Cesare Cantù
Gli eretici d'Italia

DISCORSO IX ERESIA SCIENTIFICA E LETTERARIA. PAGANIZZAMENTO DELL'ARTE, DELLA VITA. ERESIA POLITICA.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

DISCORSO IX

 

ERESIA SCIENTIFICA E LETTERARIA. PAGANIZZAMENTO DELL'ARTE, DELLA VITA. ERESIA POLITICA.

 

Fra i tanti pregiudizj letterarj, con cui offuscano gl'intelletti le deplorabili scuole odierne, v'è questo, che il medioevo fosse un'età trista, melanconica, di penitenze e digiuni, di pellegrinaggi e flagellazioni, di demonj e fatucchiere; ove le minaccie dell'altra vita conturbavano questa, deserto arido, esiglio espiatore, tremebondo dinanzi a potenze arcane, avide del dolore e non esorabili che col dolore. Eppure, chi vi guarda, troverà che i sentimenti affettuosi vi aveano ricevuto sviluppo, fino a scapito della ragione; la cavalleria fondavasi tutta sulle simpatie, e di vennero i racconti che più sorrisero alle fantasie moderne: in capo a tutte le devozioni stava la madre del Bell'Amore: il misticismo era un eccesso dell'amor di Dio, come molti Ordini monastici portavano all'eccesso l'amor del prossimo: lo spiritualismo era austeramente dolce, sino in que' frati, che non solo nelle novelle ma ben anco nelle storie ci sono esibiti come bontemponi, motteggiatori, burleschi, che le prediche stesse drammatizzavano, che ogni funzione cominciavano e finivano coi canti, che composero tutte le laude e molte delle rappresentazioni, colle quali edificavano insieme e ricreavano la plebe di Cristo. Il vulgo vivea contento, perché208 non concepiva soddisfazioni maggiori, e perchè i sofferimenti, inseparabili dalla vita, considerava quale conseguenza inevitabile del peccato, ma espiatrice e meritoria. Le cronache parlano continuo delle feste che ripetevansi ad ogni occasione; devote, o popolesche, od aristocratiche, ma sempre accomunate a tutto il paese. La casa del contadino non era molestata dall'esattore; non la sua chiassosa allegria dal gendarme; non la sua figliolanza dalla coscrizione; e se fosse possibile spogliarci dell'intirizzente raziocinio e dell'egoismo odierno, ben altra ci si presenterebbe la vita d'allora.

Altrettanto dobbiamo abbandonar alle scuole e alla plebe degli scrittori l'asserire che il medioevo non sapesse nulla, e colpa ne fosse il clero. Il medioevo serbò tutte, dico tutte, le cognizioni dell'antichità, e n'aggiunse moltissime. Il clero, sol che l'avesse voluto, potea spegnere l'antica face della civiltà, giacchè egli solo l'aveva in mano; e in quella vece la tenne viva ed alzata, e faticò a propagarla per quanto era fattibile tra le sventure di quell'età.

Dove conservaronsi tutti i manuscritti dell'antichità? chi li trascrisse? Dicono che il clero ne abbia lasciato perire alcuno per ignoranza o per usar quella carta a scrivervi lavori che ad esso più importavano. Foss'anche colpa l'usar mezzi proprj a proprio utile, è ampiamente riscattata dal merito de' tanti tramandatici, e ne loda il buon gusto il vedere che questi sono i capolavori del genio classico.

è da trascurare che i paesi più istruiti d'allora erano l'Italia e la Spagna; e sono appunto quelli che respinsero il protestantismo. Qui da noi in generale, discutendo l'applicazione, non s'impugnava il principio; l'Inquisizione, nel secolo xv, ebbe poc'altro che a perseguitare maliardi e superstiziosi anzichè eretici, conosco quali fossero quelli che combattè il famoso Giovanni da Capistrano, quelli che dalla Francia e dalla Lombardia si erano ricoverati fra i monti della Valtellina, e alla cui conversione andò il beato Andrea Grego di Peschiera, domenicano di San Marco in Firenze, che morì il 1455, dopo dimorato quarantacinque anni fra que' pastori e carbonari alpini. Neppur potemmo accertare che cosa fosse la setta pitagorica, diffusa in tutta Italia, alla quale diceasi appartenere Arnaldo di Villanuova; oppure la società segreta che avea giurato la distruzione del cristianesimo, e della quale parla con sbigottimento la discesa di san Paolo all'inferno209. Il cronista Ser Cambi, al 1453, scrive che Giovanni Decani, medico, il quale non credeva la resurrezione de' morti, fu condannato alla forca a Firenze; e in quel anno morì Carlo d'Arezzo cancelliere della signoria, ed ebbe grandissime doti: «Dio l'abbia onorato in cielo, se l'ha meritato; non che si stimi, perchè morì senza confessione e comunione, e non come cristiano». Lodovico Cortusio giureconsulto, morendo a Padova il 17 luglio 1418 lasciò per testamento che amici parenti nol piangessero; se no, rimanessero diseredati, mentre suo legatario universale sarebbe quello che ridesse di miglior cuore: non parare a bruno la casa e la chiesa, ma fiori e fronde; musica invece delle campane funebri; e cinquanta sonatori e cantanti procedano insieme col clero, cantando alleluja tra viole, trombe, liuti, tamburi, ricevendo ciascuno un mezzo scudo. Il suo cadavere, entro una bara a panni di varj colori gai e sfoggiati, sia portato da dodici donzelle vestite di verde, che cantino arie allegre, e ricevano una dote. Non rechino candele, ma ulivi e palme e ghirlande di fiori; non lo seguano monaci che abbiano la tonaca nera. Così piuttosto in guisa di nozze che di funerale fu sepolto in Santa Sofia. Il nostro secolo, che tanto s'intende di libertà, lo chiamerebbe un libero pensatore.

Ma intanto il mondo si era trasformato, fissate le genti sul suolo che diverrebbe lor patria; e restauratasi l'antica coltura, si moltiplicavano le scoperte, si sentivano nuovi bisogni.

Non limitandosi a dirozzare la società nuova, la letteratura pretendeva modificarne le credenze e gli atti, ritornando nelle teoriche e nella pratica verso il paganesimo. Le scienze, allattate nel santuario e disciplinate dagli scolastici come un esercito sotto al Verbo di Dio, or disertavano, e dilatandosi mediante la stampa, mordeano il seno che le avea nudrite. Passando dal periodo credente al pensante, l'uomo s'appropriava col raziocinio le verità, che fin avea ricevute dalla fede, e mentre fin allora la religione era, quale Grozio la definì, unico principio dell'universale giustizia, or non più soltanto dalla Chiesa domandavasi in che modo servire meglio a Dio e al prossimo. Platone avea detto: «Filosofia è imparare a conoscer Dio: filosofare è amar Dio: filosofare è imitar Dio»210, onde fu preferito dai primi Cristiani, ma condusse facilmente nell'idealismo. La filosofia scolastica, tutta armata di logica, avea preso per oracolo Aristotele, in verità maestro eccellente, poichè in esso trovasi anche la critica degli altri sistemi, mentre Platone non che il proprio dogma. Aristotele anch'esso proclama e dimostra il Dio supremo, la legge morale, l'anima immortale: ma al Cristiano che attende tutto da Dio, poteva essere fedel maestro questo, che esagera la potenza della natura e l'efficacia dell'umana volontà? Egli che erige in principio supremo la natura, poteva rimanere l'oracolo d'una scienza tutta religiosa? Poi esso giungeva in Europa nelle versioni e nei commenti de' Musulmani, che gli aveano prestato sentimenti assurdi e sofisterie; che traducendo teosofizzavano l'autore, e in modo fantastico osservando il mondo, applicavano l'astronomia all'astrologia, l'astrologia alla medicina. I nostri, nel tradurre quelle traduzioni, nuovi errori vi sovrapposero; la critica sapeva riconoscervi l'alterazione, mentre l'idolatria professata ad Aristotele impediva di supporlo in fallo; donde una miscela d'arabo, di scolastico, di cristiano, bastardume sterile, e indicifrabile a quei che voleano conciliarlo colla teologia dogmatica.

Al movimento razionale repugna assolutamente l'islam, avverso ad ogni cultura civile e profana; pure un istante la protezione de' califfi gli diè tale impulso, da sorgerne un'età dell'oro della coltura musulmana, sebbene esagerata da coloro che imputano ai Cristiani d'averla respinta. Quegli italiani che il fanno, e che deridono o riprovano le crociate pensino che l'islam stabiliva il despotismo teocratico, dove non famiglia, non ceti, non liberi possessi, non gerarchia; bensì un'eguaglianza assoluta, ove tutto può la volontà d'un solo. Un tale despotismo, più robustamente attuatosi nei Turchi, represse la coltura degli Arabi a tal segno, che più non ne serbano impronta ricordo i Musulmani. Nella cristianità invece si riverirono e usufruttarono i loro dotti e pensatori, e massime Averroè, vissuto verso il 1180, e che fece quel Gran Commento, pel quale si disse essere stata la natura pienamente interpretata da Aristotele; Aristotele pienamente da Averroè.

Gli Arabi, dopo ricevuta la rivelazione di Maometto, aveano cominciato le dissensioni teologiche dall'eterna quistione del libero arbitrio e della predestinazione (Kadariti e Giabariti), donde passarono a quella sugli attributi di Dio. Ma anche fra loro v'avea degli scettici; v'avea degli increduli; vacillavasi tra l'entusiasmo religioso e il libero pensare: e quel che fra noi la Scolastica, fu fra essi il Kaläm, discussioni razionali sia per esaminare, sia per difendere colla dialettica i dogmi attaccati. In tali esercizj la filosofia araba ampliò i problemi de' Peripatetici, e accolse l'eternità della materia e la teorica dell'unicità dell'intelletto.

E appunto la filosofia di Averroè s'appoggia sul panteismo; una sola essere l'anima, e Dio essere il mondo. La generazione (secondo lui) non è che un movimento. Ogni movimento suppone un soggetto. Questo soggetto unico, questa possibilità universale è la materia prima. Essa è dotata di ricettività, ma di nessun'altra qualità positiva, cioè può ricevere le più opposte modificazioni; materia prima, senza nome definizione; semplice possibilità. Ogni sostanza è dunque eterna per la sua materia, cioè perchè può essere. Chi dicesse che una cosa passa dal non essere all'essere le attribuirebbe una disposizione che mai non ebbe. La materia non fu generata e non può corrompersi. La serie delle generazioni è infinita da entrambi gli estremi: tutto quanto è possibile passerà in atto, altrimenti v'avrebbe alcun che di ozioso nell'universo: e nell'eternità non v'è divario tra il possibile e l'esistente. L'ordine non precedette il disordine, questo quello: il movimento il riposo o viceversa. Il movimento è continuo; ogni movimento è causato da un moto precedente. Se il moto dell'universo si fermasse, cesseremmo di misurare il tempo, cioè perderemmo il sentimento della vita successiva e dell'essere211.

Quest'unità degli spiriti fu trionfalmente confutata da san Tommaso212, e, nel xiv secolo, da Egidio di Roma, le cui opere troviamo pubblicate ai primordj della stampa213, dipoi da Gerardo di Siena e Raimondo Lullo. Essi non fanno che esecrare quest'empio, il quale identifica l'anima di Giuda e quella di san Pietro, nega la creazione, la rivelazione, la Trinità, l'efficacia della preghiera, della limosina, delle litanie, la risurrezione e l'immortalità, e colloca il supremo bene nei godimenti. Egidio di Roma nel trattato De erroribus philosophorum, lo taccia d'aver rinnovellato tutti gli errori d'Aristotele, vie meno scusabile perchè direttamente intacca la fede nostra; biasima tutte le religioni, non meno quella de' Musulmani che quella de' Cristiani, perchè ammettono la creazione dal nulla: chiama fantasie le opinioni de' teologi, e sostiene che nessuna legge è vera, benchè possa esser utile.

E appunto una delle accuse principali contro Averroè si è la comparazione delle leggi di Mosè, di Cristo, di Maometto. Aveano dovuto istituirla i Musulmani per sostener la loro religione, ma Averroè più di spesso e dogmaticamente accenna ai tres loquentes trium legum214, donde il crederlo autore del libro dei Tre Impostori, divenne215 arma per colpire chiunque si volea screditare.

E veramente gli scolastici del secolo xiii vanno d'accordo nel riprovare Averroè, ma ciò stesso mostra che v'avea dottori e scuole dov'era riverito e insegnato; forse mal s'apporrebbe chi ciò attribuisse principalmente a' Francescani, per opposizione ai Domenicani e ai Tomisti. Certo ne parla con rispetto Roggero Bacone.

E qui è luogo a ripudiar due altri pregiudizj da scuola contro il medioevo, opponendovi due meraviglie. La prima è la rapidità con cui, senza stampa poste, si difondeano i pochi libri. Le poesie de' Trovadori, appena prodotte, conosceansi in tutta Europa. Abelardo aveva appena pubblicato le sue scettiche teorie a Parigi, e subito le si possedeano in fondo all'Italia. I versi del Petrarca, lui vivo, gli davano una gloria estesa quanto a qualsiasi poeta de' giorni nostri; e meglio che a' giorni nostri s'aveva a Padova o a Bologna notizia di opere prodotte a Marocco o al Cairo. Più che all'attività degli Ebrei, io inclino ad ascrivere questo fatto alla grande e compatta società dei monaci.

L'altra meraviglia è che, in secoli vituperati per intolleranza, non s'avesse scrupolo di farsi scolari d'Ebrei e di Musulmani, tenendo le scienze come un campo neutro, e salvo a condannarne gli abusi. Coi Musulmani comunicavasi da un lato per la Spagna, dall'altro per la Sicilia, oltre i viaggi d'Oriente: onde ben presto venne dai nostri conosciuto Averroè. Ma il primo ad introdurne le opere nelle scuole fu Michele Scoto nel 1230, e per queste fu ben accolto nella Corte degli Hohenstaufen avversa ai papi; e Federico II, come re Manfredi, ebbe in corte Ermanno tedesco traduttore216.

Non si tardò a conoscere il pericolo delle dottrine d'Averroè, e la Chiesa ne vietò la pubblica lettura, ma presto si sentì l'influenza del peripatismo arabo sui filosofi nostri, e principalmente su Alberto Magno, che nel 1255, per ordine di papa Alessandro IV compose a Roma un trattato contro l'unità dell'intelletto, nel quale già si trova la distinzione di verità filosofiche e verità teologiche217. Alberto adduce 30 argomenti che sostengono quell'asserto, 36 che lo ribattono, onde l'immoralità individuale gli sa numericamente più forte. Certamente nel secolo xiv Averroè era riverito come il migliore fra i commentatori d'Aristotele: Dante lo collocava coi più famosi antichi, e le sue opere spandeano dubbj sulla vita futura.

Il rinascimento che allora seguì fu piuttosto letterario che filosofico, e mentre stavasi ancora fedeli al sillogismo, il quale esclude le gradazioni e modificazioni, introduceasi quell'espressione colta sotto cui si palliano le divergenze d'opinioni. Di tale risorgimento letterario è rappresentante Francesco Petrarca, il quale vuolsi noverare fra' più efficaci sulla coltura europea pel tanto che adoprò a ravvivare la tradizione classica, non tanto nella forma esterna, quanto nello spirito intimo e libero, per cui considerava come barbarie il medioevo, e come ignoranza tuttociò che derivasse da altro fonte che da' classici. Pertanto egli sprezza affatto gli Arabi, e specialmente la loro medicina, a cui s'innestavano l'astrologia e l'incredulità, ed esortava a schivar tutto quanto derivasse da quella nazione218. E poichè alcuni diceano che noi potremmo eguagliare, e forse sorpassare i Greci e tutte le nazioni, eccetto gli Arabi, esclamava: O infamis exceptio! o vertigo rerum admirabilis! o italica vel sopita ingenia, vel extincta!

Per questo sentimento e pel religioso egli professavasi ostilissimo ad Averroè, e si piangeva che non ottenesse nome di dotto e filosofo chi non aguzza la lingua e la penna contro la religione; chi non va per le strade e per le piazze disputando sugli animali, e così mostrandosi animale. Più uno accannisce contro la religione, più a' costoro occhi è ingegnoso e dotto: ignorante chi la difende. «Per me (soggiunge) più sento denigrare la fede di Cristo, più amo Cristo e mi confermo nella sua dottrina, come un figliuolo, di cui la tenerezza filiale si fosse raffreddata, la riscalda se ode attentarsi all'onor di sua madre». Soleano essi (dice altrove) porre in mezzo qualche problema aristotelico, o sulle anime; ed io tacere, o celiare, o avviar tutt'altro discorso, o sorridendo chiedere come mai Aristotele avesse potuto saper cose, dove non val la ragione, dov'è impossibile l'esperienza. Essi stupivano, e in silenzio indispettivansi, e guardavanmi come un bestemmiatore.

Uno di costoro, «i quali pensano esser da nulla se non abbajano contro di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare esso poeta a Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato quel detto dell'apostolo delle genti: Io ho il mio maestro, e so a chi credo; e, «Tienti il tuo cristianesimo, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e cotest'altri ebber ciarle e nulla più; e deh! volessi tu legger Averroè, che vedresti quanto ei sorvola a cotesti tuoi buffoni». Il Petrarca se ne stomacò, e tutto dolce ch'egli era, prese pel mantello e mise fuor di casa il temerario219.

Anche altri quattro220 faticarono per trarlo al loro pensare, indispettendosi che prendesse sul serio la religione, e citasse Mosè e san Paolo, e conchiusero ch'egli era un uomo dabbene, ma senza cultura. E «se costoro (soggiunge) non temessero i supplizj degli uomini più che quelli di Dio, impugnerebbero non solo la creazione del mondo secondo Timeo, ma la genesi e il dogma di Cristo. Quando paura non li rattiene, combattono direttamente la verità; nelle loro conventicole ridonsi di Cristo, e adorano Aristotele senza capirlo. Disputando, in pubblico protestano di far astrazione dalla fede, cioè di indagare la verità ripudiando la verità, cercar la luce volgendo le spalle al sole. E come non tratterebbero d'illetterati noi, poichè chiamano idiota Gesù

Non sentendosi abile a confutarli, il Petrarca esortava Luigi Marsigli agostiniano a farlo, e «ribattere quel can rabbioso d'Averroè, che non cessa d'abbajare contro Cristo e la religione cattolica»221.

Pietro d'Abano (1250-1316) aveva introdotto Averroè nell'Università di Padova, e con esso l'incredulo materialismo, e il considerar tutte le religioni come eguali, supponendole nate sotto certi influssi di stelle222; la qual fantasia dell'oroscopo delle religioni, più tardi vedremo ripigliata da Pomponazio e da Pico della Mirandola. Pietro fu accusato anche d'eresia, ma così vagamente, che alcuni lo imputano di non credere ai demonj, altri di averne alcuni famigliari, che teneva in un'ampolla. Dall'Inquisizione si salvò una volta; presone un'altra, morì mentre gli si faceva il processo; il quale finì col dichiararlo eretico, e ordinare ne fosse dissepolto il cadavere.

Giovanni di Gianduno, che con Marsiglio di Padova sostenne Lodovico il Bavaro contro il papa, imparò o insegnò in quest'Università l'averroismo. Dove pure Paolo da Venezia e frate Urbano da Bologna, che nel 1334 ne stese un commento, ed altri, prima di Gaetano Tiene (1387-1465), reputatone fondatore dal Facciolati e dal Tommasino; mentre solo per l'alta sua nascita e per la scienza contribuì grandemente a diffondere tal dottrina con un corso che in numerosissime copie fu diffuso, ed ebbe credito nelle scuole italiche in tutto il secolo seguente. Paolo di Venezia ( - 1429) agostiniano, soprannomato excellentissimus philosophorum monarcha, ammettea francamente l'unicità dell'intelletto secondo Averroè, benchè non ne deducesse l'unicità delle anime. Anzi a Bologna ciò sostenne in pubblica disputa avanti al capitolo generale del suo Ordine contro Nicolò Fava. Ma per quanto si schermisse con tutta l'abilità dialettica, Ugo Benzi da Siena gli gridò: «Fava ha ragione, e tu hai torto». Il Benzi era nemico del Fava, onde Paolo esclamò: «In quel giorno divennero amici Erode e Pilato», e così risolse in riso l'adunanza.

Onofrio da Sulmona, Paolo della Pergola, Giovanni da Lendinara, Nicola da Foligno, Marsilio da Santa Sofia, Giacomo da Forlì, per nominar solo i nostri, parteggiavano in quel tempo pel peripatismo d'Averroè nella scuola di Padova. Nella quale, e all'abadia di San Giovanni in Verdara a Bologna, Averroè godette venerazione; Michele Savonarola nel 1440 lo chiama ingenio divinus homo, e affrettaronsi a commentarlo Claudio Betti, Tiberio Cancellieri di Bologna, il Zimara, lo Zaccaria, Lorenzo Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Gerolamo Sabbioneta, Tommaso da Vio; la famosa Cassandra Fedele veneziana ottenne la laurea nel 1480, sostenendo tesi averroiste: Nicoletto Vernia, che professava a Padova sin al 1499, era imputato d'aver diffuso quel veleno per tutta Italia223, e da lui imparò il Nifo: ma buoni amici l'indussero a ritrattarsi. E chi cercasse negli archivj di quelle Università, troverebbe ne' quinternetti le pruove de' molti studj fattisi colà intorno all'averroismo, che regnava nelle scuole venete, come il platonismo nelle toscane. Pertanto Francesco Patrizio illirico, che presunse fondare una filosofia nuova, esortava il papa a sbandir Aristotele come ripugnante al cristianesimo, a cui in quarantatre punti aderiva Platone.

Ma se quello al materialismo, questo conduceva al misticismo; ed entrambi all'incredulità. Gemistio Pletone di Costantinopoli (1355-1452), venuto a Firenze per contrariare l'unione della Chiesa greca colla latina, diffuse fantasie neoplatoniche, ed asseriva fra poco la religione di Maometto e quella di Cristo perirebbero, per far luogo ad una più vera, non diversa dalla pagana. Nel Sunto dei dogmi di Zoroastro e Pitagora contrappone la teologia gentilesca alla ecclesiastica; e sebbene procedesse con cautela, il patriarca Gennadio gl'interruppe l'apostolato. Restò inedito il suo Trattato delle leggi224, apologia del politeismo, i cui dogmi connette in un sistema filosofico regolare, con organamento e leggi e culto, feste, inni e preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio Leto, che davanti ai papi professava di voler annichilare l'opera di Gesù Cristo.

Più erano coloro che bilanciavansi fra Aristotele e Platone, fra paganesimo e cristianesimo: e in religione l'eccletismo striscia all'eresia, se non è. Già nominammo Egidio da Roma, della nobilissima famiglia Colonna, scolaro di san Tommaso, generale degli Eremitani, poi arcivescovo di Bourges, eruditissimo nelle sacre scritture e nella filosofia aristotelica, e fra i dottori cognominato il Fondatissimo. Or egli dichiarava esserci cose che sono vere secondo il filosofo, non secondo la fede cattolica: quasi due verità contrarie possano sussistere. Tale proposizione venne condannata sotto Giovanni XXII, ed egli si ritrattò; ma questa eresia divenne comune nel secolo xv, e si sosteneano pretti errori, come la mortalità dell'anima, l'unicità dell'intelligenza, l'ispirazione individuale, salvandosi col dire che erano illazioni dalle premesse di Platone e d'Aristotele, ma non pregiudicavano ai dogmi di Cristo. Così le due opposte scuole s'accordavano contro la rivelazione, non combattendola, ma affettando di non tenerne conto, quasi la non fosse mai avvenuta; eliminando la fede e ogni forza o sussidio soprannaturale, per seguire solo le vedute proprie in problemi di spettanza religiosa, la cui soluzione importa alla morale come al benessere della società.

A Platone prestava culto Marsilio Ficino, sino ad accendergli una lampada; nol discompagnava da Mosè, vi trovava l'intuizione de' misteri più profondi; il Critone pareggiava ad un secondo vangelo, piovuto dal cielo; e servendo a due padroni, usava espressioni scritturali a spiegare il filosofo. Loda Giovanni de' Medici con queste parole: Est homo Florentiæ missus a Deo cui nomen est Johannes: hic venit ut de summa patris sui Laurentii apud omnes authoritate testimonium perhibeat. E da Plotino fa dire sopra Platone: Hic est filius meus dilectus in quo mihi undique placeo: ipsum audite225. Nel trattato De religione Christiana (1474) prova la divina missione di Cristo dall'esser egli stato predetto da Platone, dalle Sibille, da Virgilio; e dall'avere dato gli Dei molto benigna testimonianza di esso: i preti sieno dotti, i dotti preti; e la vera scienza è il platonismo. Tutte le religioni son buone, e Dio le preferisce all'irreligione; la cristiana è più pura, ma v'è profeti e sacerdoti in ogni nazione, quali Orfeo, Virgilio, il Trismegisto, i Magi, ecc.: e il Ficino tradusse libri da ciascuno, senza investigarne l'autenticità: le Enneadi di Plotino, i libri d'Ermete, i misteri degli Egizj di Giamblico, le opere di Dionigi Areopagita, i Versi Dorati di Pitagora, opuscoli di Proclo, Senocrate, Sinesio, Teofrasto, Alcinoo, Zoroastro. Nel trattato De vita cœlitus comparanda, sull'astrologia erige un sistema della vita del mondo, ove tutte le forze solidariamente e le idee e i costumi si trovano messi in corrispondenza coi movimenti e le sistemazioni degli astri. Nella Theologia platonica de immortalitate animæ (1488) adduce moltissime pruove di questa, ma fa preponderare la dottrina dell'emanazione; e assimila l'intelligenza e il bene alla luce, la materia e il male alle tenebre. In questo sincretismo, ciò che gli manca sempre è lo spirito cristiano, la carità.

Michele Mercato, suo prediletto discepolo, non sapea cacciare di testa i dubbj sull'immortalità dell'anima. Ed ecco una mattina è svegliato dallo scalpitare d'un cavallo e da una voce che il chiama a nome. Si affaccia, e il cavaliere gli grida: «Mercato! è vero». Egli avea pattuito col Ficino che, qual dei due morisse primo, darebbe all'altro notizie d'oltre la tomba; e il Ficino era appunto spirato in quell'istante.

già faceansi quistioni generali sopra Aristotele e Averroè ed Alessandro Afrodisio; ma tutto s'era ristretto in pochi punti capitali: l'immortalità è un bel trovato de' legislatori; il primo uomo provenne da cause naturali: i miracoli sono illusioni o imposture: le preghiere, l'invocazione de' santi non hanno efficacia alcuna, e la dottrina dei tre impostori rinasceva quando Pomponazio contro la Providenza lanciava questo dilemma: se le tre religioni son false, tutto il mondo è ingannato: se delle tre, una sola è vera, ecco ancora ingannata la maggioranza.

Questo Pietro Pomponazio mantovano (1473-1525), brutta figura, cattivo filologo e debole logico, ma arguto, sonoro e vivace parlatore, tormentato dall'incertezza del vero a segno da perderne il sonno, e soffrir la febbre e vertigini226, accorgendosi d'altra parte che il ricercarlo provoca beffe dal vulgo, persecuzioni dagli inquisitori227, pone ogni studio a conciliare la ragione colla fede. Gli resta qualche dubbio; e promovendo discussioni senza riguardo al dogma e alla disciplina cattolica, vi risponde facilmente: ma altri dubbj gli rampollano, e da ciascuna soluzione ritrae nuove incertezze, sempre allontanandosi d'un passo, finchè riesce fuor del cristianesimo, anzi d'ogni credenza positiva: dubita fin della Providenza e dell'individualità dell'anima228, fa inventate dagli uomini le idee morali e le postume retribuzioni229; conchiude riferendosi interamente alla Chiesa, pur professando ch'ella non nessuna soddisfacente soluzione.

Volete vedere com'egli o vacilli fra le autorità, o se ne rida? Trattando della destinazione delle anime, repudia il panteismo, monstrum ab Averrhoe excogitatum; ma (dice) se fosse vero, come molti Domenicani asseriscono, che san Tommaso avesse ricevuto, realmente e davanti testimonj, tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non oserei muover dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi sappiano di false e assurde, e ch'io ci veda illusioni e decezioni piuttosto che soluzioni; perocchè, a detta di Platone, è empietà il non credere agli Dei o ai figli degli Dei, quando anche sembrino rivelar cose impossibili. Vero o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de' quali attendo soluzione dagli infiniti uomini illustri della sua setta».

E qui, schierate le argomentazioni più speciose contro l'immortalità, conchiude che questo problema, come quello dell'eternità del mondo, da nessuna ragion naturale può essere risolto; onde s'ha da seguire Platone, ove de legibus dice: «Quando molti dubitano d'una cosa, è solo di Dio l'assicurarla». Vuolsi dunque esaminare quello che viene stabilito nella sacra scrittura230; e poichè ivi è asserita l'immortalità, non è lecito dubitarne; repugna essa ai principj naturali, ma il voler adoprare questi sarebbe un oltraggiar la fede231.

Può darsi più strano modo d'accettare la tradizione religiosa?

Il Bayle trova cento discolpe al Pomponazio, e ben si comprende, giacchè in lui difendea se stesso. Chi però volesse scusarlo dovrebbe allegare che incertissime dottrine correano sull'anima, quando i Platonici ne ammetteano tre, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; e de' Peripatetici alcuni sosteneano l'unicità delle intelligenze, altri la moltiplicità, pur facendole mortali. Il Pomponazio volle scostarsi da tutte le dottrine d'allora; dimostrò che nessuna, e tanto meno quella d'Aristotele, bastava a provare l'immortalità, ma che, neppur negando questa, ne soffrirebbe la morale privata o la pubblica, anzi ne vantaggerebbe.

Altrettanto egli usa intorno al libero arbitrio. «Se c'è una volontà superiore alla mia, una legge imposta al mondo, come dovrei io rispondere del mio pensiero, de' miei movimenti? Ora, una volontà, un ordine superiore esiste: dunque tutto ciò che si opera non può farsi che secondo una via già tracciata: operi bene o male, non ne ho merito colpa». Su questo motivo acconcia mille variazioni, poi conchiude col rifuggire alla fede, e sottomettersi alle decisioni della Chiesa.

Poich'ebbe così tolto a dimostrare che la teologia dovea lasciar libera la parola alla filosofia, procedette avanti, sino a pretendere che la Chiesa non dovesse impacciar più gli ardimenti della filosofia, giacchè il dominio di essa, per evidenti segni, volgeva al declino. Nel trattato delle Incantagioni professa tenersi alla natura qualvolta le argomentazioni bastano a dar ragione di fenomeni, per quanto straordinarj, ma nega assolutamente il miracolo; non darsi alcun fatto nella storia sacra o nella profana che esca dal naturale; se eccettua i fatti scritturali è mera precauzione oratoria; secondo lui, ogni cosa è concatenata in natura; di guisa che i rivolgimenti degli imperi e delle religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del cielo colla terra, e profittano della sospensione delle leggi fisiche ordinarie per fondare nuove credenze; cessata l'influenza, cessano i prodigi: le religioni decadono, e non lascerebbero che l'incredulità, se nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi; le stelle, le costellazioni, le intelligenze celesti determinano l'applicazione anche straordinaria di leggi fisse: per essi nascono le religioni e muojono, via via che l'umanità si perfeziona, tutte avendo un'origine, una stasi, una decadenza, neppur eccettuandone la cristiana232.

In tutto ciò mostrava ingegno robusto, superiore ai tempi, precursore di molte novità; ma era ateo o ipocrita? Le sue proteste di fede non salvano l'arguzia e la sofisteria de' suoi ragionamenti.

Per tali guise la filosofia era messa in contrasto assoluto colla religione, sotto pretesto d'accordarla. Anche Cartesio presunse aquetare l'eterno conflitto tra la fede e il raziocinio, col dire che la ragione ha un regno suo proprio, ove la tradizione non dee penetrare; e così la fede ha terre riservate, chiuse al libero pensiero; la religione è una cosa, la filosofia un'altra; esse devono trovar pace nel reciproco isolamento; non è necessario scegliere; basta far a ciascuna il suo spazio legittimo; e se ben si guardi, tutte le insigni opere dell'età di Cartesio s'impiantano su questa base. Di certo la filosofia ha alcune parti diverse dalla teologia, per esempio la logica e la psicologia sperimentale; ma su punti essenziali, quali il principio e il fine delle cose, Dio e la nostra destinazione, potrebbe mai un uomo aver due opinioni contrarie? come operare fra due scienze, l'una che dice sì, l'altra che dice no?233

L'opera del Pomponazio fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico234, dal Nifo, e da Ambrogio arcivescovo di Napoli, contro i quali la difese l'autore; poi dal Contarini che fu cardinale, da tre frati, Bartolomeo da Pisa, Girolamo Bacelliere, Silvestro Prieira.

Perocchè i frati vigilavano su questi aberramenti, e studiavano a combatterli; i filosofi si lagnano sempre dell'opposizione dei cucullati: il Pomponazio querelasi d'un eremita di sant'Agostino napoletano, che, predicando a Mantova, l'avea proferito eretico ed empio, mentre in vece il cardinal Bembo l'avea difeso alla Corte papale, e non trovato nel suo De immortalitate nulla di contrario alla verità, e che egual opinione tenne il maestro del sacro palazzo. In fatto, mediante le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata, egli potè seguitar a professare impunemente; dopo morte fu onorato d'una statua, e deposto nella sepoltura d'un cardinale; ma allora divulgossi un epitafio che diceva: «Qui giacio sepolto. - Perchè? - Nol so, mi curo sapere se tu il sappi o no. Se stai bene ne godo. Io vivendo stetti bene. Sto bene ora? se sì o no non posso dirlo».

Poichè da noi facilmente ogni sentimento diviene passione, non piccola efficacia ebbe egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: «Parlateci delle anime», per conoscer di primo achito come vedesse nelle quistioni fondamentali.

A que' pensamenti aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Daniele Barbaro che diceva: «Se non fossi cristiano seguirei in tutto Aristotele»235; Simone Porzio, la cui opera sull'anima è detta dal Gessner «più degna d'un porco che d'un uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre naturalista, fa generar le cose spontaneamente dalla putredine, allorchè più intenso era il calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle dissertazioni De incognitis vulgo, avendo posto molti errori, e asserito che, chiunque vive secondo i lumi della ragione e della legge naturale, otterrà l'eterna salute, e posto in bilancia i dogmi nostri coi pagani nell'evidente intenzione di mostrarli del pari credibili, fu côlto dall'inquisizione a Venezia, e s'un236 palco, colla mitera di carta dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi; da maggior castigo salvato da Sisto IV, ch'era suo allievo237, tornato in Boemia e in Ungheria, dove già prima era vissuto come bibliotecario e educatore del figlio di Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia; cascando di cavallo si ruppe la pingue persona. Matteo Palmieri di Pisa, noto autore della Vita civile (1483), cui Marsilio Ficino diresse una lettera come poetæ theologico, scrisse un poema in terzine a imitazione di Dante, intitolato Città di vita, nel quale sosteneva che le anime nostre sono quegli angeli che, nella ribellione, non furono per Dio contro Dio, ma rimasero neutri. L'Inquisizione disapprovò tal sentenza, onde il poema non fu mai pubblicato, il merita. I soliti parabolani dissero che l'autore fu bruciato col suo libro, mentre consta che ebbe funerali a Firenze per pubblico decreto; il Rinuccini ne recitò l'orazione funebre, e additava appunto posato sul suo cadavere, durante le esequie, quel libro, dove cantava che l'anima, sciolta dalla terrena soma, per varj luoghi s'aggira, finchè giunga alla superna patria.

Nicoletto Vernia da Padova propagò altrove l'unità dell'intelletto con tal calore, che diceasi l'avesse persuaso a tutta Italia238. Pietro Barozzi, vescovo di Padova, seppe indurlo a fare un libro (1499), ove disdicendo quel che avea sostenuto per trent'anni, dimostra tante essere le anime quanti i corpi, e conchiude col preferir il titolo di canonico a quello di soprafilosofo.

Fu suo scolaro Agostino Nifo calabrese, che sosteneva (De intellectu et dæmonibus, 1492), non esservi altra sostanza separata dalla materia se non le intelligenze che muovono i cieli; un'anima sola ed un'intelligenza sparsa nell'universo, vivifica e modifica gli esseri a sua voglia. Lo confutarono i monaci, e mal gli sarebbe avvenuto se esso vescovo di Padova non lo avesse scampato e indotto a modificar l'opera sua, come modificò l'insegnamento. Pure Leone X il favorì, lo fece conte palatino, e pagollo affinchè, contro il Pomponazio (1518), mostrasse che Aristotele sostiene l'immortalità dell'anima.

E lungamente regnò il realismo nella scuola di Padova. Regiomontano vi dava lezioni sopra Al-Fargani, e ben avanti nel secolo xvii vi si insegnavano tali dottrine, che noi non giudicheremo un progresso dello spirito umano, bensì un regresso verso la scolastica del medioevo e il peripatismo arabo; ma che, staccando dalle tradizioni, avviavano al pensare indipendente e alla scienza laica e razionale.

Gismondo Malatesta, che, essendo feudatario della Chiesa le defraudava i dovuti soccorsi, fu da Pio II scomunicato nel 1461, fra gli altri delitti apponendogli di non credere alla risurrezione dei corpi e all'immortalità dell'anima, e fu arso in effigie239. Paolo Mattia Doria napoletano, avea preparato l'Idea d'una perfetta repubblica, ma ne fu sospesa la stampa, e fu arsa come fetida d'immoralità e di panteismo. Speron Speroni, a Pio IV che gli dicea: «Corre voce in Roma che voi crediate assai poco», rispose: «Ho dunque vantaggiato col venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di morire esclamò: «Fra mezz'ora sarò chiarito se l'anima sia peribile o immortale»240.

Di quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che univasi colla letteratura classica, coi filosofemi d'Aristotele, d'Epicuro, d'Averroè, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che ora intitoleremmo razionalismo, erasi nella corte di Lorenzo de' Medici imbevuto Giovanni Pico della Mirandola, ricco signore e portentoso intelletto. Ebbe a maestro Elia del Medico, ebreo averroista che per lui compose varj trattati filosofici, fra cui uno sull'Intelletto e la Profezia (1492) e un commento sul libro Della scienza del mondo (1485): a Venezia stamparonsi più volte (1506, 1544, 1598) le sue annotazioni sopra Averroè, le quistioni sulla creazione, sul primo motore, l'ente, l'essenza e l'uno. Uscendo da tale scuola, Pico professavasi educato, a non giurar nella parola di nessuno, ma diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliarne tutte le carte, conoscerne tutte le famiglie; anzi, l'indipendenza spingea fino a credere che l'oro puro, sebbene sotto forma tedesca, valesse meglio che il falso coll'eleganza romana241.

A ventiquattro anni (1486) mandava per Europa una sfida, pronto a sostenere in Roma novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc.; quattrocento delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici, arabi, alessandrini, latini, le altre erano opinioni sue. Alla sfida nessuno comparve, benchè Pico si assumesse di rifondere le spese del viaggio: ma il suo ardimento irritò l'amor proprio dei dotti; e in quella farragine ripescarono tredici proposizioni, che deferirono al papa come ereticali. Tra esse erano: Gesù Cristo non esser disceso personalmente agl'inferni, ma sol quanto all'effetto: non poteva essere dovuta una pena infinita al peccato d'un essere finito; non esser certo se Dio potesse ipostaticamente unirsi anche a creatura non ragionevole; la scienza che più ci rende certi della dottrina di Cristo è la magia e la cabala; come non dipende dalla volontà l'aver un sentimento, così neppure il credere; i miracoli di Gesù Cristo non sono prova evidente della sua divinità per l'operazione, ma per la maniera con cui gli ha operati; l'anima non conosce veruna cosa distintamente come se stessa.

Il pontefice, dopo maturo esame, le disapprovò (1487), e Pico le difese in un'apologia, poi nell'Heptaptus de septiformi sex dierum geneseos enarratione, e nel De Ente et Uno. Da quel gergo scolastico non è agevole, almeno a me, ricavare un chiaro concetto; riducesi però ad appaciare Platone con Aristotele, la teologia pagana colla mosaica e colla cristiana.

Vantavasi d'aver egli primo in Italia reso ragione dell'aritmo teologico di Pitagora; l'unità numerica fondarsi sull'unità metafisica, la quale è al di sopra dell'ente. Allegorici credeva i libri di Virgilio, di Platone, di Omero; e lo stesso metodo applicava ai libri santi. A gran prezzo avea comprati certi libri di Esdra, che davano spiegazione della dottrina mosaica e dei misteri, e supponendoli genuini, con essi e colla cabalistica interpretava liberamente Mosè.

E quale allegoria, nell'Heptameron espose il genesi mosaico, trattandolo come i Neoplatonici avrebbero potuto trattare la mitologia, sfoggiandovi sapienza orientale e occidentale. «Mosè e i profeti, Cristo e gli apostoli, Pitagora e Plutarco (dic'egli), e in generale i sacerdoti e filosofi del mondo antico velarono la loro sapienza sotto immagini, perchè la folla non era capace di gustare quel cibo della verità, e intesero tutt'altro da quel che suonino le parole. È fuor di dubbio che Mosè, nell'enumerazione delle sei giornate, non volle parlare della creazione del mondo visibile; ed a prima vista sembra grossolano, attesa la legge degli antichi savj di adombrare le cose sublimi. Altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo, e perciò san Giovanni, che fu più degli altri istrutto negli arcani, scrisse solo tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora carnali, e Dionigi Areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi più reconditi; Cristo confidò arcanamente alcune verità a' discepoli suoi, che le tramandarono a voce; e il conoscerle è fondamento grandissimo della fede nostra». Non vi si giunge che per mezzo della cabala, dalla quale, per esempio, s'impara perchè Cristo dicesse d'esistere prima d'Abramo, e che dopo di manderebbe il Paracleto, e che egli veniva coll'acqua del battesimo e lo Spirito Santo col fuoco.

Chi non vede ove potesse portare un tale eccletismo? Che se veniva applaudito dalle accademie e dalla Corte de' Medici ove tale era la moda, non potea piacere a Roma: e per quanto egli si schermisse dietro a ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, realmente alla Chiesa volea sostituir se stesso nel definire e spiegare il dogma per mezzo della cabala e dell'ebraico. Innocenzo VIII diceva: «Costui vuol finir male, ed essere un giorno arso, poi vituperato in eterno, come qualchedun altro. Le cose della fede sono troppo delicate, e non posso tollerarlo: scriva opere di poesia, saranno più da' suoi denti»; malgrado le raccomandazioni del magnifico Lorenzo242, mai non volle ritirarne la condanna, benchè schermisse da ogni molestia l'autore. Il quale, sempre più ingolfato negli studj, per quanto contento di sua sorte a segno, che diceva non vedrebbe di che mormorare contro la Providenza, se pure non perdesse lo scrignetto de' suoi scritti, non sapea darsi pace di essere incorso nella disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento cattolico, e intanto non voleva confessare d'avere sbagliato nel sostenere certe proposizioni, anche dopo che furono condannate dalla bolla pontifizia.

Non mancavano persone che lo istigassero a buttar giù la buffa, romper con Roma, ed eccitare un grande scandalo: ma egli, assaggiata la vanità della scienza, tornò al cuore di Cristo e alla carità, ripetendo la sentenza di san Francesco, «Tanto sa l'uomo quanto opera». Allora contro gli Ebrei difese la fedeltà di san Girolamo nella versione dei salmi; voleva anche scrivere una grande opera per confutare i sette nemici della Chiesa; ma non compì che la parte contro gli astrologi; macerava il corpo; recitava l'uffizio come i preti, consumava «giorno e notte in leggere le sacre carte, nelle quali è insita una certa forza celeste, viva, efficace che con meraviglioso potere converte l'animo del leggitore all'amore divino», e pensava pigliarsi una croce e andar a piè scalzi predicando Gesù Cristo. Alfine da Alessandro VI ottenne una bolla, ove dichiaravasi che mai, per le tesi riprovate, non era incorso in veruna censura o sinistra nota, o da queste veniva assolto; e morì piamente nel 1494 in mano de' Domenicani, l'abito de' quali voleva vestire.

Ma la filosofia ponevasi sempre più in urto colla fede, e «non pareva fosse gentiluomo e buon cortigiano colui che de' dogmi non aveva qualche opinione erronea od eretica». I moderati credevano prestar omaggio alla fede col non riflettervi, accettare i dogmi senza esame, con quell'accidia voluttuosa che, in tempi a noi vicini, chiamava spirito forte l'indifferenza, e lo sdrajarsi col bicchiere in mano e spegnere i lumi. Già viveasi per l'intelletto più che per la coscienza; irrobustendo la ragione, lasciavasi ammutir la coscienza, guastare il cuore, e mescersi a tutto una superstizione puerile; e come conseguenza un materialismo semplice e pratico, un'accidia voluttuosa, talchè può dirsi che tutta l'Italia fosse trasformata in un gran Decamerone.

Quel beffardo sincretismo manifestavasi, come avvien nelle mode, anche con frivolezze, e alla Corte de' Medici si teneano spesso dispute filosofiche e teologiche in questo senso. Nicola de Mirabilibus, domenicano, racconta come, post convivium magnifice ac splendide factum nel palazzo di Lorenzo de' Medici, si pose in disputa una tesi, affissa nel tempio di Santa Riparata dai frati Minori, che il peccato di Adamo non è il maggiore di tutti i peccati. Frà Nicola divisa gli argomenti addotti dai varj interlocutori, e massime dal magnifico Lorenzo.

Da per tutto, ma forse peggio in Italia, la buffoneria si esercita col bersagliare le convinzioni, e mettere in canzonella le quistioni più serie, quando vengono agitate. Per tale spirito Luigi Pulci, nel bizzarro poema del Morgante, volgeva in baja tali disquisizioni:

 

Costor che fangran disputazione

Dell'anima ond'ell'entri ed ond'ell'esca

O come il nocciol si stia nella pesca

Hanno studiato in su n'un gran mellone.

 

Fin sul teatro recavansi, e sta manoscritta alla Biblioteca già Palatina di Firenze una rappresentazione del xv secolo, intitolala I Sette Dormienti, ove Tiburzio e Cirillo sostengono che, secondo Aristotele, la resurrezione dei morti è contro natura; Faustino cristiano disputa in contrario e conchiude:

 

Se Aristotel nol crede lo credo io,

Se non lo fa natura lo fa Dio.

 

Faustino racconta all'imperatore Teodosio le ingiurie dettegli dai filosofi, e l'imperatore chiama teologi e filosofi a disputare in sua presenza, ma poichè non giungono a una conclusione, l'imperatore li congeda, si veste di cilizio, e prega Dio a palesare la verità. Qui interviene il noto miracolo de' sette dormienti.

V'ebbe qualche filosofo che accendeva il lumicino all'immagine di Platone; qualche accademia celebrava feste all'antica, sagrificando un capro; e molti cambiavansi il nome di battesimo, quasi vergognosi di portare quel d'un santo; e d'Antonio, Giovanni, Pietro, Luca, faceano Aonio, Gianni, Pierio, Lucio; e mutavano Vittore in Vittorio o Nicio, Marino in Glauco, Marco in Callimaco, Martino in Marzio, e così via.

Si sgomentò di questo paganizzamento Paolo II, e fece processare alcuni, tra' quali Pomponio Leto e Bartolomeo Sacchi, detto il Platina da Piadena ove nacque il 1421. L'accusa era che latinizzassero i nomi, e coi Platonici mettessero in dubbio l'anima e Dio. Rispondeano che, quanto al venerare Platone, imitavano sant'Agostino; che filosofi e teologi tutti allora disputavano su questi punti, affine di giungere alla verità; che del resto essi non disobbedivano alla Chiesa, anzi ne seguivano le pratiche243, e mai non aveano lasciato di confessarsi e comunicarsi ogni anno.

È da bello spirito il lodare uno perchè perseguitato dai papi, e fargli merito di quel che i papi non poteano che riprovare. Ma dalla lettera ove il Platina, stando in carcere, racconta al cardinale Bessarione il suo processo, appare come l'accademia istituita da Pomponio Leto tendesse a trasformare il paganizzamento letterario in religioso; avvegnachè vi si celebrava il giorno della fondazione di Roma con sacrifizj; e Pomponio ogni giorno s'inginocchiava ad un altare dedicato a Romolo244, e non volea leggere libro posteriore alla decadenza dell'impero, quindi neppure la Bibbia e i Padri. Fosse stato anche soltanto letterario, non v'è retto pensatore che non iscorga quanto pregiudicasse alla logica, alla morale, all'estetica il volere che Cristo e la redenzione cedessero il luogo alla voluttà pagana e al lepido bersagliamento contro le virtù domestiche e sociali.

Per estendere gli atti in colto stile, Pio II aveva attaccato alla sua cancelleria un collegio di sessanta abbreviatori, tutti letterati. Abusarono del loro posto per far traffico de' rescritti; onde Paolo II, volendo tutto fosse gratuito, li soppresse, senza riguardo alle somme con cui aveano compro que' posti. Si pensi quanti nemici si fece! ed erano scrittori. Fra essi il Platina, il quale credette sgomentare il papa minacciando scrivere contro di lui, e indurre i principi a radunare un concilio per riparare a tale ingiustizia. Ciò parve colpa di stato245; e aggiungendosi il sospetto d'una congiura contro il papa; con altri il Platina fu arrestato e torturato, prima per accusa di fellonia, poi di eresia, entrambi non provate. Tenuto in carcere quattro mesi e senza fuoco, siccome egli si lamenta, il Platina si vendicò col dettare una storia de' papi ostilissima, dalla quale i Protestanti ripescarono molti fatterelli contro la Corte romana, perciò noverando lui fra gli anticipati testimonj della verità. Qui noi non abbiamo che a notare la pochissima critica di questo abborracciatore passionato. Per esempio, di Paolo II egli fa un nemico di tutti i letterati, giudicandoli tutti eretici, e sconsigliando i padri dallo sciupare denari e tempo nell'istruzione dei figliuoli, bastando sapessero leggere e scrivere. Se non avessimo altre testimonianze, basti il dire come, sotto quel pontefice, s'introducesse la stampa a Roma, e i primi libri uscissero dedicati ad esso, con larghe lodi della sua munifica protezione; e il Platina stesso narra ch'e' cercava d'ogni parte statue antiche per ornar il suo palazzo246.

Che se quanto noi esponemmo basta a smentire gli storici plebei, che cianciano fosse servile la fede, assoluta l'ignoranza, giustifica quelli che, al vedere la scienza staccarsi dall'appoggio della fede, spaventavansi che la salute delle anime si facesse dipendere dalle vicende del sapere. E questo paganizzamento, ancor più che nella scienza, rendeasi appariscente nelle arti belle e nella letteratura, dove al convenzionale tipico surrogavasi la plastica raffinatezza; e l'appassionamento per l'antichità diede a credere non si potesse compiere il risorgimento se non ripristinandola, fino a rimettere in culto le idee che il vangelo aveva dissipate, e rialzare le ruine della Roma pagana sopra gli edifizj della Roma cristiana.

Sugli altari si correva ad ammirare pitturate le amasie de' pittori, e belle di divulgata cortesia nella Vergine della casta dilezione. Alessandro VI fu dipinto dal Pinturicchio in Vaticano sotto forma d'un re magio, prostrato avanti una Madonna ch'era la Giulia Farnese, come il Pordenone fece Alfonso I di Ferrara inginocchiato a una santa Giustina, la quale era Laura Dianti, druda di lui. Tutto gentilesco si mostrò il Ligorio nella villa Pia, eretta per ricreazione de' papi. Il Tiziano per santa Caterina fece il ritratto della regina Cornaro, pompeggiante di dovizie e bellezze. Nell'adorazione de' Magi spesso si ritrassero i Medici, per aver pretesto di porvi in testa quella corona a cui aspiravano. Nel quartiere della badessa di San Paolo a Parma il Correggio eseguì scene più che mondane: nella sacristia di Siena si collocarono le tre Grazie ignude; e ignudi turbavano l'austerità delle tombe principesche, e fin le cappelle pontifizie. A Isotta, amasia poi moglie di Pandolfo Malatesta signore di Rimini, fu su medaglie e sul sepolcro dato il titolo di diva; e Carlo Pinti nell'epitafio la dichiarava «onor e gloria delle concubine». S'un sepolcro in San Daniele a Venezia leggesi: Fata vicit impia; come la divisa di monsignor Paolo Giovio dicea: Fato prudentia minor. Sotto Giulio II esortavasi alla crociata perchè darebbe occasione d'acquistare manoscritti.

L'eloquenza sacra deduceva non solo le forme, ma e le autorità e gli esempj dei classici. Nei funerali di Guidobaldo da Montefeltro, l'Odasio ne recitò il panegirico nel duomo d'Urbino, più volte esclamando agli Dei immortali, dicendo come il vescovo di Fossombrone coi sacramenti amministratigli avesse placato gli Dei e i Mani; Deos illos superos et Manes placavit. Il cardinale Bessarione, compiangendo la morte di Gemistio Pletone, dice: «Intesi che il nostro padre e maestro, essendosi spogliato di quanto avea di terrestre, volò verso i cieli in un luogo purissimo, dove può ballare coi celesti la mistica danza di Bacco». Il Poliziano, scrivendo a Lorenzo de' Medici al 6 aprile 1479, lagnasi che sua moglie avesse messo il figlio Giovanni (che fu poi Leone X) a leggere i salmi, invece de' libri nostri: transtulit jam illum mater ad psalterii lectionem, atque a nobis abduxit247.

Nel 1526 essendo presa Siena da' fuorusciti, un buon canonico, memore di ciò ch'è narrato nel terzo libro di Macrobio, recitò la messa, e proferì la formola imprecatoria che ivi è indicata contro i nemici; se non che, invece di Tellus mater, teque Jupiter obtestor, disse Tellus, teque Christe Deus obtestor.

Oscenamente scriveano il Panormita nell'Ermafrodito, Giovian Pontano, Francesco Filelfo, Poggio Bracciolini, il Landino, il Poliziano, Lorenzo de' Medici, Giovanni Della Casa monsignore, Angelo Firenzuola frate, ed altre persone gravi, non solo porgendo manifestazioni, ma apologie del vizio, e scherzando su quanto ha di più sacro la società e la famiglia. Nell'esaltazione di Alessandro VI le iscrizioni alludevano sempre al nome eroico:

Cæsare magna fuit, nunc Roma est maxima: sextus

Regnat Alexander, ille vir, iste Deus;

 

e un'altra:

 

Scit venisse suum patria grata Jovem.

 

Per Leone X si fece quest'epigramma:

 

Olim habuit Cypris sua tempora, tempora Mavors

Olim habuit; sua nunc tempora Pallas habet.

 

Esso Leone X eccitava Francesco I contro i Turchi per Deos atque homines. V'è chi chiama Olimpo il paradiso, Erebo l'inferno, lectisternia le maggiori solennità, arciflamini i vescovi, infula romulea  la tiara, senatus Latii il sacro concistoro, ambrosia e nettare le sacrosante specie; sacra Deorum la messa, simulacra sancta Deorum le immagini de' santi.

Le allusioni gentilesche del Bembo strisciano all'empietà; partendo per la Sicilia, invoca gli Dei propizj al suo viaggio, quod velim Dii approbent; fa Leone X assunto al pontificato per decreto degli Dei immortali; parla dei doni alla dea lauretana, dello zefiro celeste, del collegio degli auguri, per indicare lo Spirito santo e i cardinali; chiama persuasionem la fede, la scomunica aqua et igni interdictionem; fa dal veneto senato esortare il papa uti fidat diis immortalibus, quorum vices in terra gerit; e così litare diis manibus è la messa dei morti; san Francesco in numerum deorum receptus est. Ne' versi poi anteponeva il piacere di vedere la sua donna a quello degli eletti in cielo:

 

E s'io potessi un per mia ventura

Queste due luci desiose in lei

Fermar quant'io vorrei,

Su nel cielo non è spirto beato

Con ch'io cangiassi il mio felice stato.

 

Negli Asolani conforta i giovani ad amare; e al cardinale Sadoleto scriveva: «Non leggete le epistole di san Paolo, chè quel barbaro stile non vi corrompa il gusto; lasciate da canto coteste baje, indegne d'uom grave.

 

Omitte has nugas, non enim decent gravem virum tales ineptiæ».

 

Nell'epitafio pel famoso letterato Filippo Beroaldo egli ne loda la pietà, per la quale suppone che canti in cielo:

 

Quæ pietas, Beroalde, fuit tua, credere verum est

Carmina nunc cœli te canere ad cytharam:

 

eppure i costui versi ostentano gli amori colla famosa Imperia, e con un'Albina, una Lucia, una Bona, una Violetta, una Ghiera, una Cesarina, una Merimna, una Giulia, le quali appaja a quella cortigiana; ed era prelato.

Ma il Bembo, come gli altri del suo tempo, credeva il risorgimento consistere nelle forme; doversi abbattere la scolastica per mezzo di Cicerone, e mediante l'espressione materiale giungere allo spirito; abborriva dagli umanisti, che dicean il latino moderno dovere essere di vario colore; e piacevagli meglio parlare come Cicerone che essere papa.

Egli recitava a memoria molti passi dello scorrettissimo Battista Mantovano: ma ciò ch'è maggiore meraviglia, altrettanto faceva il Sadoleto, un de' più pii di quel secolo. Il quale ha una consolatoria a Giovanni Camerario per la perdita di sua madre, che tutta volge sulla intrepidezza e magnanimità pagana, senza toccare agli argomenti ben più efficaci della religione. Jacobo Sannazaro, per cantare il parto della Vergine, invoca le Muse, scusandosi se le adduce a celebrare un infante nato in un presepio, e non mai nomina Jesus perchè non è latino; perchè non è latino propheta, fa dal Giordano personificato narrare l'ascensione di Cristo qual la udì vaticinare da Proteo: Maria spes fida deorum, è dall'angelo Gabriele trovata intenta a leggere le Sibille (illi veteres de more Sibyllæ in manibus); e quand'ella assente a divenire madre, le ombre de' patriarchi esultano quod tristia linquant Tartara, et erectis fugiant Acheronta tenebris, Immanemque ululatum tergemini canis. Dapertutto insomma arte pagana in soggetto sacro, alla guisa che sul suo sepolcro in una chiesa sorgono Apollo e Minerva, fauni e ninfe.

Girolamo Vida, dotto e santo vescovo di Cremona, che digiunava spesso a sole radici, nella Poetica non parla che di Muse e Febo e Parnaso, come i classici di cui raccozzava gli emistichi, e ai quali, principalmente a Virgilio, prestava un culto da Dio:

 

Te colimus, tibi serta damus, tibi thura, tibi aras

Et tibi rite sacrum semper dicemus honorem.

 

Nos aspice præsens,

Pectoribusque tuos castis infunde calores

Adveniens pater, atque animis te te insere nostris.

 

Come in un poema sul giuoco degli scacchi, alle nozze dell'Oceano colla Terra fa gareggiare Apollo e Mercurio; così usa nella Cristiade, dove applica a Dio Padre tutti i nomi di Giove, regnator Olympi, superum pater, nimbipotens; del Figlio fa un eroe, sul tipo di Enea; multis comitantibus heros - immobilis heros orabat - curis confectus tristibus heros - ipse etiam (il cattivo ladrone) verbis morientem heroa superbis stringebat: Gorgone, Erinni, Arpie, Idre, Centauri, Chimere, spingono gli Ebrei al deicidio: all'ultima cena viene consacrato fior di Cerere: sulla croce al morente è porto tristo umor di Bacco (sinceram Cererem - corrupti pocula Bacchi). L'uomo soffrente sul Calvario non è il Dio riparatore, e allo spirare suo, non che l'alito d'amore si difonda sulle ire procaci, gli angeli vorrebbero farne vendette: sempre insomma dal Cristo, redentore dello spirito immortale, volgea gli occhi all'Apollo, tipo di bellezza corporea.

Vero è che, sin quando il sentimento religioso predomina, esercita sulla forma la sua forza riparatrice; pure il ravvivato splendore dell'antichità abbagliava per modo, da adombrare il cristianesimo; ammirando unicamente il bello della società classica, non vedeasi il buono della moderna, e le teoriche di quella si applicavano agli affari pubblici.

La fede nella sua integrità era stata fino allora la fonte unica d'ogni diritto, d'ogni ordine. Tutto il mondo civile riconosceva una religione, cioè una dottrina generale sulle relazioni fra il cielo e la terra, uno scopo alla vita dell'umanità, cioè compiere il disegno divino; una l'origine degli Stati, cioè la volontà di Dio; conformità di credenze, che costituiva un legame tra le varie società.

Da questa fonte unicamente traevasi il diritto di governare e di punire; gli Stati prendeano il nome del loro patrono, dicendosi patrimonio di san Pietro, come repubblica di san Marco o di san Giovanni; e sant'Ambrogio, san Geminiano, san Petronio, san Siro indicavano Milano, Modena, Bologna, Pavia; il nome e l'effigie del santo metteasi sulle monete e sugli stendardi: perfino le date storiche riferivansi al calendario ecclesiastico, dicendo che il giorno della candelara erano state rapite le spose veneziane, alla sant'Agnese sconfitti i Torriani dai Visconti; al san Sisino si vinse il Barbarossa a Legnano; a san Cosmo e Damiano fu preso Ezelino.

Gli stessi pensatori non cercavano altro che rendersi ragione di quel che credevano. Cattolici prima che filosofi, volenti godere della tradizione che aveano ricevuta coll'intelligenza, studiavano comprendere, ma in fondo credevano, portando l'offerta della loro scienza e ragione al tempio del Signore; e non pretendeano riformare il mondo e la società col pensiero loro proprio, senza tenere conto de' loro simili, de' fratelli e dei canoni trasmessi dai vecchi.

Così per quindici secoli non si era avuto che un idioma per favellare a Dio, una sola autorità morale, una sola convinzione; tutta Europa alla stess'ora, il giorno stesso, colle stesse parole supplicava, aspirava, esultava.

Ora invece scomponevasi l'intima società col surrogare alla fede il raziocinio, alla credenza assoluta le religioni comparate; inoculando il dubbio corrompevansi i costumi, e i costumi riagivano sopra le credenze. Ciò appare in tutti gli scrittori, e principalmente in Nicolò Macchiavello e Francesco Guicciardini. Quest'ultimo guarda all'esito, non mai alla giustizia d'una causa: le peggiori iniquità racconta colla freddezza d'un anatomico; vede o arguisce sottofini e cattive intenzioni dapertutto, mai riconosce virtù, religione, coscienza, bensì calcolo, invidia, ambizione; fatto ironico, forse per dispetto degli uomini e degli eventi, affetta un'imparzialità che in fondo è indifferenza tra l'onestà e la ribalderia. I papi non solo esamina e giudica al modo degli altri principi, ma sempre li trova in torto, gli accagiona di tutti i mali d'allora; eppure li servì; e diceva: «Il grado che ho avuto con più pontefici m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la grandezza loro; se non fosse questo rispetto, avrei amato Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo ch'è interpretata e intesa comunemente, ma per veder ridurre questa caterva di scellerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizj o senza autorità»248.

Altrove consigliava: «Non combattete mai con la religione, con le cose che pare che dipendano da Dio, perchè questo objetto ha troppa forza nella mente degli sciocchi»249.

Non decidendosi fra Mosè e Numa, fra Giove e Cristo, ammette i miracoli ma d'ogni religione «in modo che della verità di una fede più che di un'altra è debole pruova il miracolo»250; in ogni nazione, e quasi in ogni città sono devozioni che fanno i medesimi miracoli, segno manifesto che le grazie di Dio soccorrono ognuno251. Egli tiensi certo anche per esperienza propria che v'ha spiriti aerei, i quali domesticamente parlano colle persone252.

Dopo di ciò, non è più un fenomeno stravagante e un mito il Macchiavello, il quale sull'idolatrato tipo de' Greci e Romani foggia la nuova civiltà, cancellandone Cristo e il Vangelo. Secondo lui, natura creò gli uomini colla facoltà di desiderare tutto e l'impotenza di tutto ottenere, sicchè dirigendo essi il desiderio sopra gli stessi oggetti, trovansi condannati a odiarsi gli uni gli altri. Per togliersi a questa guerra di tutti contro tutti, è permessa ogni cosa, e di violare qualunque diritto e dovere; e la società fu istituita per comprimere l'anarchia mediante la forza organizzata.

In somma la sua è la dottrina dello Stato ateo, il quale non teme d'andar all'inferno, ed è a se stesso fine e legge. Niente v'ha di superiore ai sensi; l'idea della giustizia nacque dal vedere come tornasse utile il bene e nocivo il male; al bene gli uomini s'inducono solo per necessità; il principe dee farsi temere anzi che amare; scopo dei governi è il conservarsi, questo si può che coll'incrudelire, «perchè gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori, riottosi, talchè conviene ritenerli colla paura della pena». Suppone dunque l'uomo cattivo, come fa la Chiesa, non però in grazia del peccato originale, ammettendo un mediatore; non cerca il regno dello spirito, ma quello della forza. Dio è sempre coi forti; e a chi ha ancora; a chi ha poco, toglie anche quello che ha. È sventura che alla religione feroce antica, coi gladiatori, col culto degli eroi, coll'apoteosi de' conquistatori, e che mescolava le battaglie colle preghiere, il sangue colle feste, sia succeduta questa, tutta umiltà ed abjezione253, negligente dei proprj interessi; e se può sperarsi alcun bene all'umanità consiste nel rivolgimento delle sfere, che potranno far rinascere qualche culto simile all'antico.

Roma egli ammira per «la potenza delle esecuzioni sue», perchè conquistò tanti popoli, e per guerra o per frodi rapì ad essi ricchezze, leggi, libertà, indipendenza. Le crociate sono un mero scaltrimento di Urbano II; di frà Savonarola era stato entusiasta in gioventù, ma come ne vide la politica fallire, dovette credere non potesse riuscire se non la frodosa o violenta, scurante di ciò che sta sopra il tetto. Del maestro non ritenne più che l'amor della patria, e questa volea vedere forte e unita: «sian pur iniqui i mezzi, ma son passeggeri, e ne seguiranno il dominio supremo della legge, l'eguaglianza e la libertà di tutti, e si farà della cittadinanza un medesimo corpo, ove tutti riconoscano un solo sovrano»254.

Adoratore della forza, e da quella sola sperando l'aquietamento delle fazioni, il Machiavelli fantasticava una monarchia italiana. Non già ch'egli pensasse mai a un signore, il quale soggiogasse le fiorentissime repubbliche di Venezia, di Genova, di Lucca, tanto meno Roma; ma un principe robusto che imponesse la sua politica a tutte. Eppure sarebbe stata questa, nelle idee d'allora, una vera servitù, una conquista, un uccidere l'autonomia a cui aspiravano i singoli popoletti; lo perchè tale politica era detestata dai migliori italiani. E sempre vi si erano opposti i pontefici, vedendo come il rinnovare un regno d'Italia al modo dei Goti e dei Longobardi non solo avrebbe mozza la loro sovranità, ma avvilita tutta Italia. Dell'essere stati operosissimi a impedir questa tirannide comune sopra l'Italia, il Machiavello imputava i pontefici. Ma non che altri, lo riprovava Francesco Guicciardini, riflettendo che l'Italia fu corsa a lor posta dai Barbari quando era sotto al dominio unico degli imperatori; che dalle sue divisioni trasse forse gravi mali, ma n'ebbe in compenso una straordinaria floridezza; che gl'Italiani, per abbondanza d'ingegno e di forze furono sempre difficilissimi a ridursi a unità anche quando Chiesa non v'era; che col conservare l'Italia in quel tenore di vita che s'addice alla sua natura e alla sua antichissima consuetudine, anzichè male, avea fatto bene la Chiesa romana255.

Per far l'Italia il Machiavelli ricorreva, al solito, agli stranieri; non accorgendosi come i papi fossero la sola potenza che valesse a salvarne l'indipendenza, desiderava che i Francesi gli umiliassero, sollevando i baroni contro di essi in modo che o gl'insultassero come sotto Filippo il Bello, o li chiudessero in Castel Sant'Angelo; esser quelli «così spenti che non si potesse trovar modo a raccenderli»256; e a' suoi Fiorentini scriveva come si pensasse dai Francesi invadere Roma, il che «sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti nostri preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro»257. Ma della riforma religiosa non ebbe verun concetto; trattò il cristianesimo non altrimenti che il paganesimo, adattandolo a religione civile, siccome leggeva in un frammento di Varrone; col che giustificava l'intolleranza.

E dappertutto non mostrasi egli novatore, ma sempre ripete idee classiche, con qualche aggiunta e qualche applicazione. Nell'esporre «le verità effettuate delle cose», non inculca espresso l'ingiustizia, ma toglie per unica norma l'utilità; non come Satana dice al male, Tu sei il mio bene, ma, Tu mi sei utile; se l'utile deva posporsi all'onesto è disputa da frati.

I tradimenti altrui e le proprie empietà espone in tono d'assioma, senza passione, come evenienze naturali, con freddo computo di mezzi e di fine, con un'indifferenza che somiglia a complicità. Con questa scienza senza Dio, che eleva l'ordine politico di sopra del morale, la ragione di Stato sopra l'umanità, che suppone unica meta delle azioni il soddisfare gl'istinti egoistici e interessati, assolve la menzogna, il perfidiare la parola e i trattati, il conculcare il diritto delle genti, la cospirazione, l'assassinio, purchè si raggiunga lo scopo, si soddisfi l'ambizione, qualunque siasi: la vittoria arreca gloria, non il modo con cui la si ottiene. Perciò il Machiavello ammira chiunque riesce, sia pure a fini opposti, eccetto Giulio Cesare che spense le libertà classiche, e Gesù Cristo che abjettì gli uomini predicando l'umiltà. Ammira la virtù dello scellerato Cesare Borgia, e fatto inorridire colle costui scelleratezze, conchiude: «Io non saprei quali precetti dare migliori ad un principe nuovo che l'esempio delle azioni del duca... Raccoltele, non saprei riprenderlo, anzi mi pare di proporlo ad imitazione a tutti coloro che per fortuna e con le armi d'altri sono saliti all'impero». L'appassionata sua vista non gli lasciava scorgere su quanto labile fondamento poggiasse la potenza di quel fortunato ribaldo; e quando egli cade, lo pronunzia «truculento e fraudolento uomo, e meritevole della pena che i cieli gli avevano serbata».

Armonizzar la natura col soprannaturale, la scienza colla fede, la rivelazione colla ragione, la filosofia colla teologia, era stato lo scopo degli Scolastici, e ormai erano beffati e posposti alle dottrine gentilesche258. Cambiata la bilancia degli atti, qual meraviglia se non veneravansi più i santi del paradiso, ma si applaudiva agli eroi dell'inferno? Virtù è la forza intelligente; mezzo di governo una dominazione unica e incondizionata. Invano Cristo avrà detto, «Perisca il mondo, ma facciasi la giustizia»; il Machiavello torna al pagano «Suprema legge è la salute dello Stato», e dice che «quando una città pecca contro uno Stato, per esempio agli altri e securtà di un principe non ha altro rimedio che spegnerla, altrimenti è tenuto o ignorante o vile: dove si delibera della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione di giusto d'ingiusto, di pietoso di crudele; di laudabile d'ignominioso». E segue che «un uomo il quale voglia fare in tutto professione di buono, conviene che rovini in fra i tanti che non sono buoni»: nelle esecuzioni non v'è pericolo alcuno, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta.

Altrettanto dicevano i Terroristi di Francia. Ed io non vedo in che cosa Machiavello sia migliore di Hobbes, se non che egli pone in capo di tutto la politica; e con voti contradditorj, contrasti inattesi, sentimenti generosi in mezzo a mostruose teoriche, scompiglia la critica, mentre Hobbes s'attiene alla morale, e tutto riduce ad unità inflessibile, non commovendosi per veruna passione: del resto entrambi confondono l'anima col corpo, l'onesto coll'utile, la ragione col calcolo, Iddio col nulla. Machiavello esprime l'egoismo del principe, come il Contratto Sociale di Rousseau espresse l'egoismo del suddito; entrambi del pari repugnanti alla carità cristiana, e ponendo fondamento alla sistemazione degli Stati non più l'ordine voluto da Dio, ma la volontà dell'uomo; traendo ogni podestà non da Dio ma dall'uomo; riducendo l'attività sociale non a compiere un disegno divino providenziale, ma ad emancipare l'umanità.

Non potevamo trascurare questa eresia politica, che trionfò e durò più delle altre; che, quando assassinava l'italica indipendenza, voleva uccidere anche il diritto e la giustizia: e indebolita l'autorità spirituale, preparava quel despotismo che non insinua la bontà, ma reprime colla forza, usata accortamente sopra la torma de' bipedi, che la loro stupidità condanna all'obbedienza.

Se questa sfacciataggine di politica anticristiana attesta come fossero mutati i tempi e aggravati i pericoli, fu gran sintomo della lamentata trascuraggine il non avere Leone X notato que' libri fra i proibiti, anzi all'autore dato commissione d'un'opera analoga, sul governo da porsi a Firenze; neppure Adriano VI, così onestamente rigoroso, li toccò; Clemente VII diede privilegio al Blado per istampar le opere del Machiavello, nel quale non vedeva se non l'illustre concittadino, perseguitato dalla sua casa, che narrava la storia di Firenze, e la dedicava a lui papa, il quale tenne il Principe per una bizzarria di spirito, una leggerezza come altre del segretario. fino a Clemente VIII veruna condanna officiale gli fu inflitta259. Oggi è, come dicono, riabilitato, e onorato di statue come i pigmei suoi imitatori.

 

 

 





208                Nell'originale "perche". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



209                Ozanam, Filosofia di Dante. Al qual proposito giovi soggiungere che Benvenuto da Imola, commentando Dante ove dice esser più di mille gli eretici, riflette che chussi poteano dire plus de centomillia migliara: e che i siffatti son generalmente huomini magnifici.



210                Almeno lo asserisce sant'Agostino De Civitate Dei, viii, 8.



211                Vedi Renan, Averoè et l'averoisme, 2 édit., p. 112.



212                Vedi qui sopra, a pag. 97, e alla nota 23 del Discorso IV.



213                De materia cœli contra Averroem. Padova 1493. De intellectu possibili, quæstio aurea contra Averroym. Venezia 1500.



214                Il testo dice mot callemin.



215                Nell'originale "divennio". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



216                Hermannus Alemannus translator Manfredi, nuper a D. rege Carolo devicti, dice Rogero Bacone.



217                Defensores hujus hæresis dicunt quod aliquod secundum philosophiam est, licet fides aliud ponat secundum theologiam. Ed egli stesso confutandolo professa che in hac disputatione nihil secundum legem nostram dicemus, sed omnia secundum philosophiam... tantum ea accipientes quæ per syllogismum accipiunt demonstrationem. Opp. Tom. v, pag. 218, 226, 380.



218                Unum te obsecro ut ab omni consilio mearum rerum tui isti Arabes arceantur atque exulent: odi genus universum... Vix mihi persuadebitur ab Arabia posse aliquid boni esse. Contra medicum quemdam.



219                Ad hæc ille nauseabundus risit, et «Tu (inquit) esto christianus bonus: ego horum omnium nihil credo. Et Paulus et Augustinus tuus, hique omnes alii quos prædicas, loquacissimi homines fuere. Utinam tu Averroim pati posses, ut videres quanto ille tuis istis nugatoribus major sit». Exarsi, fateor, et vix manum ab illo impuro et blasphemo continui. Senil. L. v, ep. 3.



220                In un manoscritto della biblioteca di San Giovanni e Paolo a Venezia si trova fossero Leonardo Dandolo milite, Tommaso Talento mercante, Zaccaria Contarino nobile, veneziani, e il medico Guido di Bagnolo da Reggio. La lor conversazione è il soggetto del trattato De sui ipsius et multorum ignorantia.



221                Canem illum rabidum Averroem, qui furore actus infando, contra Dominum suum Christum, contraque catholicam fidem latrat. Ep. sine titulo 656.



222                Nel Conciliator differentiarum f. 15 dell'edizione di Venezia, scrive: Ex conjunctione Saturni et Jovis in principio arietis, quod quidem circa finem 960 contigit annorum, totus mundus inferior commutatur, ita quod non solum regna, sed et leges et prophetæ consurgunt in mundo... sicut apparuit in adventu Nabuchodonosor, Moysis, Alexandri Magni, Nazarei, Machometi. Lex nelle traduzioni d'Averroè equivale sempre all'arabo Scharié, che esprime e legge e religione.



223                Riccoboni, De Gymn. Patav., p. 134.



224                Molta parte fu stampata nel 1858 da M. Alexandre a Parigi.



225                Dedica del Giamblico, e proemio al Proclo.



226                Ista sunt quæ me premunt, quæ me angustiant, quæ me insomnem et insanum reddunt... Perpetuis curis et cogitationibus rodi, non sitire, non famescere, non dormire, non comedere, non expuere, ab omnibus irrideri. De fato, Lib. iii. c. 8.



227                De fato iii, 7.



228                Quanto all'opinione dell'unità delle anime, quamvis tempestate nostra sit multum celebrata et fere ab omnibus pro constanti habeatur eam esse Aristotelis, asserisce non trovarsi che in Averroè, il quale fu talmente sconfitto in tal proposito da san Tommaso, che non lasciò più alcun appiglio se non di vomitar ingiurie contro di esso. De immortalitate animæ, p. 8 e 9.



229   Respiciens legislator pronitatem viarum ad malum, intendens communi bono, sanxit animam esse immortalem, non curans de veritate sed tantum de probitate, ut inducat homines ad virtutem; neque accusandus est politicus. De immortalitate animæ.

            Matter (Hist. des découvertes morales et politiques des trois derniers siècles) alzò a cielo il Pomponazio come avesse stabilito la legge della perfettibilità umana, il progresso delle istituzioni e delle scienze, e la dottrina d'indipendenza dei tempi moderni. Sono sofismi degni di chi chiama barbara l'Italia al tempo di Leon X.

                Le opere del Pomponazio furono raccolte e ristampate a Basilea nel 1567 con una prefazione di Guglielmo Gratarola, medico che troveremo fra i riformati, e che pure stampò le opere proprie con testimonianze del Beza e d'altri personaggi che lo lodano di gran pietà. Egli difende il Pomponazio e asserisce che morì piamente secondo i tempi, cioè da cattolico: se negò l'immortalità dell'anima secondo Aristotele, ciò non può essergli imputato se non si pruovi che voleva con ciò insinuare l'ateismo.



230                Nell'originale "srittura"



231                His ita se habentibus, mihi (salva saniori sententia) in hac materia dicendum videtur quod quæstio de immortalitate animæ est neutrum problema, sicut etiam de mundi æternitate: mihi autem videtur quod nullæ rationes naturales adduci possunt cogentes animam esse immortalem, minusque probantes animam esse mortalem, sicut quam plures doctores declarant: quapropter dicemus sicut Plato, de legibus, certificare de aliquo cum multi ambigunt, solius est Dei; cum itaque tam illustres viri inter se ambigant, nisi per Deum hoc certificari posse existimo. De immortalitate animæ, pag. 124. Animam esse immortalem articulum est fidei, ut patet per symbolum apostolorum et Athanasii. Si quæ rationes probare videntur mortalitatem animæ, sunt falsæ et apparentes, cum prima lux et veritas ostendant oppositum; si quæ videntur probare ejus immortalitatem, veræ quidem sunt et lucidæ, sed non lux et veritas; quare hæc sola via inconcussa et stabilis est, cæteræ vero sunt fluctuantes. Ib. p. 128.



232                Hujusmodi legislatores, qui Dei filii merito nuncupari possunt, procurantur ab ipsis corporibus cœlestibus. De incant., Lib. xii.



233                Che v'abbia cose vere secondo la teologia, false secondo la filosofia, è proposizione condannata dalla Chiesa. Cumque verum vero minime contradicat, omnem assertionem veritati illuminatæ fidei contrariam, omnino falsam esse definimus. Leon X, bolla Apostolici regiminis, edita nel concilio Lateranense V, 19 dicembre 1512. A ciò conformossi Pio IX nella enciclica ai vescovi, 9 novembre 1846: Etsi fides sit super rationem, nulla tamen vera dissensio, nullumque dissidium inter ipsas inveniri unquam potest, cum ambæ ab uno eodemque immutabilis æternæque veritatis fonte Deo 0. M. oriantur.



234   L'epitafio che l'Achillini si fece porre in San Martino di Bologna è un altro testimonio della pendenza alle idee pagane.

 

            Hospes Achillinum tumulo qui quæris in isto

         Falleris: ille suo junctus Aristoteli,

            Elisium colit, et quas rerum hic discere causas

         Vix potuit, plenis nunc videt ille oculis.

            Tu modo, per campos dum nobilis umbra beatos

         Errat, die longum perpetuumque vale.



235                De Thou, Mém., p. 235.



236                Nell'originale "s'nn". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



237                Racconta il fatto il Sanudo, Rerum Ital. Scr. XXII, p. 1206, e dice il Marzio fosse di Montagnana.



238                Naudée in Judicio de A. Nipho.



239                Commentarj di Pio II.



240                Lo racconta lo Zilioli, manoscritto della Biblioteca Marciana.



241                Non est qui purum aurum non malit habere sub Teutonum nota, quam sub romano symbolo factitium. Lett. ad Ermolao Barbaro.



242                Il costui carteggio in proposito con Giovanni Lanfredini fu pubblicato dal Berti nella Rivista Contemporanea, con ricche notizie. Dianzi Sigwart volle mostrare la relazione tra le dottrine di Zuinglio e quelle di Pico della Mirandola. Ulrich Zwingli, die Karakter seiner Theologie mit besonderer Rücksicht auf Pic von Mirandula durgestellt. Stuttgard 1855.



243                Quid ad vos et Paulum si mihi fœniculi nomen indo, modo id sine dolo ac fraude fiat? Amore namque vetustatis, antiquorum præclara nomina repetebam, quasi quædam calcaria, quæ nostram juventutem æmulatione ad virtutem incitarent. Platina in Paulo ii.



244                Vero è che andava anche spesso co' suoi scolari a una Beata Vergine sul Quirinale, e morì piissimamente. È poi singolare che, nelle recenti indagini del De Rossi per entro le catacombe di San Sebastiano a Roma, fra i nomi di quelli che le visitarono nel secolo xv trovasi notato Regnante Pom. pont. max.: e Pomponius pont. max. e Pantagathus sacerdos academiæ romanæ; titoli che farebbero credere una gerarchia stabilita, e risospettar di quello, di cui pareva essersi con sincerità discolpato il Leto.



245                Se il ricorrere a principe forestiero contro il proprio sia fellonia, lo dica il lettore. Platina stesso ci riferisce la lettera da lui scritta, ove conchiude: Rejecti a te, ac tam insigni contumelia affecti, dilabemur passim ad reges, ad principes, eosque adhortabimur ut tibi concilium indicant, in quo potissimam rationem reddere cogaris cur nos legitima possessione spoliaveris.



246                Si avverta che Sisto IV fece suo bibliotecario il Platina, e gli diede egli stesso la commissione di scriver le vite dei papi: mandasti ut res gestas pontificum scriberem, dice egli nella prefazione.



247                Qui alcuno aspetterà ch'io metta anche i lamenti attribuiti a Poliziano pel tempo buttato via nel dir l'uffizio, riportati dal Bayle e copiati da tanti. Ebbene, tutt'al contrario, nell'epistola 9 del libro II a Donato, egli si querela che le frequenti visite lo obblighino a interrompere sin l'uffizio. Adeo mihi nullus inter hæc scribendi restat aut commentandi locus, ut ipsum quoque horarium sacerdotis officium pene, quod vix expiabile credo, minutatim concidatur. Melancton e Vives dissero che il Poliziano avea letto una volta sola la sacra scrittura, e si lagnava del tempo perdutovi. Son forestieri e non allegano pruova del loro asserto. Noi al contrario sappiamo da lui stesso che, ne' quattordici anni che fu benefiziato nella metropolitana di Firenze, spiegava al popolo la Bibbia: cum per hos quadragesimæ proximos dies enarrandis populi sacris libris essem occupatus.



248                Ricordi politici, XXVIII e CCCXLVI.



249                Ricordi politici, CCLIII.



250                Ricordi politici, CXXIII.



251                Ricordi politici, CXXIV.



252                Ricordi politici, CCXI.



253                Anche quelle stranezze trovarono plagiarj ai nostri. Göthe diceva di collocarsi la testa del Giove Olimpico in faccia al letto, per potere, allo svegliarsi, indirizzargli la preghiera: e imprecava alla rivoluzione cristiana, che alla Venere Gnidia sostituì la Vergine pallida e ascetica; e la scarna effigie d'uno, penzolone da quattro chiodi, alla perfezione estetica del corpo umano, rappresentata dai simulacri della Grecia.



254                Lettera al Vettori.



255                «Credo sia vero che la grandezza della Chiesa sia stata causa che Italia non sia caduta in una monarchia; ma non so se il non venire in una monarchia sia stata felicità o infelicità di questa provincia. Sebbene Italia, divisa in molti dominj, abbia in varj tempi patite molte calamità, che forse in un dominio solo non avrebbe patito (benchè le inondazioni de' Barbari furono più a tempo dell'impero romano che altrimenti), nondimeno ha avuto a rincontro le tante floride città, che io reputo che una monarchia le sarebbe stata più infelice che felice. O sia per qualche fato d'Italia, o per la complessione degli uomini, temperati in modo che hanno ingegno e forza, non è mai questa provincia stato facile ridurla sotto un impero, eziandio quando non vi era la Chiesa, anzi sempre naturalmente ha appetito la libertà. Però, se la Chiesa romana si è opposta alla monarchia, io non concorro facilmente essere stata infelicità di questa provincia; poichè l'ha conservata in quel modo di vivere, ch'è più secondo l'antichissima consuetudine e inclinazione sua». Considerazioni al Machiavelli, I, 12.



256                Legazione IX alla corte di Francia. Blois 9 agosto 1510.



257                Legazione XII. 18 agosto 1510.



258   Nel sillabo del 1864 al XIII è riprovato il dire che «il metodo e i principj, con cui i dottori scolastici coltivarono la teologia, non rimangono più colle necessità dei tempi nostri e col progresso delle scienze».

                Come questa filosofia e teologia venissero messe in onore ai giorni nostri e qua, lo sanno quanti conoscono il padre Ventura, il Rosmini, il Liberatore, il canonico Sanseverino, il Perrone, ecc.



259   Un grande avversario dei papi e de' preti, l'ex-prete Luigi Bossi, nelle note alla traduzione della vita di Leon X del Rosoe riflette che, l'abitudine che Machiavello aveva di scrivere in certo qual modo all'azzardo e senza un disegno ed un fine preciso, poteva ragionevolmente far nascere qualche dubbio, e questo ancora nella Corte romana, sulla sincerità delle sue intenzioni. Tom. X, pag. 49.

            A torto si suol attribuire al Possevino l'aver nella Bibliotheca gridato primo all'arme contro il Machiavello, sceleratum Satanæ organum. Il cardinal Polo, nella sua Apologia a Carlo V, narra come gli venisse alla mano il Principe, e subito lo riconoscesse scritto da un nemico del genere umano, dove religione, pietà, tutte le maniere di virtù sono sovvertite, e veramente scritte col dito del demonio, spargendo orribili massime fra principi e fra popoli. E fin d'allora alcuno gli avea detto, per iscusa dell'autore, che egli odiava grandemente i Medici, e consigliandoli a que' delitti, volea prepararne la ruina col colmarli di odio. Iste Satanæ filius, inter multos Dei filios edoctus omni malitia, ex illa nobili civitate prodiit, et nonnulla scripsit, quæ omnem malitiam Satanæ redolent. E vien via analizzandolo, in modo da non potersegli imputare quel che al Possevino, cioè che l'abbia confutato senza leggerlo.

                Lo combatterono pure frà Caterino Politi, e il Muzio, e il Bosio De ruinis gentium, e quasi tutti i teologi politici.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License