BASILEA, DI FIRENZE.

 

Intanto nell'esiglio avignonese i papi succedevansi, sempre col proposito di ritornare all'antica sede, ma sempre permanendone lontani. Avignone, città libera del contado di Provenza, che poi fu comperata dal papa, era preferita dai cardinali, perchè non si trovavano a fronte d'una plebe riottosa come la romana, di tracotanti baroni: adagiatisi colà come in domicilio stabile, ornarono di palazzi suntuosi la piccola città, e al papa persuadevano dover lui preferire la Francia, centro dell'Europa, meglio governata e quieta che l'Italia, più santa di Roma perchè religiosissima la chiamava già Cesare, e i Druidi vi esistevano prima del cristianesimo. Ma la prolungata assenza disgustava gl'Italiani, soliti a bersagliare i papi finchè li possedono, ribramarli appena perduti. E tanto più che, cessando i vantaggi, non cessavano gli sconci; e i papi continuavano guerre per sottomettere popoletti riottosi o signorotti ribellanti. Mentre le spese della Corte aumentavano, le rendite d'Italia andavano facilmente distratte: i regni stranieri ricusavano pagare i censi che sarebbero caduti a vantaggio della Francia; sicchè la curia per ripiegare si riservava benefizj e annate, moltiplicava commende e aspettative, e gli altri artifizj di fare denaro. La cattolicità poi non riguardava come abbastanza tutelata la necessaria indipendenza del suo Capo, dacchè esso viveva in una città, libera sì, ma chiusa fra dominj altrui.

Roma principalmente non sapea darsi pace di tale vedovanza; sossoprata a vicenda da una plebe irrequieta e da una faziosa feudalità, più non aveva amministrazione, non giustizia; i palagi cadeano in ruina; le chiese deserte si sfasciavano; il culto isquallidiva. I Romani volgean dunque la memoria e il desiderio alle antiche magnificenze, e Cola di Rienzo, fattosi tribuno del popolo, si propose di richiamare i papi a Roma, e ripor questa a capo del mondo civile. Sono note le scene sue, tra fiere e buffe; ripetute poi tante volte e in sì varj toni, che non si osa riderne, vituperarle. Fatto è che, elevato un momento dall'aura popolare, e con altrettanta prestezza abbandonatone (1347), dopo repressi i nobili, citati i re e fino l'imperatore a venire a ricevere i decreti del popolo romano, a stento fuggì a cercare ricovero tra i Fraticelli di Monte Majella.

Il papa, rintegrata la sua autorità, mandò il cardinale Egidio Albornos spagnuolo (1353) per «ispegnere l'eresia, reprimere la licenza, procurare la salute delle anime, e rintegrare l'autorità della Chiesa colla pace e colla guerra». In fatti egli si sottopose i varj Comuni, in ciascuno de' quali avea fatto nido un tirannello; e raccolti a Roma i deputati di tutti essi Comuni (1357), d'accordo con loro dettò una costituzione.

Il dominio temporale non ha che vedere colla fede, e in conseguenza non è soggetto di eresia, e noi già indicammo come avesse un'origine più antica e più popolare di qualunque altro, e qual concetto se ne portasse allora. Qui però ci cade di osservare come i papi, conforme alle idee del medioevo, tanto diverse dall'assolutismo dello Stato, introdotto dai moderni, esercitassero il dominio in unione col popolo, cioè colla repubblica romana. Allorchè essi stettero lontani, questa prevalse a tal segno, che Cola citava l'imperatore e gli elettori di Germania a giustificare i loro titoli davanti al popolo romano.

Fu il cardinale Egidio Albornos che tolse a stabilirvi una vera sovranità, a quel modo che allora diveniva generale: distrusse i signorotti, recuperò le città, ben liete d'obbedire al pontefice piuttosto che a tirannelli; e colle Constitutiones Ægidianæ garantiva molti privilegi, pure procurando, massime nella Marca d'Ancona, assicurare il libero esercizio della sovranità mediante l'unità delle provincie. Quelle costituzioni rimasero il vero diritto pubblico della Romagna, furono stampate nel 1472, e dipoi con aggiunte varie: la Santa Sede, uniformandosi alle idee principesche le quali andavano prevalendo, s'ingegnava d'ampliare le sue prerogative, mentre le provincie attenevansi gelose ai proprj statuti: sicchè la sovranità pontifizia rimaneva piuttosto nominale al modo antico, anzichè dispotica.

Così s'andò fino alla rivoluzione del 1797, che spossessò i papi; poi la restaurazione del 1814 li ripristinò. Gli avversarj del dominio temporale si sforzano di provare che questo dominio esercitavano essi sempre in dipendenza della supremazia imperiale. Rinneghiamo tutta la storia, e concediamo ai realisti questo fatto. Ma il sacro romano impero nel 1804 era cessato, e tutte le dominazioni da quello dipendenti restavano dichiarate di piena autorità; ne' congressi del 1815 si convenne che ogni signoria mediata cessasse, e la sovranità fosse piena in ciascuno e indipendente. Anche i papi dunque rimanevano padroni assoluti del loro Stato, a fronte ai re. A fronte ai popoli avrebbero dovuto osservare i privilegi, che loro aveano conceduti e mantenuti da antico. Ma questi erano stati cancellati dalle illimitate signorie degli usurpatori, che avevano avvezzati all'incondizionato despotismo. I restauratori poi non voleano, e massime in Italia, che esistessero costituzioni e diritti scritti di popoli: nemici alla storia, come chiunque vuole tiranneggiare. Imposero dunque al papa di farsi re assoluto, come essi erano, e fu allora che il cardinale Consalvi, non abborrente dalle idee nuove, fece dettare dal papa il motu proprio, che sistemava l'amministrazione pubblica con aspetto di legge generale, invece delle antiche molteplici e parziali; dal centro doveano partire le nomine de' magistrati, gli editti, le leggi finanziarie; solo delle moderne avanie non si volle imporre la coscrizione, che pure è indispensabile per sostenere le altre.

Novissimo dunque era l'assolutismo in terra di papa, e quando Pio IX iniziava e benediva il moto italiano, nella costituzione 14 marzo 1848 protestò di non fare che «riprodurre alcune istituzioni antiche, le quali furono lungamente lo specchio della sapienza degli augusti nostri predecessori»; e che «ebbero in antico i nostri Comuni il privilegio di governarsi ciascuno con leggi scelte da loro medesimi, sotto la sanzione sovrana».

Ecco una delle mille prove che la libertà è antica, e nuovo il despotismo; se non che, perduto ogni senso morale e politico, oggi si applica all'uno il nome dell'altra.

Quest'esiglio d'Avignone viene allegato, nelle odierne controversie, per indicare la possibilità di assidere il papa altrove che a Roma. Chi ciò desidera, non potrebbe scegliere nella storia esempio più sfavorevole, tutti essendo d'accordo nel deplorare quell'età, e mostrar che i papi non devono essere cittadini di paese altrui. Inoltre si avverta che il papa era sempre il vescovo di Roma, non mai il vescovo d'Avignone o di Peniscola, e teneasi fuori della sua sede per circostanze sciagurate. Già sant'Ireneo diceva che «la Chiesa di Roma ha un primato, pel quale tutte le altre devono accordarsi con essa nella fede». Talchè, anche data al problema l'unica soluzione possibile, l'espulsione forzata del papa da Roma, neppure d'un passo s'avanzerebbe la soluzione.

Ma tenendoci ai tempi di quell'esiglio, Roma altalenò sempre fra insania demagogica e oligarchica arroganza, or ribelle al pontefice per bizzarria, or sottomessagli per paura. Le baruffe invelenivano ancora più dacchè i papi, non risentendone gl'incomodi, poco curavano sopirle. I papi stessi sentivansi fuori di posto in una terra dove vestivano aspetto d'un esule ricoverato, piuttosto che di sovrano dei re; e dove prelati quasi tutti francesi davano alla Corte un'aria nazionale, ben diversa da quella cosmopolitica che soleva in Roma. Più volte dunque proposero di ritornare, ma o nol fecero, o per breve, e solo dopo settantun anno e tre mesi la santa sede fu restituita di Francia in Italia.

Queste miserie diedero nuova scossa alla maestosa unità cattolica, preponderante nel medioevo. Se gl'Italiani favorivano alla Santa Sede pel vantaggio che ne traeva il loro paese, eransene intepiditi dacchè quella esulava; e gli stranieri trovavano più oneroso questo migrare di tanto loro denaro a paese che non era considerato seconda patria di tutti come Roma. I vescovi dall'assenza del papa pigliavano esempio per allontanarsi dalle loro diocesi. La contesa coi frati Minori aveva resa ostile alla Santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate persone pie, cui sola colpa dicevasi l'eccesso della povertà, si richiamavano le declamazioni d'Arnaldo di Brescia contro i possessi ecclesiastici e la corruttela derivatane. Le nazioni eransi formate attorno ai vescovi, donde l'assoluto potere ecclesiastico, come di padre sopra i figliuoli. Costituitesi, ingrandite, vollero svilupparsi dalle fasce della Chiesa per vivere di vita propria, compresero che il temporale potea sussistere disgiunto dallo spirituale: onde alla società senza limite di spazio surrogavano società parziali e distinte, all'andamento generale le particolari destinazioni.

I tentativi di Bonifazio VIII per rintegrare la supremazia richiamando in vigore le precedenti decisioni canoniche, destarono ne' principi quella gelosia, che proviene mentosto da usurpazioni reali che da temute. Alle immunità attribuite ai beni ed alle persone degli ecclesiastici, i Comuni più non aveano rispetto, e proferivano decreti sopra di essi, in onta agli anatemi del pontefice e de' vescovi. Quando l'edificio sociale era impiantato sulla fede, ogni opposizione si risolveva in eresia, e il pontefice per le sue prerogative, il clero per le immunità offese lanciavano scomuniche e interdizioni. Ma se queste aveano fiaccato l'orgoglio e la possa degli imperatori Sassoni e Svevi, perdeano efficacia dacchè venivano prodigate per intenti mondani; i Siciliani durarono ottant'anni in rotta colla Chiesa; i Visconti di Milano se ne vendicavano col pesare viepeggio sugli ecclesiastici; gli avvocati ergeano la fronte contro i papi, ai quali dianzi erasi incurvata quella dei re.

Non per questo si rinnegava la Chiesa: i Patarini erano scomparsi d'Italia o nascosti; il popolo amava le splendidezze del culto, se anche non ne venerava l'austerità, e compiaceasi del papa e della Corte pontifizia. Ma dacchè questa erasi trasportata in Avignone, i Guelfi non meno che i Ghibellini la bersagliavano, quasi cessasse d'essere cattolica cessando d'essere romana. Franco Sacchetti mercante fiorentino, il Petrarca canonico, il Pecorone frate, e persone di grande scienza e di celebrata santità avventavansi contro la Babilonia: i malcontenti del governo temporale vituperavano i papi spirituali: di Clemente V non è male che non si dicesse: Giovanni XXII fu tacciato d'eretico sì pel suo litigio che dicemmo coi Fraticelli, sì per sue dubitazioni sulla beatifica visione: cioè se le anime elette vedano Dio nella sua maestà subito staccate dal corpo, o solo dopo il giudizio finale.

Lodovico il Bavaro, eletto imperatore di Germania, era venuto in Italia per la corona (1324), e poichè Giovanni XXII gliela ricusava, egli ostentò non aver bisogno dell'autorità di esso. Il papa allora dichiarò l'Italia sottratta alla giurisdizione imperiale, in modo che non potesse mai più essere incorporata coll'impero infeudata. Di ripicchio il Bavaro s'appella al Concilio, e prodiga le solite ingiurie al papa; il papa dichiara lui scomunicato192, e interdetti i paesi che gli obbedissero; onde Lodovico, che, sostenuto dai Ghibellini, si era fatto coronare a Roma, e avea nominato un antipapa, presto si trova isolato e decaduto.

Per sostenersi aveva egli adoprato non solo le armi, ma le dottrine. Guglielmo Occam, scolastico nominatissimo, contendeva l'infallibilità non solo al papa, ma anche al concilio universale e al clero; ai laici in corpo competere il decidere definitivamente; contro il papa potersi all'uopo usare anche la forza, o stabilirne diversi, un dall'altro indipendenti. Marsilio di Mainardino da Padova, eloquente professore all'Università di Parigi, insinuò a Lodovico che a lui spettasse riformare gli abusi della Chiesa, giacchè questa è sottomessa all'impero; «Ho visto (egli diceva) prelati, abati, sacerdoti, così sprovvisti di dottrina, che non sapeano tampoco parlare secondo grammatica. Quei che hanno visitato la Corte di Roma, la conobbero casa di traffico, spelonca di ladroni; quei che non l'hanno veduta udirono ch'è fatta ricettacolo di quasi tutti i ribaldi, e trafficanti nello spirituale come nel temporale; non v'è che malvagità; nessuna premura di acquistare le anime»193.

Col mistico Ubertino da Casale egli pubblicò il Defensor pacis, ove già s'incontrano le negazioni di Calvino rispetto all'autorità e costituzione della Chiesa; la potestà legislativa ed esecutiva di questa fondarsi sul popolo, che la trasmise al clero; i gradi della gerarchia essere invenzione posteriore; Gesù non lasciò alla sua Chiesa verun capo visibile, e Pietro avea preminenza tra gli apostoli soltanto per l'anzianità; il primato consistere unicamente nel convocare concilj ecumenici e dirigerli, purchè il papa vi sia autorizzato dal legislatore supremo, cioè da tutti i fedeli o dall'imperatore che li rappresenta; eguali essendo i vescovi, l'imperatore solo può elevarne uno sopra gli altri, e a grado suo abbassarlo: a lui solo spetta l'istituire i prelati, eleggere il papa, giudicare i vescovi, al modo che Pilato giudicò Cristo; convocare i concilj e regolarne le deliberazioni: la Chiesa può infliggere alcuna pena coattiva se l'imperatore non assente. Altrettanto sosteneva Giovanni Gianduno di Perugia; sì poco sono moderne le dottrine che subordinano la Chiesa ai governi194.

Giovanni XXII in una Bolla riprova tali errori, e avendo citato invano i due autori, li condannò coi libri loro. Teoriche altrettanto assolute vi opponeano i curialisti; e col VI e VII libro delle Decretali e colle Estravaganti erasi estesa per modo la competenza del fôro ecclesiastico, che qualsivoglia lite poteva anche in prima istanza essere portata al pontefice.

Agostino Trionfo d'Ancona, agostiniano, che dettò a Parigi, poi a Napoli, dedicò a Giovanni XXII una Somma della podestà ecclesiastica, dove, elevando la potenza papale colla Bibbia, il vangelo, i miracoli, le leggende, da Dio immediatamente la deriva; superiore ad ogni altra perchè giudica tutti, da nessuno è giudicata; come spirituale, così è temporale, perchè chi può il più può anche il meno: è assurdo appellarsi al concilio, giacchè questo non trae autorità che dal pontefice, il quale unico può proferire sui punti di fede, altri può investigare dell'eresia senz'ordine di esso. Come sposo della Chiesa universale, tiene immediata giurisdizione sopra le singole diocesi. Al papa devono obbedienza Cristiani, Ebrei e Gentili; egli, e non i vescovi, può scomunicare; egli punire i tiranni e gli eretici anche con pene temporali; di della tomba estende il potere per via delle indulgenze. Potrebbe scegliere di qualsiasi195 paese l'imperatore, senza ministero degli elettori, o renderlo ereditario: l'eletto dev'essere da lui confermato e professarsegli ligio, e può da lui essere deposto: tutti i re sono tenuti obbedire al pontefice, dal quale traggono la potestà temporale: a lui può appellarsi chiunque si sente gravato dal principe: e i principi egli può correggere per peccati pubblici, deporli anche, istituire un re di qualsiasi regno: gli imperadori non donarono il dominio ai papi, ma lo restituirono: Gesù Cristo dicendo che il suo regno non è di questo mondo, intendeva del mondo vecchio, non del rigenerato: il potere temporale deve stare unito allo spirituale perchè l'uno serve di mezzo all'altro: rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare vuol dire permettere che l'imperatore eserciti la giurisdizione, sempre in dipendenza dal papa: quanto alla povertà, Gesù Cristo possedea vesti, viveri, denaro, con cui pagava il tributo196.

Così procedendo, non c'è atto, non c'è abuso che non giustifichi.

L'esagerazione è sintomo di autorità minacciata; ma realmente declinava ne' popoli lo spirito di soggezione. Di intromettersi nelle cose ecclesiastiche avea troppi pretesti l'autorità secolare, quando la santa sede, fatta ligia ai re, non valeva a frenare la corruzione fastosa de' prelati, i quali sotto la stola mantenevano le abitudini dell'educazione secolaresca e il lusso sfrenato delle famiglie signorili. Ned altro testimonio ne voglio che il concilio Lateranense III, il quale, avvisando i prelati quanto disdica il camminare con trenonumeroso, e il consumare in un pranzo l'intera annata della Chiesa che visitano, impone ai cardinali s'accontentino di quaranta o cinquanta vetture, gli arcivescovi di trenta o quaranta, i vescovi di venticinque, gli arcidiaconi di cinque o sette, di due cavalli i decani; tutti poi vadano senza cani da caccia uccelli. Per mantenere questo fasto profano accumulavansi fin quaranta o cinquanta benefizj in una sola mano; e vuolsi che Benedetto XII proponesse ai cardinali, se rinunziassero all'averne più d'uno, assegnare loro centomila fiorini d'oro di rendita e metà delle entrate dello Stato pontifizio; e ad essi non parvero abbastanza.

La corruzione scendeva grossolana nel clero minore, dove ignoranza, venalità de' sacramenti, comune l'ubbriachezza, sfacciata la libidine: nelle chiese e ne' conventi si stabilivano bettole e giuochi; le monache uscivano a volontà dai monasteri: trafficavasi di grazie, dispense, perdoni. Degli antichi Ordini religiosi rilassavasi la disciplina, e perfino in quel Monte Cassino, che già allora avea dato ventiquattro papi, ducento cardinali, milleseicento arcivescovi, ottomila vescovi, molti santi, i monaci vestivano sfoggiato, abitavano comodi, riservavansi peculj particolari, anzi riceveano dal convento una prebenda, colla quale vivere in case secolari.

Ai conforti del pio Marco, parroco in Padova, Luigi Barbo tolse a dare a quell'Ordine regole più severe, che presto si estesero a Pavia, Milano e più da lungi.

Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo, restaurò la vita regolare in Italia e in Sicilia fra i Domenicani, infervorato da Chiara de' Gambacurti, e ajutato da Raimondo da Capua, dal beato Marconino di Forlì e da altri. A Siena Bernardo Tolomei fondava gli Olivetani; Giovanni Colombino i Gesuati; Pietro Gambacurti di Pisa gli Eremiti di san Girolamo, gli Eremiti di Fiesole il beato Carlo dei conti Guidi.

Diedero odore di gran santità sant'Andrea Orsini, Bernardino da Siena, Vincenzo Ferreri. Giovanni da Capistrano napoletano, convertitosi in carcere, ispirava compunzione, scrisse dell'autorità del papa, e fu apostolo d'una crociata contro Maometto. In tutti questi e in altri si fanno sentire gemiti per la depravazione della Chiesa.

Urbano VI avventatosi a riformarla di colpo, vietò ai prelati d'usare a tavola più d'una pietanza, egli stesso dandone l'esempio; minacciò non solo i simoniaci, ma chiunque accettasse doni, e fe credere di volere fermamente rimettere a Roma la Corte. Di ciò indispettiti, la più parte de' cardinali separaronsi da lui e protestarono non era stato eletto liberamente, ma sotto la costrizione del popolo romano tumultuante, e gli sostituirono Clemente VII ginevrino. Parte della cristianità accettò l'uno, parte l'altro papa; donde comincia il grande scisma, con una doppia serie di pontefici paralleli.

Qual era il vero?

Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l'uno e per l'altro; pruove in favore addussero questi e quelli, per modo che può sostenersi la buona fede d'entrambe le parti. Ma per mezzo secolo fu scissa la cristianità fra due campi ostili, fra pontefici che rimbalzavansi accuse e taccia d'intruso e d'eretico. Ne restavano divise le nazioni; divisi i cittadini; divisi gli scolari d'ogni Università, i monaci d'ogni convento, i membri d'ogni famiglia; e da per tutto dispute e collisioni fino al sangue; due vescovi, eletti dall'uno o dall'altro pontefice, si contendevano la medesima sede; abborrivansi le messe degli uni o degli altri. I due papi per procacciarsi partigiani riconoscevano un re diverso, scialacquavano privilegi, connivevano a traviamenti e usurpazioni, spoverivano il basso clero col lasciare trascendere l'alto; questo riservavasi le migliori grazie e le commende e i benefizj, dandole in appalto a persone dappoco, mentre i curati erano fino ridotti a mendicare. Ciascuno insomma era ricorso a mezzi dissonanti da quelli dell'apostolato: Bonifazio IX lasciò trafficare delle indulgenze e del suffragio ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro permetteva di accumular benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di cavare oro dalle medesime miniere, e moltiplicarlo colle usure.

Le piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono allora esposte agli occhi di tutti, invelenite dalla collera de' nemici non meno che dalle ingiurie palleggiatesi fra' cardinali e pontefici rivali, che, per non disgustare la loro fazione, erano costretti rassegnarsi a minacce, a importunità, dissimulare e simulare, intrigare, congiurare, promettere, concedere; infine guadagnare tempo fingendo di desiderare una riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo; e compromettendo un'autorità che si fonda interamente sulla virtù e sull'opinione.

Questo scapitare della santa sede nella venerazione, cresceva baldanza a' principi di sminuirne l'autorità, ai dotti di chiamarla a severo e passionato esame: le satire acquistavano peso quando uscivano dalla bocca de' pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione.

Pertanto il dubbio filtrava nei cuori più sinceri; l'indifferenza ne' più generosi, la disperazione ne' più robusti: e principi, Università, giureconsulti, teologi, disputavano sui mezzi di ripristinare l'unità. Il più ovvio sarebbe stato un concilio generale: ma poichè il convocarlo attribuivasi da secoli al papa, a qual dei due competeva? Si dovette ripiegare con sinodi particolari; ma che? oltre i due papi, v'ebbe fin tre concilj.

Intanto che nel mondo cristiano perdevasi l'unità che n'è l'essenza, Bajazet granturco stringeva Costantinopoli, aveva invaso l'Ungheria, e la Polonia; e i Tartari, sotto il terribile Tamerlano, minacciavano all'Europa le devastazioni che aveano recate all'Asia.

Gli animi, sgomentati fino alla disperazione, si volgeano a Dio, da lui solo aspettando il termine a tanti guai. Già nel 1260, in occasione di gravi sventure, s'eran diffusi per Italia i Flagellanti: compagnie devote che, dietro a un crocifisso, passavano di paese in paese, gridando misericordia e pace e penitenza, e traendo infinita gente, intere città e provincie. Pare fossero primi i Perugini: trentamila Bolognesi arrivarono così a Modena; alcuna volta crebbero fino a centomila; e cercavano por rimedio agli scandali, alle discordie, alle usure colla preghiera, la macerazione, la predica. Era una grande pietà come quella de' frati Minori; erano innamorati della penitenza, come questi della povertà, e come questi trascesero. Perocchè, oltre i disordini inseparabili da tanto aglomeramento di persone, convertironsi in setta ereticale, predicando che la remissione de' peccati non otteneasi se non coll'appartenere un mese almeno alla loro compagnia; confessavansi tra loro, sebbene laici; vantavansi d'operare miracoli e cacciare demonj. Mentre dunque al cominciamento i principi e i prelati li favorivano, dappoi li vietarono; i Torriani non meno che gli Estensi, Manfredi di Sicilia al par dei Comuni, eressero forche se osassero avvicinarsi197.

Non per questo cessarono: e nel 1334 frà Venturino da Bergamo menavasi dietro più di diecimila Lombardi, ricevuto a guisa d'uomo divino; e con grandi limosine. Cresciuto a forse trentamila seguaci, e vaticinando mali futuri, passò a Roma, poi anche alla Corte d'Avignone sperando ottenerne grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o leggerezza, e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi mosse colla crociata, e morì a Smirne.

Quella divozione rinfervorò nel 1399, d'Irlanda varcando in Inghilterra, in Francia, poi in Piemonte; e i Flagellanti da una parte per Lombardia, dall'altra per Genova voltarono su Roma. Erano donne, fanciulli, vecchi, cenciosi, ricchi, dotti, imbecilli alla mescolata, con abiti strani come suole la folla; giunti in una terra, intonavano lo Stabat Mater, il Miserere, le Litanie, visitavano le chiese, riceveano alloggio e cibo dalla carità, poi lasciati gli stanchi, e assunta nuova turba, ripigliavano il pellegrinaggio198.

Chi non vede quali disordini potesse addurre questa incondita pietà, mentre non riparava a quelli cagionati dalla scissura della Chiesa?

Mentre i pii gemevano e pregavano, i diversi dal disordine esterno passavano a criticare l'intima verità della Chiesa; si spargeano libri e sermoni critici, anche in lingua vulgare199; Bartolino da Piacenza verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali sul modo di trattare il papa qualora apparisse negligente, inetto a governare, o capriccioso in modo da ricusare il consiglio dei cardinali (com'era il caso di Urbano VI); e conchiudeva potere quelli mettergli de' curatori, al cui parere foss'egli obbligato attenersi nello spacciare gli affari della Chiesa. I roghi non bastavano a reprimere gli eretici in Francia; i Valdesi pigliavano ardimento fra le Alpi, e Gregorio XI movea lamento perchè dalle valli subalpine si propagassero, e discesi in Piemonte, avessero trucidato un inquisitore a Bricherasio, uno a Susa200.

Profittando di questa depressione, Carlo IV emancipò l'impero dalla dipendenza papale, e i Francesi, colla prammatica sanzione di Bourges, restrinsero i diritti pontifizj. In Inghilterra Giovanni Wicleff aveva impugnato le indulgenze, la transustanziazione, la confessione auricolare, domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la povertà del clero. Girolamo da Praga portò i libri di esso in Boemia, dov'ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che già aveva colà alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse argomenti teologici e ardimento a proclamarli. Essendo poi venuti alcuni monaci a spacciarvi indulgenze, e avendo l'imperatore proibito il sacrilego traffico, si pigliò baldanza a declamare, in prima contro l'abuso, poi contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava avidamente; gli studenti boemi se n'infervoravano; le quistioni religiose prendevano colore politico d'aborrimento ai Tedeschi e d'aspirazioni repubblicane; lo sparlare dei papi pareva indizio di ragione più elevata e di carattere più franco, e se ne faceva argomento da piazza non meno che da scuola, dove i professori fra la gioventù inesperta seminavano un vago desiderio di sottrarsi ad ogni autorità.

Tante passioni, tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la cristianità si ricoverò; e sotto al manto del pontificato. Di questo non erasi mai impugnata l'unità; benchè restasse incerto chi ne fosse l'investito; disputavasi del possesso e dell'esercizio dell'autorità; ma non dell'autorità stessa. E più erano ulcerate le piaghe, più speravasi ne' rimedj che v'apporrebbe un concilio, che inoltre rannoderebbe i principi cristiani per respingere la sempre crescente minaccia degli Ottomani.

L'imperatore Sigismondo, fisso in animo di ricondur la Chiesa all'unità, ottenne si convocasse il concilio a Costanza, città imperiale sulla riva occidentale del bel lago che divide la Svevia dalla Svizzera. Assai principi, signori e conti v'intervennero; si numerarono fino cencinquantamila forestieri, fra cui diciottomila ecclesiastici e ducento dottori dell'Università di Parigi: ma insieme trecenquarantasei commedianti e giullari, settecento cortigiane, trentamila cavalli; e fra lusso e tornei e sfide i gaudenti menavano baldorie, mentre i pii oravano, i dotti preparavansi a lizze dialettiche.

Ma un'assemblea di tanta importanza, fino dal principio reluttò ai modi sagaci, con cui gl'Italiani e il papa tentavano dominarla201. Mentre la Chiesa nella sua universalità non distingue popoli, ed estima ciascun uomo pel proprio valore, qui divisero il concilio in camera tedesca, italiana, francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero distintamente; mirando con ciò ad elidere la superiorità degli Italiani.

Tre papi sedeano allora; Giovanni XXIII, Benedetto XIII, Gregorio XII, e vennero indotti a rinunziare (1417) terminando così uno scisma, che fu la maggiore prova a cui la Chiesa andasse esposta202.

Bisognava surrogare un pontefice degno. Sigismondo voleva che, prima d'eleggerlo, si riformasse la Chiesa, per timore che il nuovo non fallisse alla promessa; ma gl'Italiani incalzarono perchè prontamente si eleggesse: e la scelta cadde su Ottone Colonna, che nominossi Martino V. Sigismondo aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare d'oggi in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o in condiscendenze secondarie.

Il concilio, ancor prima della creazione di Martino V, avea condannato le seguenti proposizioni:

«È contro la sacra scrittura che persone ecclesiastiche abbiano possessi.

«I signori temporali possono ad arbitrio togliere i beni temporali alla Chiesa, quando i possessori pecchino abitualmente, non solo attualmente.

«È contro la regola di Cristo l'arricchire il clero.

«Silvestro papa e Costantino imperatore errarono coll'impinguare la Chiesa.

«Il papa con tutti i cherici sono eretici perchè possedono, e così quei che glielo consentono.

«L'imperatore e i signori secolari furono sedotti dal diavolo perchè dotassero di temporalità la Chiesa».

Ma già il concilio stesso era uscito dalla suprema sua missione, e nel proposito di tôr via lo scisma, e considerando incerto il papa, si credette autorizzato a comandare anche a questo, fino a decretare nella v sezione che, qualunque siasi e di qualsivoglia condizione anche papale, il quale sprezzi di obbedire a questo sacro sinodo o a qualunque altro concilio generale, sia assoggettato a condegna penitenza.

A questo lo traeva l'essere la Chiesa scissa: anzi andò tant'oltre che nella xxiii sezione, dichiarò potersi dal papa appellare al concilio. Cessò allora d'essere tenuto per ecumenico; e papa Martino, proferitolo sciolto, andossene a Roma.

I Padri, vedendosi sprezzati dal popolo per le capiglie e i baccani a cui prorompeano, e divenuti sospetti nella fede dacchè eransi segregati dal papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l'eresia, e condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il salvocondotto dell'imperatore203, furono dati al braccio secolare e posti sul rogo. Tristo rimedio la violenza! La Boemia divampò d'un incendio, a spegnere il quale non bastarono torrenti di sangue204.

Eugenio IV, pontefice d'animo elevato, ma senza misura in nessuna cosa, fece aprire un nuovo concilio a Basilea (1431), onde estirpare l'eresia, ridurre in pace le nazioni cristiane, togliere il lungo scisma de' Greci, e riformare la Chiesa. I Padri s'accinsero a quest'ultim'opera senza preciso concetto di quel che volessero operare, de' limiti dell'autorità propria e di quella che pensavano restringere; denunziarono un dopo l'altro gli abusi parziali, senza proporre un rimedio radicale. Da principio, non che attenuare la sovranità papale, sanzionossi il Decreto di Graziano che la sublimava, i cinque libri delle Decretali di Gregorio IX, forse anche il sesto di Bonifazio; solo si tolsero ai papi le riserve, il diritto di provvisione, e quello di mettere imposte sulle chiese. Ma poi guidato a passione, il concilio pensò non solo scemare la potenza papale come quel di Costanza, ma sostituirvi la propria.

Vedendolo condursi con quella precipitazione, che sgomenta ogni autorità dirigente, Eugenio sospende il concilio. I Padri, non gli badando, citano lui pontefice, incolpandolo di disobbedienza; poi calata la visiera, dichiaransi ad esso superiori, potere esso scioglierli, traslocarli205.

Allora, accannitisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti curiali; determinano le forme dell'elezione del papa, e il giuramento che deve prestare; restringono le concessioni ch'e' può fare ai parenti; limitano i cardinali a ventiquattro, e ne escludono i nipoti.

Quel che di buono vi si trovava indubbiamente, era guasto dall'incompetenza e dalla smoderatezza; del che rimproverandoli, Eugenio trasferiva il concilio a Ferrara (1438). Ma dei Padri solo due ed il legato si mossero, gli altri continuarono a cincischiare la giurisdizione di Roma; anzi dichiararono scismatica l'assemblea di Ferrara, Eugenio eretico e decaduto, surrogandogli Amedeo VIII duca di Savoja, il quale accettò l'uffizio d'antipapa col nome di Felice V (1439). Così rinnovavasi lo scisma.

Il concilio di Ferrara, trasferito a Firenze, restò memorabile per la riconciliazione della Chiesa greca, allora fatta sotto la paura dei Turchi206. Oltre i punti controversi con quella Chiesa, vi è riconosciuto il primato del pontefice romano, vero successore di san Pietro, vicario di Cristo, e padre e dittatore di tutte le chiese207. Ma appena i Padri greci rimpatriarono, le dimostrazioni di piazza proruppero contro la riconciliazione: fu duopo disdirla: e si gridò dapertutto «Piuttosto il turco che il papa». Furono esauditi; e nel 1453 il Turco impossessavasi di Costantinopoli e di tutta la Grecia, che finora non ha abbandonata.

Il nuovo papa Nicola V (1447) mostrossi tutto disposto ad accordi, talchè il sinodo di Basilea più non si resse; Felice V abdicò; la pace fu restituita alla Chiesa; e il giubileo, celebrato l'anno appresso, parve solennizzare il trionfo di Roma.

I due concilj di Costanza e Basilea sono di autorità disputata, e non figurano nella serie di quelli dipinti in Vaticano. Se avessero con prudenza e carità provveduto alla riforma della Chiesa, potevano prevenire i disastri del secolo seguente. Ma rottosi l'accordo, mancata la saviezza pratica degli affari e il cauto indugiare, una critica indiscreta rischiò di surrogare agli abusi altri peggiori: come accade nelle eccedenze, la podestà minacciata riuscì superiore senza neppure le concessioni a cui mostravasi disposta. Laonde ne' popoli rimase indebolita la certezza dell'assistenza divina; sottentrata al sentimento la ragione, e alla fede lo spirito privato, i teologi sottilizzavano sui diritti, e la cattolicità si trovò divisa in papali ed episcopali, gli uni e gli altri esagerando. Mancata ne' vescovi l'assoluta soggezione, essi divennero negligenti dei doveri non solo, ma anche dei diritti veri per rinforzare i contestati, blandirono il potere laicale per averlo in appoggio contro i papi, e fantasticavano chiese nazionali. Ne' papi vacillò la coscienza della propria supremazia, sicchè per consolidarla gettaronsi nella politica, cioè si fecero ligi agli interessi; e proni ad una morale d'opportunità; a fronte dei sistemi allora introdotti d'equilibrio locale e di convenienze meramente politiche, non diressero più gl'interessi comuni della cristianità; mentre, lusingati dall'apparente vittoria, svogliaronsi fino delle riforme sentite necessarie, e s'assopirono in una sicurezza che doveva riuscire funestissima.

 

 

 





192                Nell'originale "scomumunicato". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



193                Defensor pacis, p. ii, c. 20.



194                Sul tempo di Lodovico il Bavaro fu pubblicata ultimamente un'opera tedesca di Guglielmo Schreiber, Die politischen und religiosen Doctrinen unter Ludwig dem Bayern: Landshut 1838, dove si espongono le quistioni d'allora intorno ai limiti dell'autorità papale e imperiale, mettendo principalmente in vista Dante, Marsilio da Padova, Occam e Leopoldo di Siebenburg. Il primo rivela la morale nella Divina Comedia, la politica nella Monarchia, sostenendo la monarchia universale, giusta la Bibbia e la storia. Marsilio, aristotelico, sostiene la suprema autorità del Concilio, convocato dall'imperatore, come mezzo di riconciliar il pastorale colla spada. Il vescovo di Bamberg nega al papa il diritto di trasferir ad altri l'impero. Occam, nel Compendium errorum, fu il più vivo oppugnatore della Santa Sede a favore del principato. Tutto è ben esaminato dal punto di vista del medioevo.



195                Nell'originale "qualsia". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



196   Augustini de Ancona, Summa de ecclesiastica potestate fu edita ai primordj

                della stampa in Roma da Fr. de' Cinquinis, 1479, in gotico.



197                Nello Statuto di Ferrara del 1270, la rubrica xii è quod nullus se scovet, e in margine v'è il flagello a nodi, di cui si servivano costoro. E lo Statuto dice: Quia per inimicos Sancte Matris Ecclesie cum magna cautela tractatum fuit, et inventum fuit batimentum, annis preteritis, in offensionem et periculum amicorum partis ecclesie, et in aliquibus partibus oportunum fuit quod amici ecclesie sibi in tali periculo providerent: quia enim dicitur quod tractatur simili modo batimentum de novo: idcirco vir nobilis dominus Obizo Estensis marchio ... statuunt et bannum imponunt, secundum quod inferius declaratur. E qui impongono pene corporali a chi introducesse la flagellazione, o si flagellasse, o non denunziasse chi si flagella.



198                La Dissertazione xviii del Lami tratta Della setta de' Flagellanti in Toscana.



199                Gregorio XI nel 1372 ordina inquisitoribus ut faciant comburi quosdam libros sermonum hæreticorum, pro majori parte in vulgari scriptos.



200                Raynaldi, al 1376, n. 26.



201                L'opera De modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio universali, si attribuisce a Gerson, ma forse a torto, giacchè, a tacere le ragioni estrinseche, parla con tale violenza contro di Giovanni XXIII, e con tale disamore e tanti errori sulla costituzione ecclesiastica, da parer piuttosto lavoro d'un wiclefita.



202                Riflettono che, quantunque Giovanni XXIII fosse papa dubbio, pure il concilio di Costanza temette trascendere la sua autorità col deporlo; sicchè negli atti è espresso che il re de' Romani, i cardinali, i deputati proposero che «il papa assentisse alla propria deposizione, promettesse ratificarla, e, in quanto era bisogno, egli medesimo rinunziasse». Furono in fatto spediti cardinali che persuadessero Giovanni XXIII, il quale confermò egli stesso la sentenza di deposizione.



203                Così è generalmente asserito; pure si ha una lettera di Huss, che dice: Exeo (da Praga) sine salvoconductu; e in un'altra: Venimus (a Costanza) sine salvoconductu. Ap. Rohrbacher, Hist. eccles., tom. xxi, p. 191.



204                Il fondatore degli Ussiti sosteneva, dacchè un principe cadeva in grave colpa, si era disobbligati dall'obbedirgli. I suoi seguaci spinsero tanto avanti l'intolleranza, da volere puniti di morte gli eccessi nel bere e nel mangiare, l'usura, l'incontinenza, lo spergiuro, il ricever mercede per messe o assoluzioni, e ogni altro peccato mortale; e ciò metteano per condizione al loro ritorno alla Chiesa Cattolica, la quale ricusò tale fierezza. I Fratelli Boemi, come condizione per riunirsi ai cattolici metteano l'abbattere tutti gli istituti di letteratura o di scienze; professare che i maestri d'arti belle sono pagani e pubblicani.



205                Il concilio di Basilea trovasi difeso da Nicolò Tedeschi arcivescovo di Palermo, contro del quale il cardinale Torrecremata pubblicò la grande ed ingegnosa Summa de ecclesia.



206   «Venne il pontefice con tutta la Corte di Roma, e collo 'mperadore de' Greci, e tutti i vescovi e prelati latini, in Santa Maria del Fiore, dove era fatto un degno apparato, ed ordinato il modo ch'avevano a istare a sedere i prelati dell'una Chiesa e dell'altra. Istava il papa dal luogo dove si diceva il vangelo, e cardinali e prelati della Chiesa romana; dall'altro lato istava lo 'mperadore di Costantinopoli con tutti i vescovi e arcivescovi greci: il papa era parato in pontificale, e tutti i cardinali co' piviali, e i vescovi cardinali colle mitere di damaschino bianco, e tutti i vescovi così greci come latini coi piviali, i greci con abiti di seta al modo greco molto ricchi; e la maniera degli abiti greci pareva assai più grave e più degna che quella de' prelati latini..... Il luogo dello 'mperadore era in questa solennità dove si canta la Epistola all'altare maggiore; ed in quello medesimo luogo, come è detto, erano tutti i prelati greci. Era concorso tutto il mondo in Firenze per vedere quell'attodegno. Era una sedia dirimpetto a quella del papa dall'altro lato, ornata di drappo di seta, e lo 'mperadore con una veste alla greca di broccato damaschino molto ricca, con uno cappelletto alla greca, che v'era in sulla punta una bellissima gioja: era uno bellissimo uomo, colla barba al modo greco. E d'intorno alla sedia sua erano molti gentili uomini che aveva in sua compagnia, vestiti pure alla greca molto riccamente, sendo gli abiti loro pieni di gravità, così quegli de' prelati, come de' secolari. Mirabile cosa era a vedere ben molte degne cerimonie, e i vangeli che si dicevano in tutte dua le lingue, greca e latina, come s'usa la notte di Pasqua di Natale in Corte di Roma. Non passerò che io non dica qui una singulare loda de' Greci. I Greci, in anni millecinquecento o più, non hanno mai mutato abito: quello medesimo abito avevano in quello tempo, ch'eglino avevano avuto nel tempo detto; come si vede ancora in Grecia nel luogo che si chiama i Campi Filippi, dove sono molte storie di marmo, dentrovi uomini vestiti alla greca nel modo che erano allora». Vespasiano fiorentino, Vita di Eugenio IV.

                Dopo i molti cattolici che scrissero del concilio di Firenze, comparve nel 1861 una memoria di Basilio Popoff, studente di teologia a Mosca, che descrive quell'ultimo tentativo di unione fra le due Chiese dal punto d'aspetto greco e con gran lodi ai membri della greca.



207   La copia più intera di quell'atto sta nella Laurenziana a Firenze. Alle altre manca la firma del gran sincello. Una ne è nell'archivio di Stato d'essa città. Nell'archivio capitolare di Milano se ne conserva un esemplare autentico, scritto in latino e greco, e colle firme originali di papa Eugenio IV e di otto prelati latini, e dell'imperatore Paleologo in cinabro, e colla bolla imperiale. Nell'Archivio storico del 1857 fu pubblicato l'atto d'unione, che comincia così: Eugenius ecc. Consentiente carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romeorum imperatore illustri et... orientalem ecclesiam representantibus. Letentur celi et exultet terra; sublatus est enim de medio paries qui occidentalem orientalemque dividebat Ecclesiam, et pax atque concordia rediit: illo angulari lapide Christo, qui fuit utraque unum, vinculo fortissimo caritatis et pacis utrumque jungente parietem, et perpetue unitatis fœdere copulante ac continente; postque longam meroris nebulam, et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus unionis optate jubar illuxit. Gaudeat et mater Ecclesia, que filios suos, hactenus invicem dissidentes, jam videt in unitatem pacemque rediisse: et que antea in eorum separatione amarissime flebat, ex ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio, omnipotenti Deo gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui christiano censentur nomine matri catholice Ecclesie colletentur. Ecce enim occidentales orientalesque Patres, post longissimum dissensionis atque discordie tempus, se maris ac terre periculis exponentes, omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium desiderio sacratissime unionis, et antique caritatis reintegrande gratia, leti alacresque convenerunt, et intentione sua nequaquam frustrati sunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem Spiritus Sancti clementia ipsam optatissimam sanctissimamque unionem consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis Dei beneficiis gratias referre sufficiat? quis tante divine miserationis divitias non obstupescat? cujus vel ferreum pectus tanta superne pietatis magnitudo non molliat? Sunt ista prorsus divina opera, non humane fragilitatis inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio, Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponse tue catholice Ecclesie contulisti, atque in generatione nostra tue pietatis miracula demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem divinumque munus nobis Deus largitus est: oculisque vidimus quod ante nos multi, cum valde cupierint, adspicere nequiverunt. Convenientes enim Latini ac Greci in hac sacrosancta synodo ycumenica, magno studio invicem usi sunt, ut, inter alia, etiam articulus ille de divina Spiritus Sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione discuteretur.

                Item diffinimus Sanctam Apostolicam sedem, et Romanum Pontificem in universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum, et rerum Christi vicarium, totiusque Ecclesie caput, et omnium Christianorum patrem et doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum, et in sacris canonibus continetur, Renovantes insuper ordinem traditum in canonibus ceterorum venerabilium Patriarcharum, ut Patriarcha Constantinopolitanus secundus sit post sanctissimum Romanum Pontificem, tertius vero Alexandrinus, quartus autem Antiochenus, et quintus Hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et juribus eorum.



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