Cesare Cantù
Gli eretici d'Italia

DISCORSO XI I PAPI POLITICI. ALESSANDRO VI. IL SAVONAROLA.

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DISCORSO XI

 

I PAPI POLITICI. ALESSANDRO VI. IL SAVONAROLA.

 

A mali siffatti, pur beato quando si trova ad opporre fervido zelo, soda pietà, scienza matura! Nessun vorrà credere che lo spirito di verità e di santità, immorante colla Chiesa in eterno, non apparisse allora. Principalmente negli Ordini religiosi sorgeva chi ravvivasse il sentimento religioso, e tutti, a chi cercasse, offrirebbero personaggi insigni per virtù e per scienza. Bernardino da Siena per tutta Italia menava su' suoi passi la pace e la limosina, e moltiplicò chiese, conventi, spedali, missionarj che spedì in ogni parte del mondo. Bernardino da Feltre allettava il popolo coll'eloquenza e la virtù, e col raccogliere i gemiti delle vedove e de' pupilli; propagò i monti di pietà, allora appena introdotti da un Barnaba francescano a Perugia, per salvare i bisognosi dagli usuraj (1494). Giacomo di Mombrandone, patriarca delle Marche; Pier da Moliano e Antonio da Stroconio nell'Umbria; Pacifico da Ceredano nel Novarese, Angelo da Chivasso, riverito principalmente a Cuneo; Giacomo d'Illiria, frate presso Bari; Vincenzo d'Aquila dedito a stupende austerità, e altri assai Francescani, ottennero culto. De' Domenicani cercarono la riforma Antonio de' Marchesi di Roddi, vercellese, e sant'Antonino, che eletto arcivescovo di Firenze, conservò la frugale regolarità monastica, d'una mula accontentandosi per tutti i servigi, mentre il palazzo, la borsa, i granaj teneva aperti a chiunque; e profondea nelle pesti e ne' tremuoti; «contro a molti che dicono i prelati usare le pompe per essere stimati, giunto a Roma con una cappa da semplice frate, con un mulettino vile, con poca famiglia, era in tanta reputazione, che quando passava per la via s'inginocchiava ognuno a onorare lui, assai più che i prelati con le belle mule e con gli ornamenti de' cavalli e de' famigli»281. Fondò a Firenze il ricovero delle orfane e vedove decadute, ed altre istituzioni che durano fin oggi, o fin jeri, come i provveditori dei poveri vergognosi, anticipazione de' Paolotti: e lasciò una Summa theologica di temperate conclusioni, che passa ancora per delle meglio ordinate; e ch'egli stesso compendiò in italiano ad uso de' confessori. Matteo Carrieri da Mantova, portentoso per richiamare al cuore famose peccatrici, e coltivare nascenti virtù: catturato da un corsaro e ottenutane la libertà, la esibì a riscatto d'una signora, presa anch'essa colla figlia; onde il pirata commosso rilasciò tutti i prigionieri (1450). Era domenicano, come Costante da Fabriano, diviso fra lo studio, la preghiera e le macerazioni, e che già vivo ottenne, direi, culto; Giovanni Licci da Palermo che edificò quell'Ordine in cenquindici anni di vita; Sebastiano de' Maggi di Brescia, che alle lodi di letterato rinunziò per attendere alla conversione de' peccatori ed al rappacificamento de' nemici, massime a Genova, ove morì nel 1494.

Francesco di Paola, istitutore de' Minimi, assunse per divisa la parola charitas; non tacque il vero ai regnanti di Napoli; a Luigi XI di Francia, che mandò a cercarlo nell'ultima sua malattia, annunziò che la vita dei re sta come le altre in man di Dio e a questo si preparasse a renderla. A quella Corte lo chiamavano il buon uomo, titolo che colà rimase a' suoi frati, e ad una qualità di pere, di cui egli aveva portato l'innesto.

Francesca di Busso fu esempio delle matrone romane, massime ne' patimenti per l'invasione di re Ladislao e nella peste; per trent'anni servendo ai malati negli ospedali senza negligere le cure domestiche; infine istituì le Oblate. Caterina da Pallanza, udendo a Milano il beato Alberto da Sarzana predicare la passione di Cristo, a questo dedicò la sua verginità, e altre fanciulle raccolse sul monte di Varese ad ascetica perfezione. Veronica, di poveri parenti milanesi, costretta al lavoro continuo anche dopo entrata agostiniana, la notte imparava da a leggere e scrivere, e fu da Dio graziata d'insigni favori. Caterina, figlia d'un Fiesco di Genova vicerè di Napoli, costretta a sposare un Adorno qual pegno di riconciliazione fra le due emule famiglie, dopo dieci anni di paziente martirio, riuscì a convertire il marito; servì i poveri nello spedale, e nelle pesti del 1497 e del 1501; consolata da superne illustrazioni, lasciò opere, che per elevatezza e fervore emulano quelle della sua contemporanea santa Teresa.

Luigia d'Albertone romana, Caterina Mattei di Racconigi, Maddalena Panatieri di Trino, Caterina da Bologna, autrice delle Sette armi spirituali, la carmelitana Giovanna Scopello di Reggio; Serafina, figlia di Guid'Antonio conte d'Urbino, e moglie malarrivata di Alessandro Sforza signore di Pesaro; Eustochia dei signori di Calafato a Messina, fondatrice del Monte delle Vergini; Margherita di Ravenna, provata da Dio con penosissime infermità, fondatrice della confraternita del Buon Gesù; Stefania Quinzani d'Orzinovi, che le città s'invidiavano, e a cui il senato veneto e il duca di Mantova e quel di Milano chiedeano direzione; Margherita di Savoja, vedova del marchese di Monferrato che, offertole da Cristo d'essere provata colla calunnia o la malattia o la persecuzione, tolse di subirle tutte,... sono un piccolo saggio delle donne che infioravano il giardino di Cristo.

Ma la pietà di questi e de' troppi che ommettiamo non bastava a quella riforma, che sarebbe dovuta venire dall'alto; come già vedemmo dal fondo della corruzione essere cavato il mondo per la forza di Gregorio VII, e per lo zelo e gli esempj de' santi Francesco e Domenico.

All'alito di Dio e sotto l'ale del cristianesimo era sbocciata la società moderna; e Dio, unica fonte d'ogni potestà, credevasi avere commesso l'esercizio della temporale non meno che della spirituale al suo vicario in terra; il quale, occupato delle anime, e di conservare integro il dogma e pura la morale, aveva affidato una delle due spade all'imperatore; l'imperatore, unto dal Cristo in terra, consideravasi come capo dei re, come rappresentante il potere temporale della Chiesa in quella grande unità, la quale nell'ordine religioso chiamavasi cattolicismo, e nell'ordine temporale sacro romano impero. Concetto sublime, che sottraeva il mondo all'arbitrio della forza per porlo in tutela della fede, piantava dominj non per conquista o per nascita, ma per riverenza ed opinione; preveniva spesso le guerre mediante l'arbitrato supremo, appoggiato alla minaccia delle scomuniche; sempre le rendeva meno micidiali; garantiva i re e i popoli dai mutui attentati col chiamare gli uni e gli altri a rendere ragione di loro condotta avanti ad un tribunale, inerme eppure potentissimo perchè fondato sulla coscienza de' popoli, e resistendo ai forti non in nome della rivolta, ma della sommessione che si deve a Dio più che agli uomini.

Al sublime divisamento vedemmo quali ostacoli s'attraversassero, sicchè rimasero male determinati i confini delle due autorità. I papi, per tutelarsi in un'età guerresca e quando ogni potenza derivava dal possesso de' terreni, dovettero procacciarsi un dominio temporale, ma tristo il guadagno che n'ebbero, avvegnachè li mise più d'una fiata in punto di scambiare per supremazia principesca quel ch'era tutela e arbitramento, affidato dalle coscienze, e fondato in un regno che non è di quaggiù. Di rimpatto gl'imperatori pretendevano dominare sopra i re, fare da tutori ai papi più che non fosse compatibile coll'indipendenza de' primi e colla dignità del padre comune dei fedeli. Di qui la diuturna contesa fra il pastorale e la spada, solo temporariamente sospesa mediante transazioni che all'uno e all'altra impedivano di trascendere, ma toglievano di spiegare intera la loro efficacia. Dopo le deplorate scissure di Basilea e di Costanza, ove ambedue i partiti ebbero bisogno del braccio dei re, questi, che aspiravano a concentrare in la pubblica potestà, colsero quel destro, e reluttando alle antiche prerogative di Roma dissero: «Noi conosciamo e sappiamo far il bene, meglio della Chiesa; noi non dobbiamo dipendere da nessuno; nessuno vi dev'essere nei nostri Stati, che da noi non dipenda».

Nella comune propensione di quel secolo a consolidare i principati sulle rovine delle repubbliche e dei Comuni, anche i papi procacciarono più solertemente negl'interessi temporali, o condotti dalla carne e dal sangue s'affissero a dare opulenza e stato alle proprie famiglie, da un lato accarezzando i potentati per averli conniventi alle loro aspirazioni, dall'altro spremendo i deboli. Al concilio di Basilea un oratore, quel desso che valse a fare eleggere l'antipapa Felice, diceva: «Tempo già fu che io pensava sarebbe utile separare affatto la podestà temporale dalla spirituale: ora mi convinco che la virtù senza la forza è ridicola, che il papa romano senza il patrimonio della Chiesa non rappresenta che un servo dei re e dei principi».

Ed uno de' politici meglio accorti, Lorenzo de' Medici, scriveva a Innocenzo VIII esortandolo a rendersi forte coll'impinguare i suoi parenti. «Non solo Vostra Santità è dispensata dalla modestia e dalla riserva in faccia a Dio e agli uomini, ma potrebbesi biasimarla di non farlo, e attribuirlo ad altri motivi. Lo zelo e il mio dovere obbligano la mia coscienza a rammentare a Vostra Santità che nessuno è immortale; che un papa ha tanta importanza quanta vuole averne, e poichè non può rendere ereditaria la sua dignità, non può dire suoi se non gli onori e i benefizj che fa ai suoi»282.

Lorenzo era ispirato da interesse personale, ma avrebbe fatta dichiarazione così esplicita se tale non fosse stata l'opinione comune? Era il tempo che si ergevano tutti i principati sulle ruine delle tarlate repubbliche, e il papa seguiva l'andazzo col rinvigorirsi anch'esso. Inoltre le potenze fissavano cupidi occhi sullo Stato romano; onde fattone quistione non di diritto, ma di forza, i papi poteano adoprarsi ad acquistarlo come gli altri, e contro gli altri proteggerlo.

L'esiglio avignonese avea fatto sentire più che mai la necessità che il papa stesse in terra indipendente, e quindi il bisogno di convalidare e crescere il suo dominio. Martino V ed Eugenio IV si valsero del modo di guerra allora usitato, cioè de' condottieri, per sottomettere le città rivoltose. Nicolò V tentò un tratto confederar tutti gli Stati d'Italia per opporli ai Turchi, che aveano presa Costantinopoli il 29 maggio 1453, e riuscì a conchiudere la pace di Lodi; ma questa assicurava i varj dominanti, non li federava per l'offesa e la difesa. Internamente la congiura del Porcari aveva offerto pretesto ai papi d'integrare il proprio dominio su Roma, annullando l'autorità popolare dei capi di rioni.

Quest'assoggettamento bisognava estenderlo a tutto lo Stato, reprimendo l'anarchico arbitrio de' signorotti che se lo divideano, e a ciò mirarono tutti i papi successivi, annaspando una politica non immune di violenze e di frodi, a cui risalto il carattere ond'erano rivestiti. Nella congiura de' Pazzi, prelati cospirarono ad assassinare i Medici in chiesa, e il popolo in vendetta appiccava fino un arcivescovo; pruova di deperita religiosità, ancor più della violenta diatriba, in quell'occasione avventata a Sisto IV, credesi da Gentile de' Becchi vescovo d'Urbino. Sebbene non crediamo che questo pontefice partecipasse a tale assassinio, i tant'altri gravami contro la sua memoria, forza è dire che esercitò trista politica; a titolo di mettere in pace l'Italia per armarla contro i Turchi, sparnazzò scomuniche, massime contro i Veneziani; sostenne la cadente libertà fiorentina contro l'usurpazione dei Medici, ed aspirò all'indipendenza italiana, ma mostrandosi ambizioso e corrotto, disgustò anche i repubblicani, e mentre non attutì le irrequietudini intestine, lasciò che i rigori dell'Inquisizione si trapiantassero dalla Spagna nel paese nostro: per fare denari non abborrì da strani mezzi; creò nuovi uffizj da vendere, impose l'esoso dazio sul macinato, decime sui prelati: elevò impudentemente i parenti suoi, concesse perfino ad Alfonso, bastardo di re Fernando d'Aragona, appena di sei anni, l'arcivescovado di Saragozza.

più saviamente si maneggiarono i suoi successori, l'andamento delle fortune d'Italia alterando per collocare, stabilire, dotare i loro figliuoli o nipoti; e guardandosi come capi dello Stato, più che capi della Chiesa. Non riscossi dalle minaccie di Basilea e Costanza addormentavansi nella sicurezza del possesso, e lasciavano nella stessa metropoli del cattolicismo preponderare lo spirito secolaresco. I cardinali aveano facoltà di imporre condizioni nel conclave al futuro pontefice, ma Innocenzo VI avea dichiarato che nessun giuramento anteriore all'elezione può restringere l'autorità pontifizia, atteso che, sede vacante, alla Chiesa non compete altro diritto che di eleggere il successore. Morto Sisto IV, i cardinali stesero una costituzione, ma tutta a loro mero vantaggio; non avessero meno di quattromila zecchini d'entrata; non rimanessero colpiti da censure o scomuniche o giudizj criminali, se non colla sanzione di due terzi del sacro collegio; non oltrepassassero il numero di ventiquattro, un solo de' quali potesse essere della famiglia del papa.

Siamo contenti di non esser obbligati a raccontare il regno di Innocenzo VIII, salito papa col promettere, e connivendo a indegni favoriti che di tutto faceano bottega.

Allorchè questi morì nel 1492, si manifestò più che mai nella cristianità il bisogno di riformare la Chiesa; «Lionello vescovo di Concordia n'espresse davanti ai cardinali il voto nel giorno che entrarono in conclave, in un magnifico discorso rappresentando come la romana, madre e radice della Chiesa universale, cadesse di giorno in giorno in maggiore dispregio; estremo il lusso del clero; i principi cristiani accanniti gli uni agli altri fino a distruggersi. Il dolore della figlia di Sionne è grande come il mare. Rimedio sia l'eleggere un pontefice santo, istruito, valente. Tutta la Chiesa ha gli occhi sopra di voi; ne aspetta un capo che, col buon odore del suo nome, attiri i fedeli alla salute; fedele come san Giacomo, ortodosso come san Paolo, che dalla Babilonia dell'apocalisse spinga la Chiesa verso i testimonj dell'Eterno»283.

L'eletto fu Alessandro VI284; e il nome basterà per quelli che accettano bell'e fatte le opinioni. Trovava egli ancora il paese sovvertito dagli Orsini e dai Colonna, coprenti l'ambizione personale sotto i titoli di Guelfi e Ghibellini; ed egli vi mosse guerra risoluta, come ai Varani e Fogliani che possedeano le Marche: ai Della Rovere, signori di Sinigaglia, ai Montefeltri di Urbino e di Gubio, ai Vitelli di Civita di Castello, ai Baglioni di Perugia, agli Sforza di Pesaro, ai Malatesta di Rimini, ai Riario di Imola, ai Manfredi di Faenza, ai Bentivoglio di Bologna; tutti in gara di violenze e di tradimento, e che promossero o favorirono la funesta calata de' Francesi con Carlo VIII, a cui Alessandro si opponea. Che se come uomo rimase tipo d'una più romanzesca che storica scelleraggine, egli salito pontefice a sessantun anno; se, mentre da capitano andava a combattere i Savelli, gli Orsini, i Colonna, lasciava il governo a sua figlia Lucrezia Borgia, fin coll'arbitrio d'aprire le sue lettere: se Cesare Borgia, eroe del delitto, infamato dalle lodi attribuitegli dal Machiavello, chiarì quanto potesse osare un figlio di papa, e in conseguenza quanto fosse opportuno il celibato de' preti: Alessandro come pontefice emanò savie costituzioni; collaingiustamente beffata delimitazione delle terre scoperte prevenne i conflitti della Spagna col Portogallo nel nuovo mondo; i contemporanei s'accordano a lodarlo d'avere tarpate le minute tirannidi, e molti confessano, come fu detto di Tiberio, che in lui andavano pari i vizj e le virtù. Dove non veglino i tirannici ordinamenti che la cristianità sconosce, neppure l'inettitudine o la malvagità d'un capo abolisce la bontà delle istituzioni e la consistenza degli intenti285.

Rinunziando a discolpe, che potrebbero scambiarsi per giustificazioni286, torciamo dal genio delle tenebre verso un angelo di luce.

Qual Italia abbiamo? Le idee pagane sono in piena rifioritura: si rovistano gli avanzi di libri, di statue, di fabbriche; sulle antiche si modellano le opere nuove, a scapito dell'originalità e della naturalezza; l'autorità d'un filosofo o d'un poeta reggesi in bilancia con quella della Scrittura e d'un santo padre, fino a insegnare, Cristo dice così, Aristotele e Platone dice colà; la sottigliezza scolastica offusca la ragione col pretesto di illuminarla; la sublimità platonica invanisce in delirj teosofici; si magnificano solo le virtù pagane, e i nomi di greci e romani surrogansi a quelli ricevuti nel battesimo.

In quella civiltà cresciuto e fattosene adoratore, Lorenzo De' Medici cantò inni sacri per compiacere sua madre, e osceni carnascialeschi per compiacere alle brigate; e moriva circondato da tutto il fasto d'una Corte popolana, fra capi d'arte antichi, o moderni che gli emulavano; fra libri cercati di lontanissimo; fra olezzi di fiori, tratti dall'India; fra delicature tributategli da tutto il mondo. Ma i suoi sguardi su che si fissavano in quel memore punto? Sopra un crocifisso di legno rusticamente intagliato, stretto fra le mani d'un frate. Era frà Girolamo Savonarola. Nato di buona gente a Ferrara, già da fanciullo amava la solitudine; nelle campagne fin colle lacrime esalava la piena dell'affetto, e al Signore diceva: Notam fac mihi viam in qua ambulem, quia ad te levavi animam meam. Educato all'aristotelica, a Firenze verge ai Platonici e al misticismo, ma da' traviamenti lo rattiene l'ammirazione sua verso san Tommaso, per omaggio al quale entrò nell'Ordine dei Domenicani, adottandone il vero spirito nell'astinenza, nell'obbedire, nell'adempiere a' più umili uffizj. Abbandonato fin ciò che prediligeva, alcuni libri e immagini, portava abitualmente un piccolo cranio d'avorio, che gli rammentasse il nulla delle onorificenze umane, e passava di città in città predicando, esortando, commentando, consigliando, confessando. Venuto nell'alta Italia, queste eccelse montagne coronate di ghiacci, quasi bastite erette da Dio a difesa di paese prediletto, e i colli degradanti in limpidi laghi o in pianure sconfinate l'incantavano; sicchè fermandosi dalla pedestre peregrinazione, sedeva sotto qualche albero guardando, e cercava nella memoria alcun versetto di salmo che esprimesse gli affetti onde sentivasi inondato. Nei dubbj del pensiero, nelle fiacchezze della volontà pregava, pregava. Fatto nel 1488 priore del convento di san Marco in Firenze, poc'anzi riformato dal santo arcivescovo Antonino, si mostrò severo coi traviati quanto mite coi ravveduti; e parendogli che da Dio gli fosse ispirato il modo con cui dovesse favellare, tonava contro l'universale pervertimento. Predicava egli sotto un gran rosajo damasceno, e malgrado la debile voce e l'accento lombardo, l'uditorio gli crebbe tanto, che dovette trasferirsi in Duomo.

Oratori avidi d'applausi, con iscolastiche argomentazioni, scienza profana, frasi armoniose, blandivano a que' popoli, fortunati di soavi aure, piene di vita, d'una civiltà sviluppata ne' materiali godimenti, sotto principi senza pari nel fasto e nel buon gusto, onorati e cerchi da re lontani, cantati dai poeti, inneggiati dal popolo.

Chi oserebbe rompere quel concerto di encomj e di gioja? Il Savonarola, che non conosce civiltà senza della virtù, e che, unendo la persuasa e fino entusiastica devozione di frate alla franchezza di tribuno, comincia a gridare, Sventura, sventura: e a declamare contro i viluppi d'una politica subdola, le profanità degli artisti, l'abominazione introdottasi nel santuario. Ed esclamava: «Tristo chi si vende al mondo! guai ai padri che allevano alla peggio i loro figliuoli! guai ai governanti che opprimono i popoli e ne fomentano le dissensioni, e gl'istinti malevoli e l'odio alla verità! guai ai cittadini e mercanti che non considerano se non il guadagno, come le donne agognano alle futilità, i villani al furto, i soldati alle bestemmie! guai ai prelati che, invece di menare il loro gregge a pastura intemerata e fresca, l'avviano seco alle fonti avvelenate! guai ai preti che scialacquano i beni della Chiesa, destinati ai poveri! guai ai sapienti che ignorano le verità della fede o si stomacano della semplicità del catechismo! guai agli artisti che, per amore dell'arte, perdono la fede, sagrificano il costume! guai ai maestri che spiegando autori pericolosi, avvezzano alla lubricità, prima che nelle Università si divaghino in una logica petulante, nella arroganza dell'argomentazione, surrogata al buon senso e al vangelo

Non sapeva egli perdonarla a que' predicatori, che fanno gemere e piangere e stupire, ma non correggono emendano, ed eccitano emozione femminea, anzichè salutare fervore; invece del vangelo annunziano baje, spacciano pruriginose novità, volendo emulare la poesia di Virgilio o la scienza di Platone, la soavità d'Isocrate o l'impeto di Demostene; avviluppano Cristo nelle passioni umane; tolgono le distinzioni fra il cristianesimo e il paganesimo: delle futilità de' filosofi e della sacra scrittura fanno un miscuglio, e questo vendono su pei pergami, mentre le cose di Dio e della fede lasciano da banda.

«Questa pecora smarrita (diceva) Cristo l'ha perduta: il buon prete la ritruova, e deve renderla a Cristo; ma il malvagio la blandisce e la scusa, e le dice: So che non si può sempre vivere castamente e astenersi dal peccato; e così l'allontana più sempre da Cristo, e le fa perdere la testa e la tiene per . Io non nomino alcuno, ma la verità bisogna dirla. Se sapeste quel ch'io so! cose schifose, cose orribili; e ne fremereste, ed io non so frenare le lacrime pensando che i cattivi pastori si fanno mezzani per condurre l'agnella in bocca del lupo. Non serve che preti e frati vadano ogni giorno a piazzeggiare, e fare visita alle comari, ma che studiino la Bibbia. Dopo notti passate nel vizio, che vuoi tu fare della messa

«Le scienze (diceva ancora) bisogna adoprarle per dimostrare la fede, ma prendere la fede in semplicità, non dissiparsi in dissertazioni e ciancie, ma studiare la Bibbia e i Padri». Ed egli infatto alla Bibbia si appoggia continuamente; in nome e colle espressioni di quella, minaccia o loda, esalta fulmina; e crede che, nel senso mistico, si applichi non solo ai fatti generali della storia, ma anche ai particolari di ciascun tempo, qualora la Grazia ajuti a combinare i testi.

E più che al dogma, nella predicazione bada egli alla pratica; e tanto fino politico, quanto poco lo fu Lutero, vede gli imminenti pericoli, sa le notizie, vuole stabilire la repubblica evangelica, l'eguaglianza di ricchi e poveri. A differenza del Machiavello, sa che forza ed armi non bastano dove così profonda è la depravazione: il male sta nell'anima; questa bisogna rigenerare, e il miracolo sarà fatto. E professando la virtù essere necessario fondamento d'ogni libertà, e arte della tirannia pervertire i costumi, doleasi che per questa via le antiche repubbliche italiane «sobrie e pudiche», s'andassero precipitando nella tirannide; e proclamava che buon governo e moralità vanno inseparabili.

Perciò, quando Lorenzo de' Medici lo chiamò al letto della sua agonia, dicono che il frate gli ponesse come patto dell'assoluzione il restituire a Firenze la proprietà migliore, la libertà.

Come altri pretesi redentori d'Italia, mirò con compiacenza l'invasione di Carlo VIII, salutando i Francesi quai liberatori, e godette che per opera loro fossero cacciati i tiranni di Firenze: ma quando essi abusavano della vittoria, affacciossi a Carlo, e gli indirizzò quel che più sgarba ai potenti, la verità; e perchè quel re s'inchinava a lui davanti, e' gli mostrò un crocifisso dicendo: «Non venerare me, ma questo, che ha fatto il cielo e la terra, ch'è re dei re, e manderà a rovina te con tutto il tuo esercito se non desisti dalla crudeltà». Come Carlo partì, fece stabilire a Firenze il regno di Cristo, cioè il governo a popolo, e parve l'idolo della città, alla vigilia di divenirne l'esecrazione.

Noi non abbiamo a qui discorrere de' suoi fatti politici e governativi, benchè fossero tanta cagione delle sue ultime vicende. Solo diciamo come le sue prediche fossero benedette di frutto stupendo; e per un momento parve che la Firenze del Pulci, delle giostre, de' carri carnascialeschi, fosse mutata in una città di santi. Dalle ville che popolano il Val d'Arno e le pendici dell'Apennino, affluivano contadini; e appena le porte si schiudessero, precipitavansi nella città, dove trovavano accoglienza e nutrimento dalla eccitata carità. Giovani, donne, fanciulli, vecchi, d'ogni classe, con giubilo devoto affollavansi ad aspettare le prediche del frate, ognuno queto al suo posto, con un lumicino per leggere l'uffizio o libri devoti; e non s'udiva uno zitto; se non che a tempo a tempo alcuno sorgeva ad intonare una laude, alla quale rispondeasi a vicenda: e le tre, le quattr'ore287 attendevano sinchè il frate venisse a spargere la parola or minacciosa, or confortante. Pareva proprio una primitiva Chiesa, dice un contemporaneo; dapertutto un conversare pieno di carità, un guardarsi, incontrandosi, con letizia inestimabile, fossero pure forestieri, bastando ch'erano figliuoli di quel gran padre: per le vie e pel contado non più canzoni e vanità, ma cantici spirituali, e per le strade vedeansi le madri andar recitando l'uffizio co' figliuoli, a modo de' religiosi; alle mense, fatta la benedizione, si leggeva qualche libro devoto; non si vendea più carne i giorni proibiti: la sera i giovani accoglievansi al focolare paterno a recitare il rosario; le donne ripresero la modestia nel vestire; sino i fanciulli chiesero dal magistrato regolamenti per proteggere il buon costume. Gli uomini viziosi s'asteneano, per paura d'essere additati dai fanciulli, come le donne addobbate in foggie disoneste. Voleano divertirsi? Adunavansi a brigatelle di venti o trenta, in qualche deliziosa postura; e comunicatisi, consumavano la giornata cantando salmi, o in pii sermoni, o recando in processione la Madonna e il Bambino: e le domeniche, côlti rami d'ulivi, uscivano sui prati e ripeteano laudi che il frate avea composte, adattandovi arie dedicate già alla frivolezza e all'immoralità.

Più si abbondava nelle opere di carità; faceasi venire grano a sollievo della carestia dominante; si eresse un monte di pietà per riparare alle usure; moltiplicaronsi altri atti che attiravano lo scherno de' gaudenti, i quali chiamavano costoro stroppiccioni, piagnoni, frati.

Al Savonarola doleva che la letteratura e le arti avessero preferito le vie di Betsabea a quelle di Betlem; lo studio della natura e dell'antico al sentimento intimo; e si ostentassero nudità fino sugli altari, come ne' versi le divinità e i sensi pagani usurpavano il luogo a Cristo e alla pensierosa severità, quasi volesse farsi rivivere ciò che è defunto, e per sempre. Perocchè le belle arti, rinnovellatesi non a nome dell'idea, ma della pratica e del bello plastico, si erano rivoltate contro il medioevo a nome dell'antichità; prima vagheggiando i prestigi classici, poi dimenticando la sostanza per la veste, e surrogando il gusto all'entusiasmo. Il Savonarola cercò istituire scuole o congregazioni, onde ricondurle nel santuario, dove erano sbocciate; e a quell'anima entusiasta, sotto il bel cielo d'Italia, nella città altrice delle arti, come dovea sorridere il pensiero di rigenerarle, e di ricollocare la bellezza in grembo all'Eterno, dal quale essa deriva! Molti artisti convertironsi a lui, non già per distruggere e abolire il bello, come fecero i Protestanti, ma per consacrare il pennello, lo scalpello, il bulino a soggetti edificanti.

Anzi il Savonarola osò per amore un fatto, che troppo fu ripetuto per ira in altri paesi. I giovinetti, ch'egli educava nella pia austerità mandò attorno per la città a farsi dare libri sconci o di sorte, laide immagini, tessuti lascivi, canzoni amatorie, ritratti di bellezze divulgate, e di tutte queste vanità288 il giorno di berlingaccio del 1498 fu fatta una gran catasta in piazza e postovi fuoco a suon di trombe e di canzoni. I savj secondo il secolo ne presero scandalo, e dicevano sarebbonsi potute vendere, e col denaro fare limosina; «come dissero già (riflette il Nardi) i mormoratori del prezioso unguento sparso da quella devota donna sopra i piedi di Cristo; non considerando che i filosofi pagani e gli ordinatori delle polizie, e Platone specialmente, scacciavano tutte quelle cose che oggi sono vietate più severamente dalla cristiana filosofia».

Del clero massimamente rimproverava frà Girolamo l'indegno vivere, e il non credere che nel sacramento sia Cristo, cioè l'accostarvisi indegnamente. «Fatti in qua, ribalda Chiesa, dice il Signore; io ti avea dato le belle vestimenta, e tu ne hai fatto idolo: i vasi desti alla superbia, i sacramenti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice sfacciata; tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abbominevole. Una volta ti vergognavi de' tuoi peccati, ma ora non più. Una volta i sacerdoti chiamavano nipoti i loro figliuoli; ora non più nipoti ma figliuoli, figliuoli per tutto. Tu hai fatto un luogo pubblico, hai edificato un postribolo per tutto. Che fa la meretrice? Ella siede in sulla sedia di Salomone, e provoca ognuno; chi ha denari passa, e fa quel che vuole; chi cerca il bene è scacciato via. O Signore, Signore, non vogliono che si faccia il bene. E così, o meretrice Chiesa, tu hai fatto vedere la tua bruttezza a tutto il mondo, e il tuo fetore è salito al cielo. Tu hai moltiplicato le tue fornicazioni in Italia, in Francia, in Ispagna, per tutto. Ecco che io stenderò le mie mani, dice il Signore; io ne vengo a te, ribalda, scellerata: la mia spada sarà sopra i tuoi figli, sopra il tuo postribolo, sopra le tue meretrici, sopra i tuoi palazzi: e sarà conosciuta la mia giustizia. Il cielo, la terra, gli angeli, i buoni, i cattivi ti accuseranno, e non vi sarà persona per te, io ti darò in mano di chi ti odia»289.

E altre volte: «Quand'io penso alla vita dei sacerdoti, mi bisogna piangere. O fratelli e figliuoli miei, piangete sopra questi mali della Chiesa, acciò il Signore chiami a penitenza i sacerdoti. La chierica mantiene ogni scelleratezza. Comincia pure da Roma: e' si fanno beffe di Cristo e dei santi: sono peggio che Turchi, peggio che bovi. Non solamente non vogliono patire per Dio, ma vendono perfino i sacramenti. Oggi vi sono sensali sopra i benefizj, e si vendono a chi più ne . Credete che Dio voglia più sopportarlo? Guai, guai all'Italia e a Roma! venite, venite, sacerdoti; venite, frati miei: vediamo se possiamo resuscitare un poco l'amore di Dio»290.

E vi applicava quel che Amos diceva contro i sacerdoti ebrei: «La nostra Chiesa ha di fuori molte belle cerimonie in solennizzare gli ufficj ecclesiastici, con belli paramenti, drappelloni e candellieri d'oro e d'argento, e tanti bei calici che è una maestà. Tu vedi quei prelati con mitre d'oro e di gemme preziose in capo, con pastorali d'argento e piviali di broccato, cantare bei vespri e messe, con tante cerimonie e organi e cantori, che tu stai stupefatto; e pajonti costoro uomini di grande gravità e santimonia, e non credi ch'e' possano errare, ma ciò che dicono e fanno s'abbia a osservare come l'evangelo. Gli uomini si pascono di queste frasche, e rallegransi in queste cerimonie, e dicono che la Chiesa di Cristo Gesù non fiorì mai così bene, e che il culto divino non fu mai sì bene esercitato quanto al presente, e un gran prelato disse che la Chiesa non fu mai in tanto onore, i prelati in tanta reputazione; e che i primi erano prelatuzzi, perchè umili e poverelli, e non avevano tanti grassi vescovadi tante ricche badie, come i nostri moderni. Erano prelatuzzi quanto alle cose temporali, ma erano prelati grandi, cioè di gran virtù e santimonia, grande autorità e reverenza ne' popoli, sì per la virtù, sì pei miracoli che facevano. Oggidì i Cristiani che sono in questo tempio, non si gloriano se non di frasche; in queste esultano, di queste fanno festa e tripudiano; ma interverrà loro quello ch'io vidi, che il tetto rovinerà loro addosso, cioè la gravità de' peccati delle persone ecclesiastiche e de' principi secolari cadrà sul loro capo, e ammazzeralli tutti in sul bello della festa, perchè si confidano troppo sotto questo tetto.

«I demonj ed i prelati grandi, perchè hanno paura che i popoli non escano loro dalle mani e non si sottraggano dall'obbedienza, hanno fatto come fanno i tiranni delle città: ammazzano tutti i buoni uomini che temono Dio, o li confinano, o li abbassano che e' non hanno uffizj nella città; e perchè non abbiano a pensare a qualche novità, introducono nuove feste e nuovi spettacoli. Questo medesimo è intervenuto alla Chiesa di Cristo: primo, essi hanno levato via i buoni uomini, i buoni prelati e predicatori, e non vogliono che questi governino: secondo, hanno rimosso tutte le buone leggi, tutte le buone consuetudini che avea la Chiesa, vogliono pure ch'elle si nominino. Va, leggi il Decreto; quanti belli statuti, quante belle ordinazioni circa l'onestà de' cherici, circa le vergini sacre, circa il santo matrimonio, circa i re e i principi come e' s'hanno a portare; circa l'obbedienza de' pastori; va, leggi, e troverai che non s'osserva cosa che vi sia scritta; si può abbruciare il Decreto, che gli è come se non ci fosse. Terzo, hanno introdotto loro feste e solennità per guastare e mandare a terra le solennità di Dio e de' santi.

«Se tu vai a questi prelati cerimoniosi, essi hanno le migliori paroline che tu udissi mai; se ti conduoli con essoloro dello stato della Chiesa presente, subito e' dicono: Padre, voi dite il vero, non si può più vivere se Dio non ci ripara. Ma dentro poi hanno la malizia, e dicono: Facciamo le feste e le solennità di Dio feste e solennità del diavolo, introduciamo queste coll'autorità nostra, col nostro esempio, acciocchè cessino e manchino le feste di Dio, e sieno onorate le feste del diavolo. E dicono l'uno all'altro: Che credi tu di questa nostra fede? Che opinione n'hai tu? Risponde quell'altro: Tu mi sembri un pazzo; è un sogno, è cosa da femminucce e da frati. Hai tu mai visto miracoli? Questi frati tutto il minacciano, e dicono, e' verrà, e' sarà; e tutto il ci tolgono il capo con questo loro profetizzare. Vedi che non sono venute le cose che predisse colui. Dio non manda più profeti, e non parla con gli uomini; s'è dimenticato de' fatti nostri, e però gli è meglio che la vada così, e che governiamo la Chiesa come abbiamo cominciato. Che fai tu dunque, Signore? Perchè dormi tu? Levati su, vieni a liberare la Chiesa tua dalle mani dei diavoli, dalle mani de' tiranni, dalle mani de' cattivi prelati; non vedi tu che la è piena d'animali, piena di leoni, orsi e lupi, che l'hanno tutta guasta? Non vedi tu la nostra tribolazione? Ti se' dimenticato della tua Chiesa, non l'hai tu cara? ell'è pure la sposa tua! non la conosci tu? È quella medesima, per la quale discendesti nel ventre di Maria; per la quale patisti tanti obbrobrj; per la quale volesti versare il sangue in croce. Vieni, e punisci questi cattivi, confondili, umiliali, acciocchè noi più quietamente ti possiamo servire»291.

già disapprovava egli i possessi temporali degli ecclesiastici, ma il tristo uso che faceano delle ricchezze292; e violento diveniva quando toccasse i vizj di Roma, sicchè per verità poco divario corre fra quel suo linguaggio e quel di Lutero; anzi, alcuni di coloro che guastano il bene coll'esagerarlo, coniarono allora medaglie, ove a Roma vedeasi soprastare una mano col pugnale e la legenda Gladius Domini super terram cito et velociter293.

Intanto coi libri de' letterati e colle corrispondenze dei mercanti di Firenze divulgavasi il nome del Savonarola; «perfino d'Alemagna (diceva esso) ci vengono lettere dei seguaci che va acquistando la nuova dottrina». Riconosceva dunque egli stesso una nuova dottrina, la quale porse titolo d'accusarlo al pontefice, ch'era Alessandro VI. Questi, pauroso d'uno scisma, più volte l'ammonì, poi gli attaccò processo d'eresia, e gli interdisse di predicare. Il Savonarola non pensava staccarsi dalla Chiesa, e scrisse al papa: «La Santità Vostra si degni indicarmi quale tra le cose che dissi e scrissi io deva ritrattare, e subitissimo il farò». Non impugnava dunque l'autorità delle somme chiavi, ma poichè allora le teneva un pontefice, che coi costumi proprj e de' suoi deturpava una cattedra, onorata da tanti sapienti e tanti virtuosi, il Savonarola sostenne fosse stato eletto iniquamente, e braveggiò la scomunica, dicendo, che se ingiusta non obbliga294, che il papa potè essersi ingannato.

Scrisse ai principi, testificando «in verbo Domini, che questo Alessandro non è papa, può esser ritenuto tale; imperciocchè, lasciando da parte il suo scelleratissimo peccato della simonia, con cui ha comperato la sedia papale, ed ogni a chi più ne ha vende i benefizj ecclesiastici, e lasciando gli altri suoi manifesti vizj, io affermo ch'egli non è cristiano, e non crede esservi alcun Dio», ed esortava i principi a raccoglier il concilio in luogo atto e libero, dov'egli tutto ciò proverebbe.

Alessandro VI volle ancora scorgervi piuttosto trascendenza di zelo che vera malizia: e per lasciargli aperta la via al pentimento, non lo dichiarò eretico, bensì sospetto d'eresia, e cercò che la Signoria lo inducesse a chiedere l'assoluzione, la quale esso non gli negherebbe, come in appresso gli renderebbe anche il predicare295.

Ma frà Girolamo, fin nell'ultimo suo discorso esclamava: «Bisogna rivolgersi a Cristo che è la causa prima, e dire: Tu sei il mio confessore, vescovo e papa: provvedi tu alla Chiesa che rovina. - O frate, tu debiliti la podestà ecclesiastica. - Questo non è vero: io mi sono sempre sottoposto e mi sottopongo anche ora alla correzione della romana Chiesa: non la debilito punto, anzi l'aumento. Ma io non voglio stare sotto la potestà infernale; ed ogni potestà che va contro al bene non è da Dio, ma dal diavolo».

E spesso ripeteva che un giorno darebbe volta alla chiavetta, e griderebbe, Lazare, veni foras; accennando al concilio, a cui s'appellava, e che non da lui solo, ma da molti era considerato come unico rimedio ai disordini della Chiesa. E questo chiedere la riforma per mezzo del concilio era tanto più comune dacchè in quel di Costanza erasi stabilito di radunar la Chiesa ogni dieci anni. Nel processo del Savonarola v'è l'esamina di un Giovanni Combi, che dice: «Sono giorni circa quaranta, che, trovandomi a casa ozioso, mi venne in animo di mandar allo imperatore il libro del Trionfo della fede fatto da frà Girolamo, avendo inteso ch'era bello libro, e mandavalo allo imperatore come a uomo dotto e che si diletta di cose simili. E così feci una lettera a S. M. nella quale narravo come il detto frà Girolamo era gran profeta, e prediceva cose future, massime la conversione de' Turchi, la ruina d'Italia e la renovazione della Chiesa. E che non era dubbio la Chiesa stava male, come S. M. può ben sapere, e che a S. M. prefata s'apparterrebbe remediare, come si faceva pei tempi passati, per mezzo de' concilj. Di poi andai con tal mia lettera a San Marco, non per trovare frà Girolamo, ma per fare scrivere tal mia lettera in latino: e trovati frà Silvestro e Girolamo Benivieni, la lessi loro. Di poi la lasciai a Girolamo Benivieni perchè la facesse latina; e lui così mi promise di fare. Di poi a tre giorni andai a San Marco, e mi ha detto che io facessi motto a frà Girolamo che mi voleva parlare. E così andai a lui, ed inginocchiatomegli dinanzi, e' mi disse: «Io ho visto la bozza della tua lettera allo imperatore: sia contento non l'avere per male». Poi soggiunse: «La sta secondo il gusto mio e poco manca». E che voleva aggiungere alcune parole, e darmi copia di una lettera che aveva scritto al papa, perchè ve la inchiudessi. Ed io risposi essere contento a tutto, ecc.».

Ma poichè il frate procedea più sempre fino a non voler riconoscere altre autorità che di Dio e della propria coscienza, stimolato dalle nimistà cittadine, dalla gelosia d'altri monaci, e massime di frà Mariano da Genazzano, che in predica intitolava il Savonarola ebreone, ribaldone, ladrone, il papa rinnovò la scomunica «perchè alle apostoliche ammonizioni e comandamenti non ha obbedito», e vietava di ajutarlo, frequentarlo e lodarlo «siccome scomunicato e sospetto d'eresia».

I suoi discepoli, anche colla pruova del fuoco, si profersero a sostenere contro frati Francescani296, che la Chiesa di Dio ha bisogno d'esser rinnovata; ch'essa verrà percossa; dopo i flagelli essa e Firenze saran rinnovate e prospere; gl'infedeli si convertiranno in Cristo; queste cose si compiranno ai giorni nostri; la scomunica contro frà Girolamo è nulla; peccano quelli che non ne tengono conto.

Deponiamo l'entusiasmo che simpaticamente è eccitato dagli entusiasti, e viepiù dalla nobile e austera sembianza del Savonarola, e che cosa vi vediamo in somma? Il frate sostenere che la giustizia è perita, e in conseguenza restano esautorati il governo temporale e lo spirituale. Ma con ciò egli ergeva se stesso in giudice di tutti: non sarebbe stata giudice meglio competente la santa sede? No (egli risponde) perchè non è più santa, mentre santi sono i Piagnoni, i quali induce ad astinenze, ad austerità, a indietreggiare ai tempi di san Francesco e de' Fraticelli297.

Per dimostrare che la sua missione era superiore agli altri, abbisognavano profezie e miracoli; or le profezie sue democratiche fallirono; quanto ai miracoli, uno gliene chiedeva Carlo VIII298 come la gentuccia; esibitagli la pruova del fuoco, non potè cansarla, e non gli riuscì; donde scredito, e quel facile mutare degli amori fanatici in fanatiche esecrazioni.

La plebe, secondando i menapopolo, domanda una vittima; assale il convento di San Marco, ferendo, uccidendo: arresta frà Girolamo; ed essa che dianzi l'adorava, ora ebra di furore lo schiaffeggia, e sputacchia, dicendo: «Profetizza chi ti ha percosso», e «Salvati con un miracoluccio». E frà Girolamo se ne va, ripetendo ai suoi frati: «Rammentatevi di non dubitare: l'opera del Signore andrà sempre innanzi, e la mia morte non farà che accelerarla».

Esultarono i tristi preti del cessato attacco; esultarono i Compagnacci che la voce di rimprovero fosse soffogata; esultarono i patrioti d'aver tolto di mezzo il turbatore della pace pubblica; avversarj fatti giudici lo esaminano, e perchè non trovano titolo a condannarlo, v'è chi esclama: «Un frate più o meno, che cosa importaStirato e squassato alla fune, egli debole e affranto di corpo, confessa quel che vogliono, essere stato eretico, aver negato Cristo, finto profezie e rivelazioni; poi subito nega, e «Non ho mai detto di credermi ispirato; bensì di appoggiarmi solo alle scritture sante. Non cupidità delle glorie del mondo mi mosse, e desideravo che per opera mia si congregasse il concilio, nel quale speravo fossero deposti molti prelati e il papa, e i costumi si riformassero, a modello de' tempi apostolici. Circa alla scomunica, benchè a molti paresse che la fosse nulla, niente di meno io credevo ch'ella fosse vera, e la osservai un pezzo: ma poi parendomi che l'opera mia andasse in rovina, presi partito di non la osservar più, anzi manifestamente contraddirla e con ragioni e con fatti, per onore e per riputazione».

Rimesso alla tortura, confessava di ricapo quel che volevano, e meritar mille morti299. Ma interrogato se avesse voluto scinder la Chiesa di Cristo: «Giammai! (rispondeva risolutamente) se pur non si voglia intender d'alcune cerimonie, colle quali restrinsi la vita de' miei frati. Vero è che non ebbi mai paura delle scomuniche».

Ma la sua morte era un sacrifizio domandato da quella tiranna che, allora come adesso, s'intitolava opinion pubblica, e che dianzi ne chiedea l'apoteosi: sempre vulgo. Quando se ne discuteva nella Pratica, fra i minacciosi tremanti ardì alzarsi un Agnolo Pandolfini, e dire che pareagli esorbitanza il porre a morte un uomo, di sì eccellenti qualità che appena se ne vedeva uno in un secolo; e che potrebbe non solamente rimettere la fede nel mondo quando fosse mancata, ma ancora le scienze. Perciò proponeva di tenerlo prigione, e dargli modo di scrivere, acciò il mondo non perdesse i frutti del suo ingegno.

La Pratica accolse male la proposta, e gli si objettò non era a fidarsi nei magistrati futuri, che rinnovavansi ogni due mesi; talchè il frate sarebbe potuto tornar libero, e metter la città di nuovo a soqquadro. Nemico morto non fa più guerra: l'insegnò il Machiavello, e lo praticò Saint-Just.

E morte gli decretarono i concittadini, e l'assentirono i commissarj apostolici; e fu posto vivo sul rogo con due compagni, davanti al Palazzo Vecchio, dove sta ancora la lapide col decreto, pel quale egli avea fatto dichiarare unico re de' Fiorentini Gesù Cristo. Ai condannati il papa avea mandata l'assoluzione, onde l'assistente disse: «Piacque a sua santità liberarvi dalle pene del purgatorio, e concedervi l'indulgenza plenaria dei vostri peccati. L'accettate voi?»

Tutti tre chinarono il capo, e dissero sì. Così ai 23 maggio 1498 moriva frà Girolamo tra gl'insulti della plebe, che struggeasi di metter fuoco alla pira, come un tempo di cogliere i fiori del rosajo ov'egli predicava; tra gli osceni strappazzi del boja, che schiaffeggiandolo attiravasi pubblici applausi: e la Signoria informava i principi «quei tre frati aver avuto fine condegna alle loro pestifere sedizioni». Ma che? Subito il Savonarola fu decorato del titolo di santo, di martire; i tizzoni del suo rogo, qualche avanzo di ossa, le ceneri si conservarono, e mostravansi a' suoi devoti, come adesso ai curiosi; e ad ogni anniversario la gioventù ne espiava il supplizio con ispargere fiori sul luogo ov'egli perì.

Il Savonarola fu eretico? I Protestanti lo dipinsero qual loro precursore, e che avesse insegnato la giustificazione operarsi per la fede senza bisogno d'opere, e l'uomo esser uno strumento passivo in mano di Dio, il quale lo elegge e lo ripruova, senza ch'egli possa contribuire alla propria salvezza. Ultimamente Meyer e Rudelbach300 con molta scienza ne scrissero gli atti in tale intento, ma con quel sistema di modificazioni e reticenze, per cui fu facile allineare coi Protestanti gl'ingegni più ortodossi. Perocchè analizzandone le opere, le mutilano, le scontorcono così, da esprimere quel che essi prestabilirono, e principalmente sopprimono quel che vi ripugna. Per un esempio, delle tre prime parti del Trionfo della Croce, le dottrine sono comuni ai Protestanti e a noi: onde il Rudelbach le divisa con diligenza, industriandosi volta a volta di estrarne qualche senso protestante. Ma trasvola al IV libro ove frà Girolamo tratta dei sacramenti da perfetto cattolico. Il Meyer asserirà che il frate parla ben poco della Beata Vergine, quasi mai del purgatorio: ma non tien conto che in qualche luogo spinge il culto della madre di Dio fino ai limiti della superstizione, e raccomanda ai fedeli di suffragare pei defunti; e conchiude che «chi si parte dalla dottrina della Chiesa romana, si parte da Cristo».

E in quel famoso mistico carro, del quale più fiate egli ragiona, figura Cristo vittorioso, piagato, coi due Testamenti in una mano, nell'altra la croce e i segni della passione; a' piedi il calice, l'ostia, i simboli de' sacramenti; poi la Vergine Maria colle urne de' martiri; il carro è tirato da apostoli, predicatori, profeti; è seguito dalla moltitudine de' fedeli e de' martiri. E da quel carro dicea doversi dedurre una nuova filosofia, i cui canoni supremi sono che Cristo è stato crocifisso, adorato, e ha convertito il mondo; e la Vergine, i martiri, la Santissima Trinità sono adorati dai Cristiani. di rado il Savonarola ritorna sulla necessità delle opere, sul libero arbitrio, sulla cooperazione dell'uomo alla Grazia; che se l'espressione non è sempre esattissima come dopo le definizioni tridentine, abbastanza rivela di pensar come la Chiesa cattolica; quantunque la Grazia diasi gratuitamente, noi dobbiamo apparecchiarci a riceverla forzandoci di credere, pregando, operando301. «Vuoi tu ricevere l'amor di Gesù Cristo? fa di consentire alla divina chiamata; il Signore ti chiama, fa tu pure qualche cosa»302. Aveva anzi in gioventù addottato questo motto: «Tanto sa ciascuno quanto opera»: talmente era lontano dalla passiva aspettazione della Grazia.

Ma nella meditazione sul Miserere fatta in prigione, poneva: «Spererò nel Signore, e presto sarò liberato da ogni tribolazione. E per quali meriti? Pe' miei non già, ma per i tuoi, o Signore. Io non offerisco la mia giustizia, ma cerco la tua misericordia. I Farisei si gloriarono nella loro giustizia; onde non hanno quella di Dio, la quale si ha solo per grazia; e nessuno sarà mai giusto innanzi a Dio, solo per aver fatto le opere della legge.

«O cavaliere di Cristo: di che animo sei tu in queste battaglie? Hai tu fede o no?

«Sì, la ho.

«Ben sappi che questa è una grande grazia di Dio, perchè la fede è suo dono, e non per nostre opere: acciò nessuno si possa gloriare».

Queste parole parvero asserire la giustificazione indipendente dalle opere; sicchè quell'opuscolo fu diffuso in Germania da Lutero nel 1523, con una prefazione, ove dichiarava il Savonarola suo precursore, «sebbene ai piedi di questo sant'uomo sia ancora attaccato del fango teologico»303, e aver lui sostenuto «la giustificazione per mezzo della sola fede, e perciò venne bruciato dal papa»; e soggiungeva: «Cristo lo canonizzò perchè non appoggiossi sui voti o sul cappuccio, sulle messe o sulla regola, ma sulla meditazione del vangelo della pace; e rivestito della corazza della giustizia, armato dello scudo della fede, dell'elmo della salute, si arrolò non all'ordine de' Predicatori, ma alla milizia della Chiesa cristiana».

Noi sappiamo che non dal papa fu bruciato, e non per questo motivo; ma il libro stesso a cui Lutero s'appoggiava lo smentisce, poichè, primamente, che la fede sia dono gratuito di Dio è sentenza comune di tutti i teologi e del concilio di Trento: poi in esso libro il Savonarola continua: «Chi addurrà un peccatore, sia pur grandissimo, il quale, rivoltosi e convertitosi a Dio, non sia stato accetto e giustificato?... Or non hai tu udito il Signore, che dice, Qualunque volta piangerà il peccatore, e si dorrà de' suoi peccati, io non mi ricorderò delle sue iniquità?... Cadesti? lèvati, e la misericordia ti riceverà. Rovinasti? grida, e la misericordia verrà».

Poi sollecitato dal carceriere a lasciargli qualche ricordo, frà Girolamo sulla coperta di un libro scriveva una Regola del ben vivere, più volte ristampata, ove dice: «Il ben vivere dipende tutto dalla Grazia; onde bisogna sforzarsi d'acquistarla, e quando s'è avuta, d'accrescerla... Essa è certamente un dono gratuito di Dio; ma l'esaminar i nostri peccati, il meditare sulla vanità delle cose mondane, c'indirizza alla Grazia; la confessione e la comunione ci dispongono a riceverla... Il perseverare nelle buone opere, nella confessione304, e in tutto quello che ci ha avvicinato alla Grazia è il vero e sicuro modo d'accrescerla».

Il Savonarola era piuttosto un mistico; e a indicarlo tale, se non bastassero alcuni passi da noi addotti, ben altri potrebbero adunarsi, e per darne uno, quello ove definisce, «L'amore di Gesù Cristo è quel vivo affetto, per cui il fedele desidera che la sua anima diventi quasi parte di quella di Cristo, e che la vita del Signore si riproduca in lui, non per esterna imitazione, ma per interna e divina ispirazione. Vorrebb'egli che la dottrina di Gesù Cristo fosse in lui cosa viva, patir il suo martirio, salir con lui misticamente sulla croce. Amore onnipotente, che non può aversi senza la Grazia, perchè eleva l'uomo sopra se stesso, e la creatura finita congiunge al Creatore infinito»305.

Ne' processi nega d'essersi spacciato mai come ispirato; pur realmente davasene l'aria, forse come artifizio a cattivar una plebe, che vuol sempre essere illusa306. Una volta salì in pulpito, ed: «Ho a rivelarvi un secreto celeste, che ancora non ho voluto manifestare ad alcuno, perchè non ne ero finora ben certo. Voi conoscete tutti il conte Pico della Mirandola, morto testè. Dicovi che l'anima sua, per le orazioni de' nostri frati, ed anche per alcune sue buone opere che fece in questa vita, e per altre orazioni, è nel purgatorio. Orate pro eo». Di tratti consimili è sparsa la sua vita, e ne' discorsi accenna spesso a rivelazioni speciali, o ad interpretazioni nuove di passi scritturali.

Uom di fede, di superstizione, di genio, abbondò di carità; credette all'ispirazione personale, all'opposto di Lutero che tutto affidavasi al raziocinio; e argomenti in favore e contro di lui possono raccogliersi nelle sue opere, dal cui complesso risulta come abbia cercato l'armonia della ragione colla fede, della religione cattolica colle franchigie politiche.

In ogni modo non impugnò l'autorità della Santa Sede, benchè reluttasse a colui che egli credeva tenerla illegittimamente, e contro di questo invocasse il concilio che doveva riformar la Chiesa legittimamente: la superbia degli applausi, il puntiglio delle contraddizioni lo fecero trascendere, ma operava con coscienza pura, senza ambizioni personali: non cercò propagar le sue persuasioni colla forza, sibbene coll'esempio, cioè credeva alla potenza del vero. E diceva: «Entrai nel chiostro per imparar a patire, e quando i patimenti vennero a visitarmi, gli ho studiati, ed essi m'insegnarono ad amar sempre, a sempre perdonare». Ma interposto Iddio fra il pensier suo e la sua persona, sottomise la prudenza umana all'ispirazione; credette guidar il popolo per mezzo della passione e delle grida di piazza, e a queste soccombette, come sempre avviene. Eretico non è se non chi si ostina in un'opinione contraria ad un punto di fede definito. La sua fama restò bilanciata tra il cielo e l'inferno, ma la sua fine fu deplorata da tutti, e forse primi quelli che l'aveano provocata. In Santa Maria Novella e in San Marco è dipinto in figura di santo, e da Raffaello nelle logge vaticane fra i dottori della Chiesa; ritratti e medaglie sue si tennero e venerarono, non solo fra que' pii che in Firenze continuarono ad opporsi alla depravazione e alla servitù che ne deriva, ma anche da gran santi.

Nel 1548, il severo Ambrogio Catarino stampò a Venezia un Discorso contro la dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola, dedicato al cardinale Del Monte, dove ne raduna molte proposizioni, che crede repugnanti al dogma cattolico: ma «dichiara di oppugnar in questa opera non il Savonarola, giudicato piuttosto degno di compassione che di vituperio, bensì la dottrina e gli errori di lui, che ancora viveano nella riputazione di coloro che, non senza scandalo e pericolo delle loro anime, a lui prestarono fede».

Forse in conseguenza di tale denunzia quegli insegnamenti furono presi in esame sotto Paolo IV, e quando la commissione ne leggeva dinanzi a questo alcuni brani, egli esclamava: «Ma questo è Martin Lutero! cotesta è dottrina pestifera»; maturato però l'esame, non furono che sospese quindici prediche e il dialogo della Verità profetica: il padre Paolino Bernardini lucchese, fondatore della congregazione di Santa Caterina da Siena, compose Narrazione e discorso circa la contraddizione grande fatta contro le opere del r.p. frà Girolamo, sostenendo che la dottrina di esso «non poteva esser dichiarata eretica, scismatica, nemmanco erronea e scandalosa», e nell'indice del Concilio di Trento que' libri figurano solo donec emendati prodeant, cioè come intaccati solo d'errori accidentali. Dicevasi che Clemente VIII, nel 1598, avesse fatto voto, se riusciva ad acquistare Ferrara, santificare il Savonarola. Serafino Razzi, domenicano fiorentino, infervorato di frà Girolamo, v'esortò più volte il papa, scrisse anche una vita del frate, poi vedendo menarsi la cosa in lungo, comperò un asinello, e settuagenario com'era, l'anno santo recossi a Roma. Ma il papa «temendo dei tanti contraddittori», non volle tampoco vederlo, gli permise di stampare quella vita; e invano i Domenicani aveano preparato un'uffiziatura propria del Savonarola307. Se il filosofico Naudet lo intitolava Ario e Maometto moderno, il devoto padre Touron lo intitolava inviato da Dio; san Filippo Neri e santa Caterina de' Ricci lo veneravano per beato, e Benedetto XIV lo disse degno di santificazione. Al raccogliere de' conti fu un credente del medioevo, non un ragionatore del cinquecento: un'elegia del passato, piuttosto che una tromba dell'avvenire; ma quanto al voler associare la morale colla politica, vivono oggi ancora discepoli suoi, e combattono buona guerra.

Nessuno dei seguaci di frà Girolamo figurò fra i discepoli di Lutero, fra i traditori della patria libertà: Michelangelo, che edificava bastioni per la patria e il maggior tempio del Cristianesimo, l'ebbe sempre in venerazione; il Machiavello, che non s'avventurava ad opinioni contrarie alle correnti, dapprincipio ammirò il Savonarola; lo prese in beffe allorchè ebbe spiegata intera quella sua politica senza Dio, senza providenza, senza moralità; un'innata malvagità senza peccato originale e senza redentore; e la speranza del rigeneramento d'Italia volle non solo senza la Chiesa, ma a dispetto della Chiesa: insomma il preciso contrario del Savonarola.

 

 

 





281                Vespasiano, Vite, ecc.



282                Fabroni, Vita di Lorenzo, ii, 390.



283                Raynaldi, ad 1492.



284                Le inclinazioni di Alessandro VI erano conosciute precedentemente, sicchè quando fu eletto, Pietro martire d'Angera scriveva al cardinale Sforza: Hoc habeto, princeps illustrissime, non placuisse meis regibus (Fernando e Isabella di Spagna) pontificatum ad Alexandrum, quamvis eorum ditionarium, pervenisse; verentur namque ne illius cupiditas, ne ambitio, ne (quod gravius) mollities filialis christianam religionem in præceps trahat. Epist. 119 dell'ediz. di Amsterdam 1670.



285                Nelle carte di Urbino nell'archivio centrale di Firenze è una lettera del 21 luglio 1494 di Alessandro VI a Lucrezia Borgia sua figlia, che finisce: «E per questa volta null'altro se non che attendi a star sana, et a esser devota de nostra donna gloriosa». Si sa ch'egli portava sempre in dosso una palla, contenente l'ostia consacrata.



286   Il signor Chantrel, nella Storia popolare dei papi, tolse or ora a discolpare Alessandro VI, mostrando come la vita sua non fu scandalosa, neppur mentre era privato; sempre poi edificante nel papato; e ch'egli fu gran re e gran pontefice; le accuse prodigategli mancar di fondamento, e ricader sopra gli storici, bugiardi, maligni, ostili ad esso papa, o alla cattedra su cui sedette.

                Sono a vedersi per lo stesso assunto la Storia d'Alessandro VI dell'abate Jorry, e un articolo della Rivista di Dublino, del gennajo 1859. Un amico ci fa avvertire che nelle lettere inedite dell'Alberoni, trovasi un giudizio sopra Alessandro VI, che s'accorda sostanzialmente col da me espresso. Benedetto XIV, nel carteggio confidenziale coll'Alberoni, suo legato di Bologna nel 1740, gli manifestò l'intenzione di correggere varj abusi, e sovratutto di riformare il paese, rovinato da dieci anni di allegria e di conversazioni (Lettera da Castelgandolfo li 18 ottobre di quell'anno). L'Alberoni pur desiderando non ci fosse occasione di venire a que' rimedii troppo repugnanti al naturale della Santità sua, non potè di meno, da quell'uomo schietto qual era, di secondare un sì santo pensiero, aggiugnendo che il bisogno di tale riforma era universalmente sentito da tutti i buoni e dentro e fuori di Roma (Lettera dell'Alberoni di Bologna, 25 ottobre 1741). Il papa lesse, forse con poca riflessione, la lettera dell'Alberoni nella sua conversazione, dove saranno stati probabilmente alcuni bisognosi di tale riforma, e levossi uno schiamazzo contro l'impudenza del legato di Bologna, che avea avuto l'ardimento di scrivere tali cose ad un tal papa, quasichè il suo pontificato fosse quello di Alessandro VI. Non è qui luogo di trascrivere la lunga e veemente risposta dell'Alberoni allo stesso Benedetto XIV, degli 8 novembre: ma sul punto toccato s'esprime così: «Non so come costoro possino far entrare nel mio discorso Alessandro VI. Se si avesse a parlare del di lui pontificato si potrebbe dire che fu un misto di vizj e di virtù: che i primi furono mancanze d'un uomo privato, ma che le seconde furono qualità eminenti d'un principe di gran mente. Tale lo fanno conoscere le di lui famose Bolle e non Pataffie, che saranno di eterna memoria e venerazione, e fra tante altre azioni eroiche del sue pontificato, una sarà la restituzione della Romagna fatta dai Tiranni alla Santa Sede; opera che tutta si deve al coraggio e alla prudenza e sagace condotta di Alessandro VI».



287                Nell'originale "quatt'ore". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



288                Anche san Paolo ad Efeso si fe cedere gli amuleti e talismani della Dea colà adorata, e i libri de' misteri, e quantunque di carissimo costo, valendo cinquantamila denari, li fe bruciare. Act. apost. cap. xix.



289                Prediche sopra Ezechiele. Predica xxii.



290                Prediche sopra l'Esodo.



291                Sermone sopra Amos.



292   «O frate, tu vuoi dire che la Chiesa non possa tenere beni temporali. Questo saria eresia. Non dico questo io, perchè non è da credere, se non si potesse tenere, che san Silvestro li avesse accettati, e san Gregorio li avesse confermati. Però noi ci sommettiamo alla Chiesa romana, o che valga meglio che ne abbia o no. Questa è una gran quistione, perchè vediamo che ha pur fatto male per avere queste ricchezze, e non bisogna che io lo pruovi. Rispondiamo dunque, non però assolutamente, come il marinaro che non vuol gittare le ricchezze in mare, ma fuggire il pericolo; e diciamo che la Chiesa staria meglio senza ricchezze, perchè sarebbe in unione con Dio». Sopra Ezechiele.

                «Il papa è Dio in terra, ed è vicario di Cristo. Ciò è vero, ma Dio e Cristo comandano che si ami il proprio fratello, che si faccia il bene. Adunque se il papa ti comandasse cosa contraria alla carità, e tu la facessi, tu allora vuoi che il papa facci più che non fa Dio. Il papa può errare, non solo per false informazioni, ma qualche volta ancora perchè ha in odio la carità. Ciò che tanto ha corrotto la Chiesa è la potestà temporale. Quando la Chiesa era povera, allora era santa: ma quando le fu data la potestà temporale, cadde nella polvere delle ricchezze e delle cose terrene, e cominciò a sentire la sua superbia... Concilio vuol dir congregare la Chiesa, idest tutti li buoni abbati, prelati e secolari di essa. Ma nota che non si domanda propriamente Chiesa se non dove è la grazia dello Spirito Santo. Ed oggi dove si trova essa? forse solamente in qualche buon omiciattolo... Nel concilio s'hanno a far riformatori che riformino le cose giuste. Nel concilio si castigano li cattivi cherici; si depone il vescovo che è stato simoniaco o scismatico. Oh quanti ne sarebbero deposti! forse non ne rimarrebbe nessuno. Pregate il Signore, che si possa finalmente congregare una volta, per favorire ed ajutare chi vuol far bene e per combattere i tristi». Prediche del 1498, sopra l'Esodo.



293                Jacobo Pitti, Storie, lib. i, cap. 51.



294                «Oh non hai tu paura? Non io che mi vogliano scomunicare perchè non faccio male. Portatela in s'una lancia questa scomunica, e apritele le porte. Io voglio rispondere; e se non ti fo meravigliare, di' poi quel che ti pare. Io farò impallidire tanti visi e qua, che ti parranno ben molti; e manderò fuori una voce che farà tremare e commuovere il mondo... Se io volessi andare adulando, non sarei oggi a Firenze, avrei la cappa stracciata, e mi saprei cavar fuori di questo pericolo. Ma, o Signore, io non voglio queste cose; io voglio solamente la tua croce: fammi perseguitare, io ti domando questa grazia che tu non mi lasci morire in sul letto, ma che io ti renda il sangue mio, come tu hai fatto per me.» Sopra Ezechiele, pred. xxviii.



295                Il papa diceva al Bonsi, oratore di Firenze: «Io ho letto le prediche del vostro frate, e parlato con chi le ha udite. Egli ardisce dire che il papa è ferro rotto; che è eretico chi crede alla scomunica, e che egli, piuttosto che chiedere assoluzione, vorrebbe andar all'inferno. È scomunicato non per alcuna istigazione o per false insinuazioni, ma per la sua disobbedienza al nostro comando di unirsi alla nuova congregazione tosco-romana. Noi non lo condanniamo delle sue buone opere, ma vogliamo che venga a chieder perdono della sua petulante superbia, e volentieri gliela concederemo quando si sarà umiliato a' nostri piedi».



296   Anno Domini MCCCCIIC. - Dilectis filiis guardiano et fratribus D. Francisci ad Sanctum Miniatum extra muros Florentinorum Ordinis Fratrum Minorum de observantia nuncupatorum, Alexander Papa sextus.

            Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Relatum nobis fuit quod apostolico zelo veritatis et justitiæ accensi, ac pro nostro, et hujus sanctæ sedis honore contra] perniciosum dogma falsamque doctrinam perditionis filii Hieronimi Savonarolæ ordinis fratrum predicatorum, ac populi seductionem multis ac veris conclusionibus et argumentis sæpius publice ac privatim predicaveritis, ac eo fervoris et studii processeritis ut, pro sustinendis vestris veris rectisque argumentationibus, et ipsius Hieronimi pertinacia convincenda, non defuerit ex vobis qui etiam se in ignem projicere proposuerit; Laudamus certe devotionem vestram ac tam pium tamquam religiosum ac venerandum opus quod procul dubio nulla poterit oblivione deleri: Nobis vero et ipsi sedi ita gratum et acceptum ut gratius et acceptius esse non possit. Hortamur et monemus vos in Domino, ut eodem tenore pergentes adversus ipsius errorum reliquias, si quæ supersint, et complicem perseverare velitis, ut exinde a Deo et hac sancta sede merita condigna consegui possitis. Dat. Romæ apud S. Petrum sub annulo Piscatoris XI die aprilis 1498, Pontificatus nostri anno sexto.

 

            Dilecto filio Francisco Apuliensi, Ordinis fratrum Minorum de observantia nuncupatorum professori, Alexander Papa sextus.

                Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Intelleximus quanto fervore pro veritate et justitia, proque nostro ac huius sanctæ sedis honore nuper predicaveris verbum divinum in civitate ista florentina adversus falsum et perniciosum dogma iniquitatis filii Hieronimæ Savonarole, qui prius suis demeritis excommunicatus, ausu sacrilego quam plurima scandalosa et heresim sapientia tam diu disseminare tam publice non erubuerat. Fecisti profecto opus valde meritorium, ac maxima laude dignum, ac quale religiosum virum decebat, quod nobis et toti sacro venerabilium fratrum nostrorum Sanctæ Romanæ Ecclesiæ cardinalium collegio mirifice complacuit. De qua devotione te plurimum commendamus, monentes et exhortantes ut, si quid forsitan reliquarum deinceps tanti ac nepharii erroris supersit, in tam bono ac pio instituto perseverare, ac illud eodem veritatis mucrone retundere cures, ita ut majores in dies ac uberiores fructus in agro dominico producens, nostram et ipsius sedis benedictionem et gratiam valeas promereri. Datæ Romæ apud S. Petrum 1498, xi aprilis, Pontificatus nostri anno sexto.



297   I Fraticelli non erano forse del tutto spenti in Firenze. Nella Magliabecchiana (MSS. G. 3. 368) si ha una lunga lettera di don Giovanni delle Celle contro di essi, e una loro risposta assai sviluppata, ma che in fondo accusa la Chiesa di aver traviato, come poi disse Lutero; essi pochi custodire la verità: la via del paradiso essere stretta, onde non è meraviglia se essi sono pochi in numero: peccar contro la carità quelli che gli accusano.

                Il codice XI della classe XXXIV de' manoscritti d'essa biblioteca ha molte scritture contro i Fraticelli dell'opinione e singolarmente del vescovo Ortano, che dice essere stato deputato coll'arcivescovo di Milano ed altri vescovi a discutere contro costoro, sorti principalmente intorno ad Asisi, e che aveano preso per capo un tal Nicolao di Marano, nell'Agro Piceno.



298                Faites moi un petit miracle.



299                Non ha bisogno di commenti questo passo del processo: «Jussus expoliari. Orsù uditemi. Iddio, tu mi hai côlto (inginocchiasi). Io confesso che ho negato Cristo. Io ho detto le bugie. Signori Fiorentini, io l'ho negato per paura de' tormenti. Siatemi testimonj. Se io ho a patire, voglio patire per la verità. Ciò che io ho detto l'ho avuto da Dio. Dio, tu mi hai dato la penitenza per averti negato. Io lo merito. Io ti ho negato. Io ti ho negato. Io ti ho negato per paura di tormenti, per paura di tormenti (erasi inginocchiato e mostrava il braccio manco quasi guasto). Gesù ajutami. Questa volta tu mi hai côlto».



300   Fr. Karl Meyer, G. Savonarola aus grossen Theils handschriftlichen Quellen] dargestellt. Berlino 1836. Contiene molti atti sconosciuti, e che più tardi furono riprodotti da altri biografi come nuovi.

                Rudelbach, H. Savonarola und seine Zeit, aus den Quellen dargestellt. Amburgo 1835. Questi riconosce per profeti della Riforma l'abate Gioachino, santa Brigida, santa Caterina da Siena, ed altri.



301                Predica iv, p. 237. Pr. v, p. 246. Pr. xii, p. 373.



302                Predica xvi, 443.



303                Vorrede über Savonarola's Auslegung des LI psalms.



304                Suole dirsi che sol dopo san Carlo e dopo l'istituzione de' cherici regolari si estese l'uso del frequente confessarsi e de' confessionali in chiesa, ecc. Nel processo, frà Girolamo diceva: «Circa a' confessori, io ne mettevo molti in San Marco, confortandoli che confessassino assai: non per intendere da loro le confessioni, perchè non l'avrebbero fatto per la pena grande, et anche per conservarmi la reputatione appresso di loro: perchè, se io li havessi richiesti di simile cosa, mi sarei al tutto scoperto maligno: ma io lo facevo per havere più concorso, et per tenere gli amici nostri confortati all'opera nostra: et anchora perchè fossino più uniti».



305                Trattato dell'amor di Gesù Cristo. Firenze 1492.



306   Talora disse: «Se un angelo di Dio venisse un giorno a contraddirmi, non gli credete, perchè è Dio medesimo che parlò. Predica 17 febbraio 1497.

            E nella Verità profetica leggiamo:

            Savonarola. Atqui io son profeta. Poichè ragionevolmente mi sforzi, non senza verecondia e umiltà confesso essermi stato da Dio, per suo dono e non per alcuno mio precedente merito, conferito.

            Uria. Guarda che questo sia detto non per umiltà, ma più presto per arroganza.

                Savonarola. Io non m'attribuisco il falso, ma non mi vergogno già di confessare di averlo ricevuto a laude di Dio e per salute de' prossimi»



307   L'officio proprio per frà Gerolamo Savonarola e i suoi compagni, scritto nel secolo XVI, e ora per la prima volta pubblicato per cura del conte C. Capponi, con un proemio di Cesare Guasti. Prato 1860.

            Il codice 34 della classe XXXIV dei manoscritti della Biblioteca Magliabechiana contiene una raccolta di giudizj di varj sopra la vita e le dottrine del Savonarola. Quanta traccia di abbia lasciato il frate appare dall'infinità di scritture a lui relative, che si trovano in tutte le biblioteche di Firenze. Fra le centinaja citerò il codice 7 della classe XXXIV manoscritto nella Magliabecchiana, che contiene Vulnera diligentis di Benedetto da Firenze, ch'è un'apoteosi del Savonarola. Nella prima pagina ordina, hoc non publicetur volumen nisi post mortem illius decimi (cioè Leon X), de quo scriptum est Leo in quinto rugitu morietur, filius Sodomæ ecc.... Detur Adriano VI P. M. ad ciò sia conservata questa cristiana opera dalle mani de' combustori et persecutori della verità.

                Nella Storia degli Italiani io mi son diffuso intorno al Savonarola, esaminando se fu un martire della verità anticipata, se profeta, se un gran patrioto, un gran democratico, o un allucinato, o un impostore. Furono pubblicate di recente molte opere intorno a lui, e massime la Storia di Girolamo Savonarola del Villari (1859), e la Storia del convento di San Marco del p. Marchese.



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