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DISCORSO XII
GIULIO II. CONCILJ DI PISA E LATERANO.
Alessandro VI moriva, non colle circostanze date da diarj d'allora e da romanzi d'oggi308, pure inaspettatamente, nel rimestìo delle ambizioni, colle quali preparavasi a fare suo figlio principe della Romagna, delle Marche e dell'Umbria, assicurare i dominj della Chiesa dai tirannelli che gli aveano usurpati, e introdurvi quiete e regolarità. Il Valentino, che sperò, anche dopo morto il padre, continuare coi delitti e le prodezze a fare l'Italia, fidando nelle truppe come un re moderno, circondò il conclave per imporre la sua volontà: ma il popolo sollevatosi lo cacciò; e i cardinali adunati presero accordo che il nuovo papa convocherebbe tra due anni un concilio. Pio III, de' Piccolomini di Siena, elettogli successore (1513), s'affrettò di concertarsi all'uopo colle potenze, nell'intento di riformare la Chiesa, incominciando (apertamente il professava) dalla curia romana. Ma dopo ventisette giorni morì e gli succedeva Giulio II genovese, che come cardinale Della Rovere era stato gran nemico di Alessandro VI, e durante il costui papato erasi sempre tenuto in armi e in difesa. Saliva papa, persuaso che la podestà pontifizia non potesse assodarsi se non assodandone il dominio temporale; laonde, se Sisto IV e Alessandro VI aveano mirato a fare grandi i loro figliuoli, esso volle far grande la Chiesa, in modo da stare arbitra fra la Spagna e Francia, e logorarle entrambe finchè le snidasse d'Italia. Fa arrestare il terribile Valentino, e l'obbliga a cedere alla Chiesa i paesi ch'egli ed altri n'aveano sottratti; ritoglie Bologna ai Bentivoglio, Perugia ai Baglioni; da Venezia si fa restituire Rimini, Ravenna, Faenza, Cervia; senza violenze procacciasi Urbino, e pone la Chiesa nella maggior forza che mai fosse. Alle città sottoposte lasciava gli antichi o concedea privilegi nuovi, formandone municipj indipendenti siccome nel Veneto; e dove corporazioni di nobili, di borghesi, d'artieri si teneano in reciproco rispetto. In Roma erano quotidiane le aggressioni e gli omicidj, e non rare le vere battaglie, e Giulio le terminò coll'imporre e volere il disarmo generale. La nobiltà romana stava divisa in guelfa e ghibellina, per lo più tenendo bandiera guelfa gli Orsini, i Savelli e il popolo; ghibellina i Colonna, i Conti, i prefetti di Vico. Ora convennero tutti in Campidoglio, e giurarono concordia, stabilendo che «in perpetua e memorosa dannazione et infamia, sia licito le immagini de' contravenienti dipingere sottosopra al modo de' perfidi e crudeli traditori, in faccia del Campidoglio et in altri luoghi pubblici dal popolo frequentati, in perpetua commemorazione e testificazione di loro scellerata309 vita»310. Battagliero come un prelato del Mille, e padre de' suoi soldati, violento di natura, non dissimula le passioni, pure non se ne lascia conturbare; ardito ai progetti, cauto nello scegliere i mezzi, paziente nelle traversie, intrepido nei pericoli, ricevuto il paese in pieno scompiglio, Giulio rimise al freno i baroni; compresse la plebe; eroe se l'armadura e la fierezza non disconvenissero al successore del pacifico pescatore di Galilea. Luigi XII scende a vendicare Carlo VIII, e Giulio riesce a respingere i Francesi, e difende anche una volta l'indipendenza italiana. Dicea voler «riunire la comune patria sotto un solo padrone, e questi debbe essere perpetuamente il pontefice romano. Ma mi affanna il pensiero che non potrò arrivarvi per i gravi anni che mi ritrovo; e mi strazia l'idea di non poter compiere tanto per la gloria d'Italia, quanto ne sente il mio cuore»311.
Ma quando il vediamo obbligato ad accampare egli stesso sotto al tiro del cannone, comprendiamo di versare in un'età troppo differente da quando una parola di Gregorio VII bastava a trarre i re umiliati, dal cuore della Sassonia, a baciare scalzi il suo piede nel castello di Canossa. E di Giulio non è male che non dicano il Guicciardini, il Budeo, Erasmo, Hutten312 e la turma seguace. Ma chi al pari di lui suntuoso nello spendere? Abbellisce la chiesa de' Santi Apostoli; fabbrica un palazzo presso San Pietro in Vincoli; ingrandisce il Museo, collocandovi capolavori e una stamperia; fa la via Giulia e la via de' Banchi colla fontana iscritta «Italia liberata», e colà la zecca ove si battono i giulj. Dell'antica ricchezza di fontane a Roma non restando che l'Acqua Vergine, egli ne conduce un'altra al giardino del Vaticano, e su quel colle mette le fondamenta della più vasta chiesa del mondo, abbattendo l'antica basilica piena di sacre memorie313 per eriger la nuova con inarrivabile magnificenza. Michelangelo presume a centomila scudi il valore della sua tomba, «Te ne darò dugentomila» dic'egli, e la vuole la più insigne opera del mondo; rifabbrica e munisce Civitavecchia ed Ostia, il castello ornandone con nobili pitture, come l'altro di Grottaferrata. Insomma, Carlo Fea potè sostenere che da lui più che da Leone X dovesse intitolarsi quel secolo.
Quanto all'ecclesiastico, non fece cardinali di case ricche, e pubblicò una famosa costituzione contro le elezioni simoniache. Nel conclave anch'egli avea preso impegno d'unire un concilio fra due anni, ma poichè altre occupazioni il distraevano, i cardinali Borgia, Carvajal e Briçonnet, stuzzicarono il re di Francia a raccoglierlo. Strano scambio di parti si offerse allora: il capo della Chiesa combattere colle armi mondane; il re di Francia torcer contro di lui le armi spirituali. Convocati a Orleans poi a Tours (1510) i prelati del suo regno, Luigi XII posò loro delle domande, a cui risposero che il papa non avea diritto di fare guerra a principi stranieri; che questi, per riparare un'ingiusta aggressione, poteano anche invadere per qualche tempo le terre della Chiesa, e ricusare obbedienza al papa nemico, per difendere i loro diritti temporali; che negli affari ecclesiastici bastava attenersi al vecchio gius canonico, e non fare caso delle censure pontifizie (settembre 1511).
Accordatisi anche con Massimiliano, imperatore eletto di Germania, i cardinali indissero un concilio a Pisa, come necessario a reprimere questo papa sfrenato, contro le cui censure protestavano anticipatamente. Si pensi in quali furie ne montò Giulio II! e manifestò al mondo che solo le contingenze politiche aveanlo impedito dal convocare il sinodo, ma l'aprirebbe a Roma il 1 aprile 1512. I prelati di Francia s'accorgeano d'essere meri stromenti alla politica ed animosità del re; pure, sempre ligi al potere, il secondavano, ma trovaronsi quasi soli allorchè a Pisa fu aperto il concilio ai 5 novembre, protestando non separarsi finchè non fosse compiuta la riforma della Chiesa nel capo e nelle membra, e ristabilita la pace in Europa. Intanto, calcando le orme del concilio di Basilea, cercavasi ripristinare nella Chiesa il governo aristocratico, e si confermava il decreto di Costanza che riconosceva superiore il concilio al papa.
Così, pur professando riverenza al pontefice, minacciavano di rinnovare il grande scisma. Ma scarso assenso trovavano. De' prelati di Germania nessuno venne, malgrado le istanze di Massimiliano, il quale mandava circolari querelando che dalla nazione germanica ogni anno si smungessero ingenti grosse somme per alimentare il lusso della Corte di Roma, e che il concilio avrebbe, come il potere, così la volontà di porvi rimedio. I più consideravano il sinodo come un conciliabolo; il popolo pisano accoglieva a fischi i prelati; i Fiorentini mal soffrivano di tenersi in paese quel seme di zizzania, onde si dovette trasferirlo a Milano. Qui pure l'opinione popolare lo avversava; se que' prelati entrassero in una chiesa, sospendeansi i sacri riti; ed essendo in quel tempo, alla battaglia di Ravenna, caduto prigioniero de' Francesi il cardinale De' Medici, che poi fu papa Leone X, gli uffiziali affollavansi a implorare gli assolvesse d'avere guerreggiato il papa, e lasciasse dare sepoltura ecclesiastica ai loro camerata, cascati combattendo.
Fra ciò le sorti della guerra mutavansi; l'esercito pontifizio, sostenuto dagli Svizzeri, snidava i Francesi dalla Romagna e gli assaliva in Lombardia, sicchè i prelati migrarono da Milano ad Asti, poi a Lione, e sebbene continuassero a intitolarsi concilio ecumenico, altro non fecero che domandare sussidj al clero francese.
Giulio II non solo avea rejetto ogni accordo col conciliabolo, ma depose e scomunicò i cardinali disobbedienti, e pose all'interdetto tutta la Francia, e particolarmente Lione. Poi al 10 maggio aperse il concilio in Laterano, ove convennero dapprincipio quindici cardinali e settantanove vescovi, cresciuti poi a cenventi, quasi tutti italiani. Le cinque sessioni tenutesi da vivo Giulio II, limitaronsi a riprovare il conciliabolo.
Leone X, appena succeduto papa, fece allestire appartamenti in Laterano volendo egli stesso assistere alle discussioni del concilio, e quando, al 6 aprile 1513, aperse quivi la sesta sessione, esortò sovratutto a rimettere pace fra i principi cristiani, e promise non chiuderlo finchè l'opera non fosse compiuta. Anche Luigi XII, che per astio contro Giulio II aveva accolto gli errabondi padri del conciliabolo di Pisa, ora «vinto dall'importunità di sua moglie e dalle rimostranze de' sudditi ch'essa suscitava d'ogni lato», cessò di favorirli, e aderì al sinodo lateranense, al quale i capi dello scisma vennero a chiedere perdono e l'ottennero.
Come in ogni concilio, così in questo, eravi una commissione per la riforma, e si propose espresso di correggere molti abusi, e ricondurre alla primitiva osservanza de' canoni314. Nell'apertura, frate Egidio Canisio da Viterbo, famoso predicatore, esclamava: «Chi può vedere senza lacrime la corruttela e i disordini del secolo malvagio nel quale viviamo, il mostruoso sregolamento che regna ne' costumi, l'ambizione, l'impudicizia, il libertinaggio, l'empietà trionfare nel luogo santo, da cui questi vizj dovrebbero essere sbanditi per sempre?»
Nella nona sessione, Antonio Pucci magnificava l'eccellenza della Chiesa, perchè maggiore apparisse il dovere di ridurla alla pristina purezza; e tutti, ma egli maggiormente deplorare che a ciò si opponessero le nimicizie de' principi cristiani: i quali rigurgitanti di denaro, di popolazione, d'armi, di vigore, di genio, non sapeano adoprarli che a sovvertire il mondo con ostilità reciproche, invasioni, correrie, saccheggi, incendj, uccisioni d'innumerevoli adoratori di Cristo. «O cuori affamati dei re, non mai satolli delle innocenti viscere de' popoli! o terra sitibonda, abbeverata da un rivo fumante di cristiano sangue! o cieca rabbia dei demonj, non calmata dagli innumerevoli micidj umani! Da vent'anni, cinquecentomila cristiani furono sgozzati di spada e ancor n'avete fame? e ancor sitite sangue?» Male ben peggiore dichiarava l'essersi provocata la collera di Dio con tante colpe; nè potere sopirsi la guerra esterna finchè non fosse tolta l'interiore de' vizj: «Vedete il secolo, vedete i chiostri, vedete il santuario; quali enormi abusi a correggere! Dalla casa di Dio bisogna cominciare, ma non fermarsi là»315.
I decreti di quel concilio furono tanto prudenti quanto rigorosi. Non elevare al sacerdozio se non persone d'età piena, di costumi esemplari, e studiose. Il concilio, risoluto a una riforma universale e a smorbare il campo del Signore e promuoverne la coltura, non dissimula che ogni giorno riceve lamentanze contro le estorsioni degli offiziali della curia romana, e perciò vuole si moderino le tasse, gli emolumenti, le regalie, i proventi, rimettendosi alle antiche consuetudini e alla istituzione primeva degli uffizj316.
Domandato venissero tolti agli Ordini mendicanti i privilegi accumulati nella bolla Mare Magnum, non si osò, ma fu imposto che neppure essi potessero predicare se non esaminati prima dal loro superiore con tutta coscienza, e trovati idonei per costumatezza, età, dottrina, probità, prudenza ed esemplarità317. Non si predichino superstizioni o rivelazioni; non si dipingano fatti immaginarj, ma l'evangelica verità e la sacra scrittura giusta la interpretazione dei dottori, approvata dalla Chiesa o dall'uso diuturno, senza aggiungere cosa contraria o dissonante318. I maestri non insegnino solo i classici, ma anche i precetti divini, gli articoli di fede, gli inni, i salmi e le vite dei santi.
Furono condannati i filosofi, che dicono l'anima esser mortale e una sola in tutti gli uomini, mentre Clemente V nel concilio di Vienna proferì che «l'anima è veramente ed essenzialmente la forma del corpo umano; che essa è immortale e molteplice secondo il numero de' corpi ne' quali è infusa». Pertanto il pontefice esortava i professori a non agitare vane quistioni sulla natura dell'anima, e dimostrarne l'immortalità anche secondo i principj scientifici; più della filosofia platonica, si studii la teologia; solo chi questa conosca entrerà nel sacerdozio, ove poi si deve vivere sobrj, casti, pii, astenendosi non solo dal male, ma dalle apparenze. La casa de' cardinali sarà un porto e un ospizio a tutti gli uomini dotti e probi, a' nobili e onesti poveri: semplice, frugale la loro tavola; non lusso nè avarizia; pochi servi e vigilati, castigandone i disordini, ricompensandone la morigeratezza. I sacerdoti in servizio non s'adoprino a ministeri abjetti. A quei che vengono a sollecitare impieghi non badino, bensì a quei che chiedono giustizia; sempre disposti a sostenere la causa del povero e dell'orfano. Hanno parenti bisognosi? È giusto soccorrerli, ma non a spese della Chiesa. I vescovi facciano eseguire gli ordini del concilio, e almeno ogni tre anni tengano sinodi diocesani per decidere de' casi di coscienza e delle controversie. Risiedano nella loro diocesi, o se ne affidarono l'amministrazione a persone probe, la visitino almeno ogni anno per riconoscerne i bisogni e sindacare i costumi del clero. Morendo non dimentichino che la Chiesa da essi amministrata ha diritto alla loro riconoscenza: e vogliano modesti funerali, giacchè il bene che lasciano appartiene ai poveri319.
Fra altri punti vi si trattò di uno, tanto nuovo quanto importante, la stampa; la forza più potente e lo stromento più formidabile, dopo la parola, che Dio ponesse a disposizione dell'uomo. I papi ne aveano favorito la diffusione, come dicemmo, e Alessandro VI (Inter multiplices) riconosceva «sommamente utile che quanto concerne le sane cognizioni e la sana morale sia messo in luce mediante caratteri e lettere che fissano la verità in modo da porla sotto gli occhi degli uomini più lontani nel tempo e nello spazio». Ma presto e letterati e principi si accorsero che, quanta edificazione, tanto pericolo potea venirne alla fede, al costume, all'onoratezza. Pertanto il concilio decretò: «La stampa, per favore divino perfezionatasi ai nostri giorni, è opportunissima a esercitare gl'intelletti, e formare eruditi, de' quali godiamo che abbondi la Chiesa. Pure udiamo lamentare che molti imprimano opere, contenenti errori e dogmi perniciosi, e ingiurie a persone anche elevate in dignità; di modo che i libri, invece di edificare, guastano e la fede e i costumi. Affine dunque che un'arte felicemente trovata a gloria di Dio, a incremento della fede ed a propagazione delle scienze utili, non divenga pietra d'inciampo ai fedeli, e volendo che essa prosperi tanto più, quanto più vigilanza vi si apporterà, stabiliamo che nessuna opera si pubblichi se prima non sia riveduta dal maestro del sacro palazzo o dai vescovi, che vi metteranno la propria firma gratuitamente e senza indugio». Erano ripari che una barbarie mascherata doveva poi spezzare, per lasciar le verità più venerabili come i diritti più sacri in balìa alle codarde speculazioni d'una ciurma vilissima, sicchè un pontefice dovesse esclamare: «Siam compresi d'orrore nel vedere da quali mostruose dottrine, anzi da quali portentosi errori ci troviamo inondati per quel diluvio di libri, d'opuscoli, di ogni genere scritti, la cui deplorabile eruzione sparse l'abominazione sulla faccia della terra»320.
Intanto Leone X a Bologna (1515) con Francesco I conchiudeva un concordato, che derogava molti privilegi che la Corte francese pretendeva nelle elezioni de' prelati secondo la prammatica sanzione; concordato che, come nuovo trionfo della Chiesa romana, subito venne approvato dal concilio Lateranese.
Parve dunque avere questo ottenuto il suo intento, difatto lo scisma, regolata l'obbedienza della Francia, promosse molte riforme, talchè si sciolse il 16 marzo 1517. Ma il cardinale De Vio generale de' Domenicani sentiva il turbine in aria, onde insisteva perchè i prelati non si separassero.
Chi non potrà negare questi fatti ripeterà quella poltrona frase de' nostri giorni, «Troppo tardi».
Hoc mens illa hominum, partim sortita Deorum,
Et pars ipsa Dei patitur se errore teneri?
Ut scelere iste latro pollutus Julius omni,
Cui velit occludat cælum, rursusque recludat
Cui velit, et possit momento quemque beatum
Efficere aut contra, quantum quiscumque bene egit,
Et vixit bene, si lubeat, detrudere possit
Ad stygias pœnas, et Averni Tartara ditis,
Et quod non habet ipse, aliis divendere cælum...
Et nunc ille vagus sparsit promissa per orbem
Qui cedem et furias, scelerataque castra sequantur
Se duce, ut his cælum pateat. Qua fraude, tot urbes
Et tot perdidit ille duces, tot millia morti
Tradidit, et pulsa induxit bella acria pace,
Tranquillumque diu discordibus induit armis
El scelere implevit mundum, fas omne nefasque
Miscuit ...
Naufraga direpti finxit matrimonia Petri
Vindice se bello asserere, atque ulciscier armis.