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DISCORSO XIV
Ad ammirare questa splendida Roma, questo magnifico pontefice, questo secolo d'oro, questa terra prediletta dalla natura334, venivano persone d'ogni paese; vi venivano dotti e curiosi, suntuosi e devoti; chi aspirava a benefizj o ad onorificenze; chi volesse venerare le reliquie di libere civiltà antiche, o quelle de' martiri; chi inebriarsi de' godimenti, od ottenere perdonanza di gravi peccati. Nessuno considerava compiti i suoi studj, se non li coronava con un viaggio in Italia, dove assisteva alla restaurazione delle arti per mezzo dell'imitazione, agli incrementi della scienza per opera del Mattioli, del Cesalpino, dell'Aldrovandi, esploratori della creazione materiale, del Fracastoro, del Falopio, dell'Eustachio, creatori dell'anatomia, fra i concittadini del Colombo, del Cabotto, di Americo Vespucci. E tutti, ma principalmente i Tedeschi, stupivano di quella libertà nella discussione, dello scherzo, del dubbio su punti, altrove venerati in silenzio; del vedere in vulgare insegnata la scienza, e fino tradotti i libri santi.
La Germania colla sua conversione aveva contribuito grandemente a consolidare il primato papale: indi col rivoltarsi contro Enrico IV aveva ajutato ad effettuare il robusto concetto di Gregorio VII. Ma poi, dal continuo mescolarsi di essa nelle vicende italiane era stata acuita la naturale antipatia delle istituzioni e delle nature germaniche contro le latine; e i nostri odiavano i Tedeschi come prepotenti, essi disprezzavano noi come fiacchi, e nella superiorità dell'ingegno non voleano riconoscere altro che furberia e mala fede.
La Germania strillava che tanto suo denaro fluisse a Roma335, e viepiù dacchè questa, postasi a capo della resistenza contro i Turchi, di nuove imposte e decime doveva gravare per imprese che poi non sempre si assumevano, non riuscivano a prospero fine. Enea Silvio Piccolomini, che fu poi papa, ebbe a vergare molte lettere in proposito scusando i papi per questa necessità di tener fronte al nemico comune: ma la dieta d'Augusta nel 1510 levò alte querele sopra le esigenze pontifizie, minacciando una generale rivolta contro il clero, se non vi si riparasse.
Lo spirito latino che riunisce, e il germanico che separa, aveano lottato incessantemente: e mentre quello avviava all'unità giuridica, politica, religiosa, attuata anche nell'istituzione dell'Impero, questo tendeva a separare, sia nei feudi, o nei Comuni, o nelle minute signorie; e già pensava farlo nella religione, reluttando alla primazia papale e all'accentramento romano. Che se l'opposizione religiosa in Italia era ironica, beffarda, scettica, negava ma sottometteasi; in Germania all'incontro procedea positiva, credente, collerica, e non proponevasi solo di restaurare, ma di demolire per rifabbricare. Ai nostri spettava il merito d'aver disonnato la ragione col pensiero, colla libertà dell'arte, collo studio dei classici; ma la Germania, dotata della curiosità scientifica, non del sentimento della bellezza formale, apponeva ai nostri di cercare il risorgimento letterario, non il filosofico; sprezzava l'arte italica, quanto gl'Italiani vilipendevano la scienza tedesca: infelice divorzio, per cui questa inarridì a segno da parere destituita d'ogni applicazione vitale, mentre la letteratura nostra riducevasi a un trastullo, a uno svago dello spirito. Nè aveano torto i Tedeschi quando la appuntavano di scostumata, e Puyherbault diceva336: «A che buoni cotesti scribacchianti d'Italia? Ad alimentare il vizio e la mollezza di cortigiani azzimati e di donne lascive; a stimolare le voluttà, infiammare i sensi cancellare dalle anime quanto v'ha di virile. Di molto siamo debitori agli Italiani, ma da loro togliemmo anche troppe cose deplorabili. I costumi di colà sentono d'ambra e di profumo; le anime vi sono ammollite come i corpi; i libri loro nulla contengono di gagliardo, nulla di degno e potente, e piacesse a Dio avessero tenute per sè le opere loro e i loro profumi! chi non conosce Giovan Bocaccio, Angelo Poliziano, il Poggio, tutti pagani piuttosto che cristiani? A Roma Rabelais immaginò il suo Pantagruele, vera peste de' mortali. Che fa costui? Qual vita mena? Tutto il giorno a bere, fare all'amore, socratizzare; trae al fiuto delle cucine, lorda d'infami scritti la miserabile sua carta, vomita un veleno che lontano si diffonde in ogni paese, sparge maldicenze e ingiurie su ogni ordine di persone, calunnia i buoni, dilania i savj; e il santo padre riceve alla sua tavola cotesto sconcio, cotesto pubblico nemico, schiuma del genere umano, tanto ricco di facondia quanto scarso di senno»337.
E a Roma erano venuti a scuola quei che in Germania restaurarono gli studj classici; Rodolfo Agricola di Friesland, professore ad Eidelberga, che volle finir sua vita in un convento di Francescani; Lodovico Vives, vantato per acuto giudizio, come il Buddeo per ingegno. Ma molti vi moveano guerra arguta all'ignoranza de' monaci, o fossero umanisti come Erasmo, o cavalieri come Hutten.
Questo Ulrico di Hutten, tutto entusiasmo pel suo paese, fece suoi studj a Pavia; poi messosi soldato, qui scese con Massimiliano imperatore, fra le orde che passavano le Alpi ustolando agli ori de' nostri palazzi, agli argenti delle nostre chiese. Poeta e guerriero, portava sopra del morione l'alloro, di cui l'imperatore avealo donato con seicento zecchini; e indispettivasi contro quest'Italia, che ricusava d'essere tutta dell'imperatore tedesco. Mosso con questo per distruggere Venezia, lo aizzava contro quel popolo di rane, cui bersagliò in due poesie Marcus e De piscatura Venetorum, oltre una Epistola Italiæ ad Maximilianum. In un epigramma introduce l'Italia a dire ad Apollo: «Tre mi fanno la corte; uno pien di mala fede, l'altro di vino, il terzo d'orgoglio. Poichè m'è forza sottomettermi, dimmi qual giogo sia meno grave. - Il veneziano è perfido sempre, rispose Apollo: sempre orgoglioso il francese; il tedesco non è sempre ubriaco: a te la scelta».
Combattendo, cantando, amorazzando scorre l'Italia, cogliendo un morbo che gli costò spasimi e denaro. Fra Roma e Viterbo assalito da sei Francesi, li pose tutti in fuga benchè ferito, sul che scrisse un epigramma In quinque Gallos a se profligatos; sentendo a Roma beffare la Germania da sette giovani, li sfida tutti; fa un trattato storico sulla continua reluttanza dei papi verso gli Imperatori: nella Trinità romana per rendere odiosa la Corte pontifizia, sostiene che da Roma si riportano tre cose; mala coscienza, stomaco guastato, borsa smunta; che tre cose ivi non si credono, l'immortalità dell'anima, la risurrezione dei morti, l'inferno; che di tre cose vi si traffica, grazia di Cristo, dignità ecclesiastiche e donne.
Attaccò lite con Erasmo da Rotterdam, che rispose Spongia Erasmi adversus aspergines Hutteni: fece una Oratio ad Christum pro Julio II ligure pontifice; scrisse pure gli Apophtegmata Vadisci et Pasquilli de depravato ecclesiæ statu; ripubblicò il trattato del Valla contro la donazione di Costantino, e più tardi la bolla di Leone X contro Lutero con glosse interlineari e marginali mettendola in ridicolo, e fu detto il Demostene tedesco per le sue filippiche contro il papa. Più si divulgarono le sue Epistolæ obscurorum virorum, ove imprestava il linguaggio dell'ignoranza e i sofismi della malizia ai monaci con tant'arte, che molti non s'accorsero fosse ironia.
Giulio II, pontefice armato, non gli parve solo un'anomalia, ma un tiranno, un sarmato di folta barba, di capelli arruffati, di occhio fiero, di labbra incollerite; invoca un Bruto che ne liberi Roma338; ogni città che il papa prende, è un usurpazione ai diritti di Cesare; a Cesare spetta la dotta Bologna; a Cesare la città de' sette colli; a Cesare Parma e Piacenza, dove i suoi antecessori resero giustizia; a Cesare il governo temporale, lo spirituale a Cristo, a' suoi apostoli ed ai predicanti evangelici, che annunziano la dottrina di Cristo339. A Roma, centro del sapere e delle arti belle, asilo de' profughi di Grecia, palestra de' sapienti di tutto il mondo, ove dipingeasi la Sistina, ove adunavansi la biblioteca e il museo vaticano, non iscorge che una folata d'avvocati, di giuristi, di procuratori, di bollisti, che succhiano il sangue della Germania340: fra tanti cardinali e prelati non vede una figura tedesca, bensì fra' mulattieri, portacqua, mozzi di stalla: attorno alla fabbrica di San Pietro non trova a lavorare che due operaj, un de' quali zoppo341. Tant'è vero che ognun vede quel solo che vuol vedere. Ma egli se ne indigna, ed esclama: «Spezziamo i nostri ceppi, gettiamo via il costoro giogo», e la parola collerica, formulata in bei versi, tuona nella Germania, che risponde: «Spezziamo i ferri, sottraiamo il collo all'Italia, degenere, avvilita»342 e gloriandosi di tale guerra, egli adotta per motto Lo osai (Jch hab's gewagt).
Di maggiore attenzione vuolsi onorare Erasmo di Rotterdam (1467-1536). Talento universale; non devoto ad alcuna teorica filosofica, pure di spirito filosofico, a questo accoppiava lo spirito comico, che adoprò a osteggiare di tutta forza la scolastica, ancora dominante in Germania, in contraddizione dell'altro insigne filologo Reuclin343 volendo fondare una teologia ampia e illuminata. Coll'edizione de' Padri e della Bibbia e coi commenti a questa diede impulso all'interpretazione razionale delle sante scritture secondo il senso letterale; e se, per fare onta ai teologanti, dava importanza alla erudizione, questa diresse a intento pratico con libera indagine.
Più solita lode gli si dà di buon umanista. Talmente invaghito de' classici, che non avrebbe voluto altro parlare che il latino e il greco, trovando barbari tutti gli altri linguaggi; in Italia si astenne dall'imparare nemmanco le frasi più famigliari, tanto che ne corse pericolo della vita; disapprovava che ai fanciulli s'insegnasse il francese, idioma barbaro e strano, che scrive diverso da quel che pronunzia; rinunciò una cura in Inghilterra per non parlare inglese; neppure mai capì la favella di Basilea, dove fece sì lunga dimora.
A tacere le edizioni e i commenti di tanti autori, fra le opere precettive scrisse il Ciceroniano, per ribattere que' saccenti italiani, che non tolleravano nessuna parola se non usata da Cicerone; e mette in caricatura un di costoro, che da sett'anni non avea letto altro che Cicerone; nel suo studio teneva unicamente il busto di Cicerone; sigillava coll'effigie di Cicerone; in quattro enormi volumi avea registrate tutte le parole adoprate da Cicerone, tutte le diverse accettazioni di ciascuna, tutti i piedi e le cadenze con cui cominciano e finiscono i periodi di Cicerone; conchiude col lepido racconto dell'iniziazione d'un cittadino romano in un circolo di ciceroniani a Roma344.
Enumerando i tanti dotti che conobbe in ogni parte di quest'Italia, dove Lutero non imbatteva che ignoranti e briaconi, dice avere, davanti a Giulio II, inteso un oratore fare una predica, in cui nominava Giove ottimo massimo che tutto muove colle sopraciglia, e paragonava il papa a Decio, a Curzio, ad altri che per la patria furono prodighi della vita; il meno che parlò fu della morte di Cristo, e le parole e i sentimenti applicò solo sull'autorità di Cicerone, e l'uditorio ammirò costui d'avere parlato così romanamente e ciceronianamente345.
Già illustre in Germania, in Francia, in Inghilterra, Erasmo era venuto in Italia nel 1506: a Torino ottenne la laurea dottorale; rimase un anno a Bologna, dove ha potuto conoscere Alessandro Farnese, Ottone Tuchses, Stanislao Oslo, Cristoforo Madruzzi, Ugo Buoncompagni, scolari circa quel tempo, e dappoi cardinali e l'ultimo anche papa; cacciatone dalla peste, vide Padova, piena di tanti eletti ingegni, che voleva intitolarla l'Italia dell'Italia; e nella cui Università si usava piena licenza nell'interpretare Aristotele e i suoi commentatori. Eccitava Ambrogio Leone professore a Napoli a pubblicare la sua grand'opera contro Averroè346.
Alle bellezze del nostro cielo, all'ubertà del suolo, alla squisitezza delle arti belle non sentesi preso; dell'entusiasmo, dei dotti non solo, ma dell'intera città quando si scoperse il Laocoonte, neppure un motto egli fa in lettere, dove avverte attento la quantità fallata d'una sillaba, o l'interpretazione mal côlta d'un versetto. Pure onorava i nostri ingegni, sino a fare sinonimo italiano e dotto: mihi Italus est quisquis probe doctus est, etiam si apud Ibernas347. Di qua delle Alpi riconosceva già infranto il giogo dei Tomisti, degli Scotisti, degli Aristotelici; che se nelle moltitudini e nell'insegnamento ufficiale abbondavano pregiudizj, errori, superstizioni, era concesso combatterli sul serio o voltarli in beffa.
E a quest'ultimo partito s'appigliò Erasmo, con quel genio burlevole che è tanto micidiale alla verità, quanto opportuno per demolire. E come i beffardi, poco bada alla verità.
Egli accerta che a Roma pretesero dimostrargli, non corra divario tra l'anima delle bestie e degli uomini; avere udito colle proprie orecchie bestemmiare Cristo impunemente, e detti orrendi pronunziarsi fino da ministri della reggia pontificia, e proprio nella messa e ad alta voce348: accuse generiche, e che il buon senso repudia.
Ma mentre credea trovare qui la tranquilla sede delle arti e della dottrina, s'imbattè nella guerra recata dalla turpe lega di Cambrai; Bologna assediata da Giulio II che poi vi fa ingresso trionfale; pel quale anche in Roma festeggiasi il marziale pontefice. A glorie sì poco dicevoli dava poi Erasmo risoluta disapprovazione negli Adagia, con eloquenza risentita esponendo i danni della guerra, e viepeggio tra Cristiani, e la stoltezza degli uomini che affiggono merito all'uccidere e farsi uccidere; e vi raffaccia Leone X, agnello a nuocere, leone contro gli empj, e tutto occupato a rimettere in concordia i principi349. A Roma lo accolsero i cardinali, principalmente quelli di San Giorgio e di Viterbo, e Matteo Langio vescovo d'Albano, e il De Medici che presto divenne Leone X; il cardinale Campeggi gli regalò un anello con diamanti, pel quale Erasmo gli scriveva: «Il fuoco dell'oro mi sarà sempre simbolo della tua presenza cardinalizia, e la gratissima luce del diamante mi rappresenterà sempre la gloria del tuo nome», Il cardinale Domenico Grimani, che aveva una biblioteca di ottomila volumi350, lo considerava come un luminare della Chiesa di Cristo, e non che prodigargli cortesie, pareva prendersi soggezione del povero frate; gli esaltava i begli orizzonti nostri, il dolce clima; e che il suo posto doveva essere fra i grecisti, i poeti, i pittori che attorniavano Giulio II.
Roma, che affaticavasi a rigenerare gli spiriti mediante la forma, nel marmo scolpito ammirava la natura idealizzata; Erasmo, come Hutten, come Lutero e gli altri tedeschi, cercava Dio nell'uomo, non nelle opere d'arte; sapeagli d'idolatria l'ammirazione plastica, e che nocesse al movimento spiritualista il volgersi al marmo anzichè alla scrittura.
Questi disdegni erano rimbalzati dagli Italiani, che consideravano per barbari que' Tedeschi, i quali non faceano dipinture sì belle, non verseggiavano così squisito, non usavano il latino ciceroniano. Pure Giulio II offrì ad Erasmo una carica in corte; ed egli in fatti desiderava pigliare stanza nella gran città, per godervi i vantaggi della biblioteca papale, mentre «fra noi (dicea) si penuria di libri sacri greci: la stamperia Aldina non ci diede quasi altro che autori profani: a Roma i buoni studj han non solo tranquillità, ma anche onorificenze»351.
Malgrado di ciò; malgrado che si deliziasse di que' facili costumi, e a Fausto Anderlini descrivesse le voluttà, «per le quali (diceva) non gli rincrescerebbe rimanere dieci anni fuori del tetto paterno»352, fra breve mosse per l'Inghilterra, traversando il Comasco, le Alpi Retiche e Coira. Lungo il viaggio sbozzò il suo Elogio della Pazzia, dove schizza veleno contro gli ecclesiastici; e, quel che parrà strano a chi non intende i tempi, lo finì in casa di Tommaso Moro gran cancelliere d'Inghilterra, il quale perì martire del cattolicismo, e sotto la protezione del famoso cardinale Wolsey, del vescovo di Rochester, di altri prelati, irremovibili cattolici.
In quell'Elogio pajono oggi triviali, a forza d'essere ripetuti, ma allora sonavano arguti e nuovi i motti contro il traffico delle indulgenze, le espiazioni per l'anime purganti, l'efficacia di certe formole, il culto di certi santi, ove si trasformò Polifemo in Cristoforo, Ippolito o Ercole in Giorgio: burlava quelli che, se han visto un san Cristoforo, credono che quel giorno non morranno di mala morte; che torneranno salvi dalla guerra se recitino certe preci all'effigie di santa Barbara; che accendono candelette a sant'Erasmo per far guadagni. Così berteggia le insulse quistioni de' teologi, le sottili loro distinzioni, le dispute di parole, l'intolleranza d'ogni dissenso, quasichè nè il battesimo, nè l'evangelo, nè Pietro e Paolo, o Girolamo e Agostino, nè l'aristotelicissimo Tommaso renda cristiano, bensì l'assenso di costoro, i quali altrimenti sentenziano una proposizione di scandalosa, o poco riverenziale, o eretica. E per tali sofisterie si disistimano; han professata l'apostolica carità, e si odiano pel differente colore della tonaca, o il differente modo di cingerla. E qui sul vario vestire e sull'interminabile nomenclatura degli Ordini, sulle salmodie, sui digiuni, sul sudiciume, sulla moltiplicità delle regole, e il predicare a sottigliezze o a sillogismi, e con mescolanze strane, egli s'abbandona a celie tanto facili quanto insulse. Meglio attacca quelli che, sulla fiducia delle indulgenze, addormentano la coscienza, e quasi con l'oriuolo misurano la durata del purgatorio, calcolandone a minuto i secoli, gli anni, i giorni. Non v'è mercante, o soldato, o giudice che, rubati migliaja di scudi, coll'offrirne uno non creda tergere «ogni labe dell'alma ed ogni ruga».
Rincalza questo bersagliare ne' Colloquj. Dall'Eco fa dichiarare i monaci sciocchi (monachos-αχος), che cercano il sacerdozio per l'ozio; beffa i Domenicani di intitolarsi cherubici e i Francescani serafici, e contro questi si scaglia irreposatamente. Nelle Esequie Francescane favoleggia la loro storia, con poca riverenza al fondatore dell'Ordine e alle sue stimmate, e alla liberazione di tante anime dal purgatorio nel suo giorno, e veemente inveisce contro l'avarizia e ricchezza di que' suoi, i più mendichi fra' mendicanti. E quando uno degli interlocutori domanda all'altro se non s'accôrse che taluni ridessero a quelle scene, risponde, s'accôrse, ma supponeva fossero «di quegli eretici, di cui oggi formicola il mondo»353. Nel Pellegrinaggio volta in canzone le visite ai santuarj non solo, ma il culto de' santi e di Maria. Nei Funerali atteggia le esequie di un soldato, arricchito con mezzi illeciti, che in punto di morte chiama i cinque Ordini mendicanti e il curato, i quali s'abbaruffano finchè rimangano soli due Ordini, dai quali il morto viene sepolto solennissimamente, dopo avere obbligato la moglie e i figliuoli a fare i voti, e dividere l'immenso retaggio tra Francescani e Domenicani. Nell'Ictiofagia un penitente non vuole gustare carne nè ova, sebbene gliene prescriva il medico, e intanto non si fa scrupolo di eludere un creditore con falso giuramento. Nell'Inquisizione giunge fino ad asserire che pel cristiano basta il credere al simbolo apostolico, al quale molti non credono a Roma; e a chi abbia questa fede, la scomunica non reca pregiudizio, quand'anche mangiasse diverse carni al venerdì. Nel Naufragio, mentre sulla nave tempestata tutti urlano di terrore, e si votano a quanti han santi le litanie, un solo non prega che Dio, non attende salute che da Dio. E negli Adagia e nel Ciceroniano e nella Bibbia greca non v'è male che non dica contro i monaci, come rappresentanti l'ignoranza, la ghiottornia, il libertinaggio; ed empì la letteratura e il mondo di aneddoti bizzarri contro queste degenerate società, i quali accolti senza disamina, ne crebbero lo scredito, e li posero senz'armi e senza fiducia di fronte ai prossimi attacchi.
Gœtz di Berlichingen, nel quale Göthe personeggiò il medioevo cadente, con cuor d'acciaio e mano di ferro difende contro il diritto nuovo la feudalità, combattuta dall'esercito imperiale e dall'insurrezione de' villani, e si crede ancor potente a fiaccarlo. Ma come vede in man di suo figlio un libro, questo prodotto della neonata stampa lo getta nella disperazione, sentendo perito l'antico mondo da che un figliuolo di barone preferisce alla spada il libro, forza nuova che tutto invaderà. E questa forza, benedetta e cullata dai papi, or si voltava contro di loro efficacissima. Perocchè, se scherzi di petulanza eguale a quella d'Erasmo erano stati usati dai nostri novellieri e satirici, i costoro libri sfogliavansi da pochi, mentre adesso vi veniva ausiliaria la stampa, e dei Colloquj si diffusero ventiquattromila esemplari, milleottocento dell'Elogio della Pazzia la prima volta; poi ben trentuna edizione e i graziosi intagli dell'Holbein lo resero popolare.
Per conseguenza in Erasmo personificavasi il nemico de' frati, e a lui si dirizzavano quanti aneddoti e fatti comparissero in proposito, come testè faceasi al Gioberti di quelli contro Gesuiti. Il giureconsulto milanese Andrea Alciato, che, essendo professore a Bourges, aveva avuto scolaro Calvino, e che, al leggere la Diatriba di Lutero contro la Sorbona smascellavasi dalle risa, asserendo che nulla di più arguto erasi inteso da Aristofane in poi, al Mallio, che mostrava intenzione di farsi francescano, diresse una lettera ove snudava gli abusi della vita monastica, con libertà non minore di Erasmo. Francesco Calvi di Menaggio, che col nome di Minicius vendeva libri a Pavia, e che anfanò per diffondervi quelli di Lutero, spedì subito quella lettera ad Erasmo, e pensava farla pubblicare dal Frobenio di Basilea, editore delle opere eretiche. Del che fra corrucciato e scherzoso, l'Alciato gli scriveva: «Ah tristo di Calvi! ah capital nemico mio se ciò farai! Che mi varranno le veglie e i tanti studj? Se tu mi propini questo veleno, vorrei piuttosto esser morto. Lutero, i Piccardi, gli Ussiti e gli altri nomi d'eretici non saranno così infami come il mio, se tanto avvenga. Non sai, o fingi non sapere la potenza di questi cucullati, l'arabbattarsi, il declamar dal pulpito, l'esecrazione fra il popolo, le detestazioni e gl'infiniti guaj che (gli Dei me ne scampino) ricadran sul mio capo? Intenterò processo d'ingiuria, prima a te come corifeo, poi ad Erasmo, poi al Frobenio; invocherò uomini e Dei; moverò ogni pietra per iscagionar me, e imputare voi soli»354.
Erasmo feriva anche i vescovi, che, dimentichi del nome, affidano il gregge di Cristo a frati; e i papi, che «tanto avrebbero a operare se pensassero ad esser vicarj di Cristo, cioè emularne la povertà, gli stenti, la dottrina, la croce, lo sprezzo della vita; invece non si dà viver più soave e men cruccioso del loro: e credono aver soddisfatto a Cristo quando, in mezzo a scenico apparato e cerimonie fastosissime, coi titoli di beatitudine, di riverenza, di santità, trinciano benedizioni o scagliano anatemi. Padri santissimi, a nessuno mostransi tanto rigorosi come a chi intacca il patrimonio di san Pietro: con tal nome chiamano i campi, le borgate, i dazj, le giurisdizioni, e per esse guerreggiano, spargono il sangue; e mentre la Chiesa fu fondata, confermata, cresciuta col sangue, or la sostengono col ferro».
Ci fu chi rispose ad Erasmo: la Sorbona lo imputò d'eretico per molte proposizioni, ed egli se ne difese con un'Apologia ai teologi di Lovanio, dicendo che lo scopo de' Colloquj era di porgere le formole colle quali dir latinamente che che si fosse; ed essendo dialoghi, bisognava serbasse il costume della persona introdotta. Venendo poi ai particolari, cerca scagionarsi di proposizioni, in verità più che ardite; per esempio, che la confessione sia un trovato de' caporioni della Chiesa; che sia indifferente il mangiar qualsiasi cibo; e del celiare sulle indulgenze, e più sui voti, e deridere l'intercessione di Maria e de' santi. Aveva anche a contrapporvi altri passi, ove lodava tutto ciò: riflette che il criticare gli abusi equivale ad approvar l'uso: dice d'aver ammonito contro le false vocazioni, non contro l'entrar monaca355; nella Pietà puerile insegnato a ben udire la messa, ben confessarsi; aver esortato a conservare le usanze de' maggiori, quand'anche men lodevoli, e fin tollerare la tirannide, piuttosto che avventarsi nelle rivoluzioni356. Non tace che certi punti non erano ancora stati chiaramente definiti dalla bolla di Leon X, e molti si discuteano liberamente prima dell'editto di Carlo V.
Nell'edizione del Nuovo Testamento diede esempio di sagace critica, di grand'accuratezza nel confronto de' manuscritti; tanto più che la famosa Bibbia Complutense era ancora in lavoro. Certo restò lontano dalla critica odierna, dal culto letterale delle Scritture e dall'esegesi audace che discute l'autenticità dei testi sacri, ma osava impugnare l'impeccabilità della vulgata, sicchè sgomentò molti timorati, e trovò gran contraddittori. Poi nelle note e nelle parafrasi cercò il senso e lo spirito del libro santo, e desiderava fosse diffuso. «Il sole illumina tutto il mondo. Perchè non altrettanto dee fare la dottrina di Cristo? Io non la penso come quelli che non vorrebbero che la sacra scrittura in vulgare si leggesse da' privati; quasi gl'insegnamenti di Cristo fossero tanto astrusi da rimanerne solo capaci pochi teologi; o quasi la sicurezza delle scritture dipendesse dall'ignorarle gli uomini. Celino i re al popolo i misteri de' lor gabinetti; ma Cristo volle che i suoi misteri ricevessero la maggior pubblicità. Vorrei vedere anche le femminelle leggere l'evangelo e l'epistole di san Paolo, e che la Scrittura venisse tradotta in tutte le lingue, e corresse nelle mani non solo di Scozzesi e Irlandesi, ma fin di Turchi e Saracini»357.
Ebbene, tutto ciò nol toglieva dalla grazia dei papi. Il cardinale De' Medici l'avea sempre difeso quando i prelati sentivano punti e sè e la religione: e mostrava lettere dove lodava la scienza e la virtù di ciascuno. E quando divenne papa, Erasmo scriveva, da lui sperare restituiti i tre precipui beni dell'umanità: la pietà cristiana, le ottime lettere, la concordia del mondo cristiano, fonte e generatrice della pietà e dell'erudizione358. Che se Leon X non gli attenne tutto quello che aveagli fatto intravedere da cardinale, raccomandollo a Enrico VIII, scrivendo che l'amore innato delle lettere eragli cresciuto cogli anni, perchè osservò che quei che le coltivano sono attaccati di cuore ai dogmi della fede, e ch'esse formano l'ornamento e la gloria della Chiesa cristiana (10 luglio 1515). Di più fece coll'accettarne la dedica della tradizione del Nuovo Testamento359, col che lo pose a schermo dalle accuse d'eterodossia, appostegli da Stunica, da Hoogstraten, da Lee, da Carenza, da Egmont, da altri. Adriano VI gli offrì un decanato: Clemente VII gli fece altre esibizioni e il dono di ducento fiorini: Paolo III pensò elevarlo cardinale360; e ben lo meritava egli se si badasse non al suo pensare e scrivere, bensì all'esser egli promotore benemerito del gusto classico e degli studj umanistici, benchè al severo gusto de' nostri il suo latino paresse di lega men pura361.
Il pio e dotto vescovo Sadoleto fin dal 1524 gli scriveva ringraziandolo di avere scritto lettere piene di pietà e d'osservanza verso un papa veramente sommo ed ottimo, la cui liberalità verso di lui sarebbe ancor più grande se non si trovasse alle strette di tempi difficilissimi e fra ingenti spese, ma cercherà luogo d'onorarlo e ingrandirlo. Si congratula de' libri suoi, pei quali vivrà presso i posteri. E poichè scriveva che lui già sul declino (jam deficientem) Dio solo potea beare, ravvisava in ciò la pietà sua, ma non potea credere in calo l'uomo, di cui i secoli celebrerebbero la memoria; frutto che non è da sprezzare, sebben inferiore ai premj celesti362. Più tardi, lodandolo, l'esortava a cessar dalle contese, e ommettere le cose che, sebbene non aliene dalla vera pietà, contraddicono però alle inveterate opinioni popolari. Entrambi piuttosto (soggiungeva) per quanto valiamo, ajutiam virilmente l'afflitta fede cristiana363. E altrove torna pregarlo a desistere dalle contumelie, ed ammonire con affetto paterno, nè opporsi a certi popolari culti d'immagini e di santi, che vengono da pietà, benchè sia meglio fissar il pensiero in Cristo solo. E gli ricorda d'aver un tempo animato il papa a concedergli un insigne sacerdozio in Germania, e questi l'avrebbe fatto se non l'avessero distolto calunnie: e d'aver dissuaso lo Stunica dallo scriver contro di esso364.
Fatto è che ogni scritto di Erasmo era un avvenimento; e gli procacciava come grandi amici, così grandi avversarj; ed egli ingrazianivasi prelati e principi colle cortigianerie, e col metter sempre una frase che medicasse la audace o pungente. Era re dell'ironia365, ma per usarla contro un privato si richiede o il coraggio del virtuoso, o la codardia del calunniatore. Al carattere di Erasmo si affà meglio la satira generale, a cui nessuno può contraddire, e da cui nessuno in particolare rimarrà ferito; e dove non si potrà snudare la menzogna, perchè è generica l'accusa. Taccerà d'ignoranza i frati di Germania, stando in Inghilterra; di scostumatezza i frati d'Italia, dopo che d'Italia uscì; questi ingiurierà in generale, ma lodando ciascuno in particolare; dirà male de' papi, ma benissimo di Leon X e d'Adriano VI. Quando levò rumore il Dialogo tra Giulio II e san Pietro alle porte del paradiso, ove quello è accusato di briacone, omicida, scellerato, simoniaco, venefico, spergiuro, rapace, lascivo, Erasmo protestò non esserne l'autore366. A ciò è condotto chi sagrifica la verità all'opinione.
In effetto, egli prende i sette peccati capitali, e gli affigge come abituali e comuni a chiunque porta cocolla, e sbizzarrisce in istorielle, motti, quolibetti, in quegli aneddoti che il ricco, il dotto ed il patrizio vulgo accetta senza esame, ripete senza discrezione, e che il tempo tramanda alla non meno futile posterità.
Così, intanto che a Roma erano in favore i retorici, quando di tutt'altro era bisogno, i teologi in Germania erano messi in burla da Erasmo367. Ne' cui scritti e negli atti appare quanta fosse l'oscillazione degli spiriti prima del concilio di Trento, e quanta la confidenza nella ragione individuale. Erasmo poi professava non esser disposto a morire martire della verità; e che, indotto in tentazione, crede avrebbe imitato san Pietro. E in realtà egli non va catalogato fra gli eresiarchi, come volle taluno; bensì fra que' malcontenti, che non si prefiggono di distruggere, ma scalzano, danno impaccio al sistema prevalente, senza averne uno da francamente sostituire. Abborrendo dalla lotta, pareagli che anche il trionfo della verità saria compro troppo caro col sangue; confida sempre ne' progressi della civiltà, e come tanti altri, opina che la rivoluzione possa compiersi sulla carta o nel gabinetto, senza che se ne intrometta il popolo; - il popolo, che invece n'è il solo attore effettivo.
Qui montre avec tant de clarté
Si pur qu'un soupir monte à Dieu
Plus librement qu'en aucun lieu
Nam quoties Romæ est Julius, illa perit.
Vedi Klag und Vermahnung gegen die übermässige, unchricstliche Gewalt des Pabst in Rom.
Die Bullen geben, sprechen Recht
Dero jeder hat sein G'sind und Knecht
Von Teutschen unser Schweiss und Blut;
Il concilio! fremereste d'orrore se sapeste cosa proponeva.
Giulio. Fremo ancora di rabbia. Questi scellerati voleano ricondur la Chiesa nostra, così florida e opulenta, ai giorni di sua miseria e delle frugali virtù. Voleano che i nostri cardinali, potenti e doviziosi come principi, ritornassero gli umili e poveri diaconi d'un tempo: che si spogliassero i vescovi dei loro palazzi, del fasto, delle carrozze, e si mettesse sul trono papale non il più ricco, ma il più degno.
San Pietro. Questi scellerati parlavano come Quello di cui tu ti chiami vicario. Ma quai sono i nemici che tu volevi cacciar d'Italia?
San Pietro. Che bestie sono coteste che chiami barbari?
San Pietro. Uomini dunque; ma non cristiani.
Giulio. Anche cristiani; ma cos'importa?
San Pietro. E perchè li chiami barbari?
Giulio. È il nome che noi italiani diamo agli stranieri.
San Pietro. Eppure Cristo è morto per tutti gli uomini; la sua croce gli ha resi tutti eguali.
Giulio. E' non è morto pei Francesi, che disprezzano i nostri fulmini, e ridonsi delle nostre bolle. Passi per gli Spagnuoli, che ci adorano in ginocchio, come noi mandiamo ad essi vasi d'oro, stocchi benedetti, bolle, ed essi ci ripagano con oro e soldati.
San Pietro. Il tuo regno è di Satana, non di Cristo. Chi si fa vicario del mio maestro, dee attendere solo a seguire gli esempj di esso.
Giulio. Nulla è più nobile che veder ingrandita la Chiesa. San Pietro. La Chiesa si compone di tutti i cristiani; e tu la scomponi soffiando guerre e discordie.
Giulio. Che parli di popoli cristiani? noi chiamiam chiesa le basiliche, i preti, e principalmente la Corte di Roma, e me pel primo, che son capo della Chiesa.....
Segue un bizzarro confronto fra la Chiesa umile e povera de' tempi di san Pietro, e la suntuosa e potente di Giulio; quello si gloria d'aver guadagnato migliaja d'anime a Cristo; questo d'aver arricchito la Chiesa. San Pietro lo manda a fabbricarsi con quelle ricchezze un paradiso, chè in questo e' nol riceverà. Giulio minaccia por l'assedio al paradiso, ed entrarvi di forza coi 60 mila uomini che perirono nelle sue guerre; onde alfine san Pietro dice non meravigliarsi se, con tali uomini a capo, sì pochi or giungano al paradiso.
Ad. Mueller, Vita di Erasmo di Rotterdam. Amburgo 1828.
Lieberkuen, De Erasmi ingenio et doctrina. Jena 1860.