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DISCORSO XVIII
ADRIANO VI PAPA RIFORMATORE. CLEMENTE VII. SACCO DI ROMA. PRELUDJ D'UN CONCILIO.
Il figlio d'un Florent, povero operajo d'Utrecht, meritò la predilezione de' maestri perchè mostrava inclinazione allo studio; ottenuto un posto gratuito in un collegio di Lovanio, vi apprese filosofia, matematica, diritto canonico, latino e greco, oltre il tedesco. V'aggiungeva tanta pietà, che non usciva mai di scuola senza entrare in una chiesa, e se imbattesse un povero, dividea con esso la parca cibaria. Acchiocciolatosi in una cameretta a tetto, fredda, malsana, la notte andava a leggere al lume de' pubblici lampioni, finchè Margherita d'Austria, vedova di Carlo il Temerario, allora governatrice dei Paesi Bassi, avutone contezza, gli mandò legna e trecento fiorini per comprare libri, e in appresso gli conferì una parrocchia, poi un canonicato a San Pietro di Lovanio. In questo viveva egli ritiratissimo, fra autori classici ed ecclesiastici e con qualche camerata; non lodato, neppure troppo gradito pe' suoi modi da grossolano brabanzone; ma ben contento quando dal vivere gli avanzasse tanto da soccorrere alcun poveretto. Fatto decano, si applicò a riformare quel capitolo; oculato nel conferire i benefizj; durante il pasto frugale faceva leggere le sante scritture.
Stampò in quel tempo Commentarium de rebus theologicis in quatuor sententiarum questiones508, e il suo nome giunse fino all'imperatore Massimiliano, che lo scelse per insegnar francese, spagnuolo e latino a suo nipote. Questo divenne, col nome di Carlo V, imperatore di Germania e re di Spagna, e poichè tanta parte ebbe negli affari d'Italia e della religione, bene sta che ci badiamo alquanto a considerarlo. Erede de' possessi austriaci per padre, de' Paesi Bassi e della Spagna per madre, e in conseguenza de' dominj d'Italia e de' paesi testè scoperti in America e nelle Indie, fu fortunato sino ad avere prigioniero alla battaglia di Pavia il proprio emulo Francesco I di Francia, e con ciò assicurata la sua preponderanza di qua dell'Alpi, mentre dal nuovo mondo gli giungevano ogni giorno annunzj di altri imperj scoperti e assoggettati, ch'egli mai non vedrebbe, di miniere d'oro e d'argento scavate, di preziose spezierie, avviate dall'estremo Oriente e dai paesi equatoriali a' suoi porti di Spagna. A contatto con tutti i paesi d'Europa per dominj che estendevansi da Cadice a Bruxelles, da Messina al Baltico, potè fantasticare la monarchia universale, non come immediata dominazione, ma come supremazia; nè fu vana millanteria il dire che il sole non tramontasse mai ne' regni suoi.
E veramente egli sta a capo de' re moderni. Uscendo dai secoli della cavalleria per entrar in quelli del machiavellismo, fu vario come il suo tempo, a vicenda cupo e generoso, tollerante e fanatico, ostinato ne' proprj e ligio agli altrui pareri, intrepido e sfiduciato, ambizioso fino a sognare l'alta direzione e dei regni e della Chiesa, e di abbattere la costituzione germanica, sostituendovi la monarchia ereditaria, poi umile sino a terminar la vita in un convento: non fastoso, non cavalleresco, bensì politico, affettante il casalingo; affettante il leale, mentre niuno lo pareggiava nell'ordire e tessere un intrigo, nel promettere, corrompere, eludere, conciliare, soprattutto temporeggiare, conforme alla divisa che aveva assunta, Nondum509. Mai non montava in collera: offeso, avvolgeasi nella dignità del silenzio: la gratitudine non conobbe: la fiducia poco; mal soffriva la contraddizione, e credeva che il lungo riflettere sia cauzione del buon successo. Pari a lui nessuno in attività, ed ebbe ad esercitarla non solo nell'amministrazione di sì varj Stati, ove le libertà e le forme tutelari del medioevo dovea soffocare nell'assolutezza amministrativa de' moderni, ma nelle guerre ostinate colla Francia, nelle civili colla Spagna e col Belgio, nelle generose coi gran guerrieri dell'impero turco; sempre con mezzi sproporzionati agli alti fini, e costretto a ricorrer a disastrosi spedienti finanziarj, e trovare impediti i suoi concetti da un frate, che colla parola arrestava o deviava l'immensa sua potenza, e toglievagli di scioglier nessuna delle grandi quistioni che eransi sollevate a que' giorni nel campo della politica come in quel del pensiero e del sentimento.
Nella sua grandezza egli ricordò il suo maestro Adriano, e lo pose vescovo di Toledo, e da Leone X gli ottenne la porpora. Erasmo, gran nemico dei frati, non ha che blandizie per questo, ne ammira le virtù non meno che le lezioni di teologia; Lutero stesso lo chiama di splendida e lodata vita.
Qual migliore per opporre alla Roma paganizzante?
Su lui dunque si accolsero i voti del conclave510. Trovavasi egli allora in Ispagna, e Carlo V gli mandò l'aspettasse, volendo accompagnarlo a Roma; ma esso gli rispose: «Mi sarebbe caro assai vedere V. M., ma sì calda è la stagione, che, se veniste a fretta, vi nocerebbe; se altrimenti, dovrei differire di molto l'andata, lo che tornerebbe in gran danno degli affari comuni nostri e della cristianità. I dispacci, che ricevo da Roma, da Genova e da ogni parte d'Italia, recano che le cose nostre vanno in ruina, e che non si può rimediarvi senza la mia presenza: onde non ho cuore di indugiar più oltre»511.
Per disposizione del regio alunno e pel decoro della Spagna, Adriano salpò con numerosa flotta; duemila fra prelati e cortigiani, quattromila soldati; sbarcato a Genova, «disse messa e racconsolò alquanto quella povera città del sacco e de' danni ricevuti»512: approdato poi ad Ostia, ricusò lo spendio e le baldorie che soleano accompagnare le entrate in Roma; fe sospendere la costruzione d'un arco trionfale, dicendo, «Le sono usanze da Gentili, non da cristiano e religioso».
Come il nome, così serbò i costumi primitivi; la fantesca che si menò dietro, dovea servirlo nè più nè meno di prima; pel pranzo non assegnava di là d'un ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco, dicendogli, «Ecco per la spesa di domani», nè a più di dieci ducati doveva giungere quella della Corte. Leon X avea premiato gl'inventori di buoni bocconi; Adriano mangiava merluzzo, invece dei pesci fini celebrati dal Giovio, e s'impennò all'udire il costo di certe lucaniche, fatte con polpe di pavoni. Suggeritogli di prendere dei servi, rispose volere prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leon X teneva cento palafrenieri, si fece il segno della croce, e pensò che quattro sarebbero d'avanzo513. Avendo conferito un benefizio di sessanta scudi a un suo nipote, che, vacatone un altro di cento, glielo chiese, rispose con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e quando, vinto dalle istanze, glielo concesse, volle rassegnasse il precedente.
Allorchè egli entrò, Bernardino Carvajal, cardinale ostiense, gli recitò un'orazione, esponendogli sette ricordi, che sono: 1° eliminare le tribolazioni antiche, cioè simonia, ignoranza, tirannide e gli altri peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere la libertà de' governanti; 2° riformare la Chiesa secondo le leggi canoniche, sicchè più non somigli una congrega di peccatori; 3° i cardinali e gli altri prelati amare d'amor reale, esaltando i buoni, e provedendo ai bisognosi perciocchè in quell'altezza non s'avviliscano; 4° amministri la giustizia senza differenze; 5° sostenti i fedeli, massimamente nobili, e i monasteri nelle loro necessità, come usavano i papi buoni; 6° faccia guerra ai Turchi, perciò procurando denaro, e tregue fra i principi cristiani; 7° compia la basilica di san Pietro, parte a spesa sua, parte de' principi e popoli514.
Frate Egidio Canisio da Viterbo già mentovammo come il più famoso predicatore d'allora, e il Sadoleto lo vanta per facilità del parlare toscano, e profondi studj di teologia e filosofia, talchè sapea (dice) nelle prediche piegar le menti, serenare le turbate, incalorire le tepide all'amore della virtù, della giustizia, della temperanza, alla venerazione di Dio e all'osservanza della religione; e senza divario di giovani o vecchi, d'uomini o donne, di primati o vulgari, tutti scotea con forza di ragionamento, fiume d'elettissime parole, d'eccellenti sentenze515. Non v'era solennità cui non fosse invitato a predicare, sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo: e sebbene il pochissimo ch'e' ci lasciò non giustifichi tanti encomj, tutti sono d'accordo nell'esaltarne la virtù e l'integrità, per le quali Leon X, che gli scriveva con famigliarità d'amico, lo ornò della porpora.
Egli dirigeva ad Adriano VI un commento sulla corruzione della Chiesa e le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s'insinuò dacchè la facoltà di sciogliere e legare fu adoprata a vantaggio degli uomini più che a gloria di Dio. Conviene dunque limitarla, considerandola come uno de' principali uffizj del pontefice, e quindi adoprarvi il consiglio d'uomini, integri ed esperti; escludere le aspettative de' benefizj, che fanno desiderare la morte, quand'anche non la procurino; evitare l'avaro e ambizioso accumulamento di benefizj; reprimere l'ambizione dei monaci, che sotto la giurisdizione de' loro conventi tengono infinite parrocchie, affidandole a qualche prete amovibile e mal proveduto. La turpe vendita di cose sacre, ammantata col titolo di composizioni, repugna ai canoni, ispira invidia a' principi, e dà ansa agli eretici; sicchè dovrebbe restringersi l'uffizio del datario, che smunge il sangue dei poveri come dei ricchi. Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste. Prima di concedere le grazie, si facciano da persone savie esaminare secondo la giustizia e l'equità; e così prima di promuovere a benefizj vacanti. A tutti poi gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili e fedeli, e si diano uomini alle dignità e alle amministrazioni, non queste ad uomini: le concessioni, gl'indulti, i concordati con principi si rivedano esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso secolari e verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente modo si tenne in maneggiare le indulgenze; sicchè voglionsi revocare le commissioni date ai Minori Osservanti, per le quali riesce svilita l'autorità episcopale. Nessuna cura paja soverchia nell'amministrare la giustizia; un cardinale robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con somma diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed abbiano un soldo fisso, anzichè impinguare sulle sportule, le quali sono cresciute a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento ducati l'anno, or si comperano a meglio di duemila; come quelle degli auditori di Camera pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi quattromila. Via via determina gli uffizj della giustizia; se ne rivedano le giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi depravaronsi; abbia riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe che i legati non rimanessero oltre due anni, come pure i governatori e prefetti e gli altri uffiziali; tutti lasciassero una garanzia del loro operato, finchè subissero un sindacato; e a chi n'esce con lode, si attribuissero onori e comodi. I debiti onde Leon X gravò la sede col creare tanti nuovi uffizj che consumano l'anno centrentamila ducati delle rendite della Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero attentamente i titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl'investiti medesimi si compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure alleggerire il debito col riservarsi una parte delle rendite di tutte le chiese ed un sussidio caritativo massime dai monasteri516.
E Adriano nulla desiderava meglio che di riformare. Avendo già scritto sopra le indulgenze prima degli attacchi di Lutero, convinto per argomenti scolastici delle verità rivelate, trattava le nuove dottrine di insipide, pazze, irragionevoli517; non potea supporre buona fede ne' Protestanti, sebbene deplorasse fossero stati spinti alla disperazione col serrare loro in faccia le porte; e aveva esortato Carlo V a mandare Lutero al papa, suo giudice vero, che lo punirebbe secondo giustizia518. D'altro lato, venuto da contrade forestiere, restò colpito dagli abusi della Corte romana. Mandando nunzio alla Dieta di Norimberga Francesco Cheregato vescovo di Téramo, nelle istruzioni conveniva dei disordini: «Dirai che ingenuamente confessiamo che Dio permette questa persecuzione dei Luterani contro la Chiesa sua per li peccati degli uomini, e massime de' sacerdoti e prelati. Le Scritture gridano che i peccati del popolo derivano da quelli de' sacerdoti, e perciò, come scrive il Grisostomo, il Salvator nostro volendo curare l'inferma Gerusalemme, entrò prima nel tempio per castigare innanzi tutto le colpe de' sacerdoti, come medico che il male cura dalla radice. Sappiamo che in questa santa sede già da molti anni avvennero cose abominande, abuso delle cose spirituali, eccesso ne' mandati, tutto vôlto in peggio: nè è meraviglia se il morbo discende dal capo nelle membra, dai sommi pontefici negli inferiori. Tutti e prelati ed ecclesiastici deviammo dalle rette vie, nè vi fu chi facesse bene, neppur uno»519.
Egli si fece promettere dai cardinali che smetterebbero le armi, non darebbero ricetto ne' loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che il bargello v'entrasse per eseguire la giustizia. «Se gli ecclesiastici (scrive Giovanni Cambi) aveano barba grande alla soldatesca, o abito non lecito a preti, ei riprendevali; perchè era tanto scorsa la cosa, che portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io scrittore vidi un nostro fiorentino che era arcivescovo di Pisa, d'anni ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da un altro arcivescovo di Pisa ch'era ancor vivo con dargli uffizj di Roma in compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi parole, vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con una cappa nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada allato, e il fornimento del cavallo o mula di velluto a onore di Dio e della santa Chiesa: e il cardinale Giulio De' Medici sopportava tal cosa, e andava sempre alla Chiesa col rocchetto scoperto senza mantello o cappello, con una barba a mezzo il petto, e assai staffieri colle spade attorno, e senza preti e cherici: e a questo era venuta la Chiesa, d'andar in maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e ballare».
Adriano, volendo correggere tutto e subito, consultava ora i Tedeschi ora gli Italiani, e pareangli facili le riforme, messe in discussione; ma quando volea ridurle in atto, riuscivangli impossibili. Perocchè v'ha abusi antichi, i quali, col resistere alla pruova del tempo, mostrano essere compatibili col bene, vi sono verità nuove che, avventando la società sopra un calle diverso, le riescono micidiali: sicchè ogni rivoluzione e per ciò che erige, e per ciò che demolisce, genera perturbamenti e conflitti. V'ha abusi così profondamente radicati, da far temere che colla zizzania si svelga anche il buon frumento, oltre che gl'interessi personali impediscono i buoni e pronti effetti. Perciò si lagnava egli della misera condizione dei pontefici, che, pur vedendo il bene, nol poteano effettuare. Chiamò per ajutarlo in tal uopo Giampietro Caraffa e Marcello Gaetano, austeri ecclesiastici; sgomentò coll'annunzio di volere recidere di colpo i disordini della dateria e della penitenzieria; col togliere le vendite simoniache, pregiudicava quelli che in buona fede le aveano prese in appalto; turbò le aspettative coll'abolire la sopravvivenza delle dignità ecclesiastiche: cinquemila benefizj rimaneano così vacanti, ed eccitavano speranze smisurate, che tutte trovavansi deluse; diffidando dei più come corrotti, era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e che lo tradivano; per togliere via le indulgenze voleva ripristinare le antiche penitenze, ma gli fu fatto intendere che, per serbare la Germania, mettevasi a rischio di perdere l'Italia. Ignoto alla Corte, senza appoggi di famiglia come straniero, nè creandosene di nuovi perchè esitava lungamente prima di conferire i benefizj e lasciavali scoperti per paura di darli a indegni. Adriano dibattevasi invano tra quell'inestricabile labirinto. Mentre si trovavano ora ingiuste, ora impossibili le sue proposte da quegli stessi che più le aveano reclamate, i Protestanti interpretavano in sinistro la sua candidezza, menando trionfo delle sue confessioni sugli scompigli della curia. Gli furono anche mandati Cento gravami della nazione tedesca, ove Roma era rimproverata di sordidezza, d'indecenza l'uffiziatura della basilica vaticana; negligersi gli ospedali e le altre opere pie: lasciare le meretrici procedere con pompa matronale sopra le mule, e corteggiate dalle famiglie di prelati; tollerarsi nimicizie aperte e sanguinose fra i grandi520.
Allora si sviluppò quell'oidio, che guastò e guasta tante promettenti vendemmie: il malcontento. Quella sua semplicità, quel dire la messa e l'uffizio tutti i giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con Giulio II e con Leon X. Da un pezzo non v'erano papi forestieri; e di questo, che neppure parlava la lingua italiana, facevano beffe o fingeano sgomento i nostri letterati. La gente, avvezza a vivere dietro ai prelati, ne sbertava la miseria. «Egli è un tedesco; povera Italia! (dicevano); sente di luterano: povera religione! Certo e' si piglia i cardinali, e ce li porta a un nuovo esiglio d'Avignone».
Giulio II era entrato nella scena del mondo da gran principe, scotendosi dalle piccolezze de' predecessori, e col sentimento della propria forza volea dominar gli eventi, muover principi e repubbliche secondo i suoi intendimenti, respingere i tiranni, non per vantaggio suo, ma della santa sede, e proclamò i diritti che i popoli hanno sul proprio suolo. Dopo di lui, il papato si trovò immolato ai principi, l'Italia agli stranieri; i pontefici cessarono di proteggere i deboli, e gettaronsi in braccio ai forti, sentendo ch'era necessario un appoggio per tener in rispetto i vicini, e garantire l'indipendenza spirituale, minacciata dalla Riforma. Di qui l'anguillare di Leon X. Adriano VI struggeasi di riparar ai torti de' predecessori, ma troppi interessi l'attraversarono; l'austerità di papa comprometteva l'opera di sovrano: l'intempestiva sua condiscendenza ai riottosi disgustava i depositarj della tradizione papale: e barbaro era reputato perchè non comprendeva i bisogni intellettuali ed artistici della città eterna521.
Realmente egli non intese mai come negli intelletti italiani s'elaborasse l'elemento pagano collo spirito indigeno; come colle arti, fatte linguaggio della religione, i papi volessero mostrare quanta ispirazione ci fosse nel cristianesimo, e capitanare i grandi ingegni, e tenere a loro disposizione non soltanto la manifattura ma l'ispirazione, e il mondo che ridiveniva greco, e che dalla fierezza germanica tornava all'oscenità gentilesca. Mancante del sentimento dell'arte, Adriano suspecta habebat poetarum ingenia, utpote qui minus sincero animo de christiana religione sentire et damnata falsissimorum deorum numina ad veterum imitationem celebrare studiose dicerentur522; essendogli mostrato il Laocoonte, esclamò: «Idoli pagani»; e torse gli occhi dalle classiche nudità.
In conseguenza egli che, oltr'Alpe era reputato protettore degl'ingegni, e che aveva agevolata la fondazione del collegio trilingue a Lovanio523, fu reputato un barbaro da cotesti umanisti ch'e' più non salariava, e che, dopo aver invano sperato che il suo zelo cessasse co' primi momenti524, levaronsi in fuga beffando e bestemmiando: prorompe la sciagurata manìa delle satire e delle arguzie: tutti i Sesti (diceva un epigramma) han rovinato Roma525; il Negri querelavasi che tutte le persone per bene se ne partissero; il Berni avventava un capitolo violento contro di lui e dei quaranta poltroni cardinali che l'aveano eletto; e Pasquino il dipinse in figura d'un pedagogo, che ai cardinali applicava la disciplina come a scolaretti. Laonde fu inteso esclamare: «Quale sciagura che v'abbia tempi, in cui il miglior uomo è costretto soccombere!» In fatti egli pio e zelante fu reputato un flagello non minore della peste che allora infieriva; la morte sua fu salutata con pubblica esultanza, e alla porta del suo medico si sospesero corone civiche ob urbem servatam. E sono di gran verità i due epitafj destinatigli:
Hadrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam quod imperaret duxit.
Proh dolor! quantum refert in quæ tempora vel optimi cujusque vita incidat.
Carlo V avea forse creduto che Adriano sarebbe tutta cosa sua, ma questi, ignaro de' destreggiamenti politici, stette fermo contro le pretensioni di esso e gl'intrugli de' suoi ministri e creati; non volle allearsi con esso a danni altrui: e fra l'altre amarezze ebbe quella di udir che Rodi era stata presa dai Turchi, e che questi minacciavano il regno di Napoli e la Sicilia: cercò che i principi cristiani si alleassero per resistere, ma Francesco I domandava innanzi tutto gli si restituisse il toltogli milanese526.
Appena morto Adriano, Carlo V scriveva al suo ambasciatore che facesse riuscir il Medici, anche colla forza se i Francesi si opponessero527; e in fatti, per la solita altalena che ad un vigoroso fa surrogare un lasso, a un ascetico un politico e viceversa, nel nuovo conclave rivalsero i fautori de' Medici, e con arti che in allora furono denunziate come turpi, venne data la tiara a Giulio, figliuolo naturale di Giuliano De' Medici. Cavaliere gerosolimitano, destro in armi come in trattative scabrose e in giravolte cortigianesche e diplomatiche, fatto arcivescovo di Firenze e cardinale, era stato la mano dritta di Leon X suo cugino; ed allora assunse il nome di Clemente VII (1523 18 novembre).
Vanno concordi i contemporanei nel dargli lode che non tollerava simonia, non distribuiva i benefizj a capriccio, e in tutto esigeva la regolarità; invece di musici e buffoni, amava intertenersi con letterati, filosofi, teologi, ingegneri; generoso come tutta la sua famiglia, non donava nè prometteva l'altrui; e poichè le sue limosine non impinguavano i cortigiani, dispensieri della riputazione, passava per avaro e misero528.
Aggiungasi che, trovato l'erario esausto per lo spreco di Leon X e per l'astinenza di Adriano VI, dovette mettere imposizioni e istituire Monti, e principalmente il Monte della fede per soccorrere Carlo V contro i Turchi.
Ma pretendeva all'infallibilità non meno nella politica che nella fede; sicchè, se ascoltava tutti, faceva poi a proprio senno; e alla conchiusione metteva la politica nell'irresolutezza, e l'abilità nel variare. Subito mandò fuori lettere ove, coi treni consueti deplorando le jatture della cristianità, ne accagionava le discordie de' principi e lo sformamento dell'ordine ecclesiastico; la correzione doversi cominciare dalla casa di Dio: egli emenderebbe se stesso; i cardinali facessero altrettanto; visiterebbe in persona tutti i principi onde concordare una pace; fatta la quale, celebrerebbe un concilio per restituirla anche alla Chiesa. Persuaso però che innanzi tutto bisognasse opporsi ai Turchi, e sopire l'incendio germanico, rassegnavasi a transazioni coi novatori.
Si dirà, tale essere lo stile delle autorità minacciate, riservandosi poi di eludere le promesse quando ripiglino fiato. Certo è che, sgomentato dall'assalto mosso all'autorità spirituale, vacillò sempre anche nel governo del temporale; ed anzichè accorgersi che questo non era mai stato altrettanto esteso e solido, non ebbe sentimento che della propria impotenza; sperò logorar Francia per mezzo dell'Impero, e l'Impero per mezzo della Francia, onde ora all'uno ora all'altra gettandosi, non amato da alcuno nè temuto, immensi mali trasse sopra l'Italia e sopra se stesso.
Non è da questo luogo il narrare come allora si esacerbassero le inimicizie fra Carlo V e Francesco I, il quale nella battaglia di Pavia cadde prigioniero (1525, 24 febbrajo); comprata la libertà, ne violò i patti, e ruppe nuova guerra, dove andarono a miserabile strazio la Lombardia e il regno di Napoli. Il papa, impaurito dall'ingrandire degli imperiali, e scontento di Carlo V anche perchè aveva ordinato che il regio exequatur fosse necessario alle bolle pontifizie in Ispagna, s'unì in una lega, per lui detta santa, coi Francesi e cogli altri, che pretessevano la solita maschera della indipendenza italiana. Lega a lui funestissima: perocchè subito i vassalli più potenti, e massime i Colonna, si rivoltarono contro Roma (1526), sopra la quale ben presto si difilò l'esercito imperiale, guidato dal connestabile di Borbone, francese traditore, messosi al servizio dell'imperatore.
Non era un esercito regolare, bensì un ammasso di quarantamila venturieri, quali noi pure ne abbiamo veduti, che obbedivano personalmente a un capo, purchè egli facesse quel che essi desideravano. E il desiderio loro era saccheggiare Roma, tutti anelando all'oro di essa, molti essendo Luterani, la più gran parte Tedeschi, avvezzi a considerare i papi e gli Italiani come sanguisughe della loro nazione e che aveano per unico grido Nicht Papa. Un d'essi, chiamato Verdesilva, diceva: «Colla pelle di papa Clemente voglio far uno staffile, e lo porterò a Lutero perchè veda com'è punito chi resiste alla parola di Dio». Il Freundsberg, loro capitano, teneva appeso all'arcione un laccio d'oro e un d'argento, proponendosi di strozzare con quello l'ultimo dei pontefici, coll'altro i cardinali. Lo seguiva Jacopo Ziegler, che, in una vita di Clemente VII, spacciò irosamente le colpe di questo e della curia romana.
Cotali assalirono Roma (1527), ed essendosi ammalato il Freundsberg, e ucciso nell'assalto il Borbone, inviperiti e sfrenati vi entrarono, ciascuno non pensando che a sfogare i brutali istinti dell'avarizia, della libidine, della rabbia. La capitale del mondo cristiano la sede delle belle arti, l'asilo e la palestra di ogni letterato e artista, la seconda patria d'ogni cristiano, restava preda a ladroni e miscredenti: la vita d'ogni illustre di quel tempo ha una pagina dove si raccontano nuovi orrori di questo sacco, che è uno di quei regj misfatti che lasciano impronta indelebile nella storia; e dove la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia; così la barbarie superba metteasi sotto i piedi quella civiltà che la mortificava.
Di quel disastro, ove si calcolò che Roma perdesse per dieci milioni di zecchini, noi non dobbiamo raccorre se non il particolare furore spiegato contro le cose sacre. Violarono i sepolcri, e principalmente quel di Giulio II, reo d'aver voluto sbrattare l'Italia da stranieri. Chiese, monache, frati erano specialmente esposti alla brutalità di costoro, che stallavano i loro cavalli in San Pietro, li stabbiavano colle bolle papali, gli abbiadavano ne' battisteri, ungevansi gli stivali co' sacri crismi; entro i calici s'ubbriacavano; nelle devote capelle violavano le vergini devote, e parati cogli arredi delle sacristie, celebravano orgie abbominevoli. Ai cardinali della Minerva e di Siena al Ponceta, a Giovanni Maria del Monte che fu poi papa, al Bartolini arcivescovo di Pisa, al Pucci vescovo di Pistoja, al Ghiberti vescovo di Verona, a san Gaetano recarono invereconde e tormentose contumelie, come a tutti quei moltissimi che dalla subitanea irruzione non s'erano potuti campare. Altri mettono un cardinale su di un asino a ritroso, nella sublime semplicità della porpora, e lo trascinano di porta in porta a mendicare il riscatto. Chiamano un prete che accorra col viatico, e il menano in una stalla, e vogliono costringerlo a comunicarlo a un giumento, e perchè ricusa lo trucidano. Fecero beffarde esequie al cardinale Aracœli; in un beffardo conclave deposero Clemente VII, e gli surrogarono Martin Lutero, festeggiandolo in buffonesca cavalcata. Gli archivj palatini sono bruciati: nella cappella Sistina s'accendono fiammate che tutta l'affumicarono: è impiccata una donna per aver dato delle lattughe a Clemente VII. Quanto insomma era venerato per devozione, per senso artistico, per antichità, per tradizione, fu scopo alla brutalità più ribalda e grossolana dei compatrioti di Lutero, eccitati da questo a detestare e sprezzare gli Italiani.
Allora sarebbesi detto veramente perduto il cattolicismo colla sua metropoli, e «infino da plebei uomini già si diceva che, non istando bene il pastorale e la spada, il papa dovesse tornare in San Giovanni Laterano a cantar la messa»529. Tutte le città del Patrimonio insorgeano; tutti i vassalli accorreano a spogliare l'antico padrone. I Piagnoni ne imputavano la corruzione cristiana e la persecuzione contro chi l'avea rinfacciata, e ricordavano che, quarant'anni prima, frà Savonarola aveva esclamato: «O Roma, te lo ripeto, fa penitenza. Dice il Signore: quand'io verrò sopra l'Italia con la spada, a visitare i suoi peccati, visiterò Roma: in San Pietro e sugli altari sederanno le meretrici, e faranno stalla a cavalli e porci: vi si mangerà e berrà e commetterassi ogni sporcizia. Taglierò, dice Dio, le corna dell'altare, cioè le mitre e i cappelli; taglierò la potenza de' prelati: rovineranno quelle belle case, que' bei palazzi; tante delizie, tanti ori saran gittati per terra; saranno ammazzati gli uomini; andrà sossopra ogni cosa». Altri romiti eran venuti predicando non solo la rovina d'Italia, ma la fine del mondo, e che l'anticristo fosse o il Borbone o Clemente VII. Brandano senese, prima del sacco, correva per Roma vaticinando sventura, sventura; venissero a penitenza, placassero Dio. Nel saccheggio avendo i lanzichenecchi percosso una Madonna, questa stillò sangue; come a Treviglio un'altra pianse all'entrare de' Francesi, i quali ne furono sì commossi, che risparmiarono l'incendio e il saccheggio. Per egual occasione sudò la Madonna della Cintola a Prato, e rivolse la faccia verso il Bambino, e gli pose la mano sul capo. Da per tutto, come i miracoli, così moltiplicavansi digiuni e litanie: e a Milano si menò una lunga processione, ove migliaja di devoti ad ogni istante alternavano Misericordia, Misericordia, tanto che il clero non potè fra que' clamori intonare altre preghiere, e non era uomo o donna che si tenesse dal piangere: e un predicatore, dipingendo a colori nerissime le sventure d'allora, prometteva che da Milano avrebbe principio la rinnovazione della Chiesa, la quale prima è mestieri che venga afflitta e ridotta all'ultima ruina.
Questo i Cattolici: in senso contrario un frate Egidio Della Porta comasco, scrivendo a Zuinglio, esclamava: «Dio ci vuol salvare: scrivete al Borbone che liberi questi popoli, tolga il denaro alle teste rase, e lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno predichi senza paura la parola di Dio: la forza dell'anticristo è presso alla fine»530.
Così i partiti non discernono mai i mezzi, purchè conducano al loro scopo. I Protestanti esultarono dell'orrido strazio fatto a Roma; altri, quelle tribolazioni giudicando castigo di Dio contro le iniquità pretine, si separarono dalla Chiesa, e «nelle case private in diverse città, massime in Faenza, terra del papa, si predicava contro la Chiesa romana, e cresceva ogni giorno il numero di quelli, che gli altri dicevano Luterani, ed essi si chiamavano Evangelici».
Ma tutti gli uomini serj ne fremettero: Francia e Inghilterra intimarono guerra a Carlo V, per ragione o pretesto adducendo la sua condotta verso Roma; tale essendo la natura di questa città e di questo dominio, che d'ogni attacco mossogli si risente tutta la cristianità. E veramente quegli anni del secol d'oro furono peggiori all'Italia che qualunque altri del secolo di ferro: «Mantova è tutta abbandonata di peste (scriveva un contemporaneo da Piacenza): Ferrara, Padova, Cremona, tutto il Bresciano: questa terra va peggiorando: Genova addio: non si vede che cerei e frati ad accompagnar morti: e vi concludo ch'è il più grande spavento che mai fosse veduto ad andare pel paese»531. Negli State papers che si pubblicano ora in Inghilterra, al tomo vii pagina 226 è una lettera del 12 settembre 1529 degli ambasciadori di Enrico VIII, che da Bologna scrivono: «Mai nella cristianità s'è visto desolazione pari a quella di queste contrade. Le buone città distrutte e spopolate; in molti luoghi non si trova carne di veruna sorte. Tra Vercelli e Pavia, per cinquanta miglia del paese più ubertoso del mondo in vigne e grano, tutto è deserto; nè uomo o donna vedemmo che lavorasse ai campi, nè anima viva fuorchè tre povere donne che racimolavano l'uva rimasta: giacchè non si seminò nè mietè, e le viti inselvatichirono, e i grappoli infradiciano senza che alcuno li colga. Vigevano, buona terra con rôcca, non è più che rottami e deserto. Pavia mette pietà: nelle strade i bambini piagnucolando chiedono pane, e muojono di fame. Ci fu detto, e il papa ce lo confermò, che la popolazione di quelli e d'altri molti paesi d'Italia fu consunta dalla guerra, dalla fame, dalla peste, e molti anni ci vorrà prima che l'Italia ritorni in buona condizione. Quest'è opera de' Francesi non men che degli Imperiali».
Mentre Clemente VII stava prigioniero, re Ferdinando scriveva al fratello Carlo V, non lasciasse uscir di mano il prigione senza aver532 messo ordine nella cristianità: questo esser unico rimedio alle maledette eresie533. Molti cardinali s'adunarono a Piacenza per provedere a sì luttuosi frangenti534, e per sicurezza della Chiesa divisavano trasferire la Santa Sede ad Avignone, fuori di questa Italia, divenuta campo alle battaglie degli stranieri. Fomentavanli a ciò i re di Francia e d'Inghilterra, che n'avrebbero cavato vantaggio; e molti di retta intenzione v'aderivano. Ma il cardinale Francesco Cibo, legato di Bologna, che avea saputo tener in fede le Romagne, accorse a Piacenza, e dissuase con validissime ragioni da un passo, che avrebbe recato l'ultimo tracollo all'Italia e un urgente pericolo alla Chiesa.
Eppure, dopo che Roma ebbe sofferto per aggiunta la fame e la peste; che Clemente VII durò lunga prigionia; che i Colonna e gli Orsini aizzavano quelle discordie in cui gli Italiani più inviperiscono quando sono percossi da peggiori flagelli; che amici e nemici s'impinguarono delle dovizie nostre; che si ripeteva esser terminato il potere pontifizio, si vide quel papa rifinito splendere di nuove glorie mondane. Perocchè Carlo V volle essere coronato da Clemente VII; e mentre la Germania erasi lusingata di mirare in quell'occasione il pontefice umiliato davanti a quell'imperatore, che i predecessori di esso aveano tante volte obbligato venire all'obbedienza, allora Carlo V professò dolersi delle atrocità commesse a Roma in suo nome; domandò l'assoluzione per chi v'aveva ecceduto; si obbligò di far restituire alla santa sede Modena e Reggio, tolte dal duca di Ferrara, Cervia e Ravenna occupate dai Veneziani; prender accordi con questi per le terre che aveano sottratte al regno di Napoli nella Puglia, e col papa per rintegrare gli Sforza nel ducato di Milano; pose se stesso e le sue armi a disposizione del papa, facendolo arbitro di ordinargli quando snudare e quando riporre la spada, e si fe da esso ornare cavaliere di San Pietro.
La solennità della coronazione fu delle più splendide che la storia ricordi. Quel cencio di porpora, traforato dalle scomuniche papali, e che i suoi antecessori eransi gittato da sè sulle spalle, ma che non rappresentava più il centro laicale della cristianità, consacrato dall'unzione sacerdotale, pensò Carlo V, col rimetterselo in dosso, attirare ancora un raggio del diritto divino sul successore di Carlo Magno. S'ebbe vergogna di farlo nella testè desolata metropoli del cristianesimo, ma nella cattedrale di san Petronio a Bologna, ridotta a imitazione della Lateranese. Non vi erano invitati gli elettori, nè altro tedesco che Filippo di Baviera; e invece de' cavalieri germanici, genti di ogni nazione capitanate da Anton de Leyva; paggi e araldi spagnuoli aprivano il corteo; Bonifazio Paleologo marchese di Monferrato portava lo scettro; il duca d'Urbino la spada; la corona Carlo di Savoja, che a forza d'impegnare e imprestare erasi fatto un abito di 300,000 scudi535. All'imperatore servivano i maggiori nobili d'Italia, Medici, Pio, del Carretto, Gonzaga, Pico, Trivulzio, Dal Verme, Doria, Sanseverino. Colle rituali solennità unto del sacro crisma, Carlo ricevette la corona di Carlo Magno, in segno d'universal dominio sopra la cristianità, e giurò difendere i possessi, le dignità, i diritti del papa e della Chiesa536.
Sarebbesi detto rinnovato l'accordo fra lo scettro e il pastorale, mentre invece questo soccombeva a quello; andava spezzata la monarchia universale per dar luogo a principati nazionali, emuli astiantisi; l'Italia cascava ancella degli stranieri, e per l'ultima volta l'imperatore universale giurava lealtà e fede davanti all'universale ministro della verità e della giustizia. L'unità, come nella Chiesa, così era finita nel mondo; i principi sarebbero uomini, sostenuti soltanto dalla forza, combattuti dall'esame e dall'insubordinatezza, sbalzati da non più cessabili rivoluzioni, non fidenti che negli eserciti, sinchè venga il giorno che anche gli eserciti ragionino e discutano l'obbedienza, e si compia il trionfo dell'individuo, che surroga se stesso al bene comune.
Fra le condizioni poste alla liberazione del papa fu il convocare un Concilio generale.
Quel disordine degli spiriti, quel rinegare ogni autorità facea spavento a Carlo V, che al cardinale Campeggi ripeteva, il Concilio essere necessario non tanto per riformare gli ecclesiastici, quanto e molto più per i laici, ch'erano declinati dalla vera via; e se nol si facesse, pensava non debba, fra termine di dieci anni, esser uomo che possa sotto obbedienza reggere dieci case, non che Stati, regni ed imperi537.
Ma la fede cattolica trae sua forza dall'essere una, e conservarsi inalterabile. Parlare dunque di riformare la fede era un rinegarla, era non meno una contraddizione che un'empietà: un obbligare il mondo a credere alla Chiesa mentre ella stessa repudiava la propria infallibilità. Sonava dunque assurda la domanda che, in tal senso, ne faceano i Riformati.
Repugnava poi Clemente VII a raccorre il Concilio, principalmente per la controversia se questo sia o no soggetto al papa. Dagli ultimi convocati erasi visto che, adunato che fosse, il Concilio si pretendea superiore al papa; questo il negava; ne nascea scisma; eleggeasi un antipapa; disordine che riuscirebbe d'immensa ruina nelle agitazioni presenti538. Pure alfine Clemente aderì, e di propria mano scriveva a Carlo V:
«Carissime in Christo fili noster, salutem, et apostolicam benedictionem.
«Ho inteso per la man propria di Vostra Maestà, e per quello, che m'ha referito l'oratore Majo, e m'ha ancor avisato il Legato, che il parer di quella, e di quelli signori elettori, e principi che sentono bene nella fede christiana, che sia necessario, per estirpare li errori che sono in quella nazione, è assentire che si convochi il Concilio dimandato, ma con condizione, che gli eretici desistano da' loro errori, e si conformino a vivere cattolicamente nella fede e obbedienza della santa madre ecclesia. Sopra la qual proposta avendo consultato con quelli cardinali, che ho deputati nella causa della fede, siamo stati tutti ardentissimi in questa sentenzia, che sia da condiscendere prontamente e alla convocazione del Concilio e a tutte le provisioni che tendano ad eradicare l'eresie, perchè così conviene al servizio di Dio e alla salute universale della cristianità. Vero è che, molti di loro, ancorchè desiderino sommamente questo fine, non risolvono totalmente che la convocazione del Concilio sia mezzo sicuro, o conveniente a conseguirlo, giudicando, che sia di grande imprudenza alla Chiesa di Dio il consentire che si torni a disputare di quelle cose, le quali in altri tempi sono state dichiarate da Concilj, e osservatesi lungamente da tutti li Cristiani; perchè la sede apostolica è stata consueta concedere i Concilj alli eretici quando l'opinioni loro, se bene erano erronee, o contra il rito universale della Chiesa, non erano ancor state riprovate o dannate. Ma il voler ora mettere in dubbio quello che hanno determinato i Concilj, par loro cosa scandalosa, di mal esempio, e con poca dignità di questa sede, nè sperano, che alla medicina di questi errori abbi a conferire più l'autorità del futuro Concilio, che faccia ora quella delli passati, celebrati da tanti santissimi e dottissimi Padri, le sante determinazioni dei quali chi sprezza, non si può sperare che non abbia a fare il medesimo di quello, che per l'avvenire si determinasse, nè si possono persuadere che la dimanda, che essi fanno del Concilio, tenda ad alcuno fine laudabile, anzi, che come sempre sogliono fare gli eretici, abbia nascosto qualche pestifero pensiero, che possa esser causa di maggior confusione e disordine. E tanto più inclinano li cardinali predetti in questa opinione, quanto par loro che il tempo di convocarlo non sia al presente molto opportuno, non tanto per guerra che si potesse temere in tra Cristiani, circa la quale molto prudentemente discorre la Maestà Vostra, quanto per il pericolo della guerra del Turco, del quale, come sa ben Vostra Maestà, sono le minaccie e apparati grandissimi di invadere l'anno futuro con ogni sforzo la cristianità; al qual tempo essendo impossibile, che ancora sia indrizzato il Concilio, pare da considerare bene quanto danno potria generare, mentre si attendesse al Concilio, se urgesse nuova guerra dagl'inimici della fede, perchè bisognerebbe, per attender al Concilio, negligere le provisioni tanto necessarie per la difesa della cristianità, che sarebbe cosa perniciosa, o per provedere alla guerra, lasciare il Concilio imperfetto e questo si può più facilmente dire che fare, perchè serrandolo senza la satisfazione delle nazioni, potria facilmente partorire scisma, o qualche grave scandalo nella Chiesa di Dio, la qual satisfazione universale delle nazioni, quanto la Maestà Vostra e io ci possiamo poco promettere, lo dimostra, oltre alle altre ragioni, l'esperienza delle difficoltà, che ora sente Vostra Maestà a potere in cose tanto giuste disporre d'una minima parte di quella nazione sola. Le quali difficoltà nel tempo d'un pericolo tale, facilmente aumenterebbono; perchè gli eretici e maligni pigliarebbero le necessità per occasione di ottenere qualche cosa perniciosa alla santa fede cattolica. Alla corroborazione della quale nessuno rimedio è di più autorità, più santo, e cagione di maggiori beni, che la convocazione del Concilio, quando si fa per cause, con mezzo e in tempo convenienti, per contrario nessuno più pericoloso, e per partorir maggiori mali, quando non concorrono le circostanze debite, o vi nasca qualche accidente che lo disordini. Le quali ragioni insieme con le altre allegate da cardinali predetti, avrebbono forse tenuto dubbio l'animo mio, se in me non avesse potuto più l'autorità di Vostra Maestà, la qual conoscendo io religiosissima, veramente cattolica, e devotissima della sede apostolica, e non meno prudentissima e circospetta, e considerando che, per trovarsi presente in quella provincia, per sanità della quale si propone questo rimedio, può facilmente intendere quello che li sia necessario, più che non possono coloro, che ne sono lontani, mi rendo certissimo che non desidererà, nè proporrà cosa che non sia utile al servizio e al bene universale della cristianità. E però, pregatala prima che esamini maturamente, e consideri molto bene quello che sia al proposito de' fini sopradetti, dico a Vostra Maestà che io son contento, che quella, in caso giudichi esser così necessario, offerisca, e prometta la convocazione del Concilio, con condizione però, secondo che scrive anco Vostra Maestà, che appartandosi da' loro errori, tornino incontinente al vivere cattolicamente, e all'obbedienza della Santa Madre Chiesa, e secondo i riti e dottrina di quella, infino a tanto che dal Concilio fosse determinato in altro modo, all'obedienza e determinazione del quale in tutto e per tutto si sottomettano; senza le quali condizioni è notissimo quanto saria scandaloso e di pessimo esempio a concedere il Concilio. E in questo è necessario che Vostra Maestà avvertisca diligentemente, che queste condizioni si promettano e eseguiscano in modo che possiamo esser sicuri, che gli eretici, ottenuta la convocazione del Concilio, non tornino a' pristini errori, perchè sarebbe cosa scandalosissima; e sarebbe manifesto ad ognuno, che dal proseguir in tal caso più oltre, non si potrebbe aspettare la reformazione degli errori, che desidera, ma non altro che frutti pestiferi e venenosi; a che siamo certissimi che Vostra Maestà avvertirà, dalla quale subito che avremo avviso che loro abbiano accettato, e osservino questa condizione, si convocherà il Concilio per quel tempo che sarà giudicato espediente. Il quale Vostra Maestà si prometta che sarà con più brevità si possa, la quale son certo che, per quello che sopra questa materia parlammo in Bologna, e per quanto conosce dell'intenzion mia al bene universale, non dubiti, che da me non sarà interposta dilazione alcuna. In che non mi estenderò altrimenti, perchè in tutte le cose e pubbliche, e che concernono il particular mio, io ho fede grandissima in Vostra Maestà non meno che in me proprio, e la quale non è mai per mancare. Così mi persuado che Vostra Maestà si confidi che io proceda sempre seco con tutta la libertà e sincerità che sia possibile. E perchè io ho veduto li articoli proposti da quelli eretici, giudicherei necessario che Vostra Maestà li ammonisse a restringerli solo a quelli punti nei quali pretendono avere più causa da dubitare, perchè si fugga la lunghezza, che sarebbe infinita, e si moderi quanto si può l'inconveniente di avere a ritrattare le cose stabilite nelli altri Concilj. Statuirassi ancora al medesimo tempo il loco, nel quale si abbi a convocare, sopra che intenderei volentieri il parere di Vostra Maestà, perchè a me nè per commodità propria, nè per alcun particolar rispetto importa più un luogo, che un altro, avendo massime ad intervenirvi Vostra Maestà. Ma per quanto mi occorre di presente, essendo sommamente necessario che il Concilio non si celebri altrove che in Italia, crederei che Roma dovessi satisfare a ciascuno539 per l'opportunità grandissima che ha di sostener tanta moltitudine, quanta vi concorrerà, e poichè questo Concilio non si convoca per causa di scisma che sia nella Chiesa di Dio, nè per dissensione che sia tra principi cristiani, che potriano dar cagione d'allegar la suspizione de' luoghi, ma solo si propone per purgar la cristianità dall'eresie, e per l'espedizione contra infideli, par molto conveniente che si convochi in quella città, che è capo di tutta cristianità, e dove per il passato sono stati celebrati tanti Concilj a che m'inclina ancor assai il conoscere che, se dopo tante calamità che ha patito, se le aggiunge una sì lunga assenza della Corte, saria quasi causa dell'ultima sua ruina. Pur quando Roma non satisfacesse, che a mio parere dovria satisfare, e si potria provedere che nessuno la recusasse per non sicura, ci è Bologna, Piacenza, Mantova, tutte città capaci, come sa Vostra Maestà, delle quali, o di qualch'altra che fusse a proposito, si farà risoluzione.
«Circa gli abusi, aspetto risposta dal Legato, a cui feci scriver, alli dì passati, che avvisasse sopra che si desidera riformazione, e venuta che sia la risposta, si piglierà tal forma, che ognuno conoscerà che l'intenzion mia è di corregger le cose che fossero inoneste, e di satisfare in tutto ciò che si potrà, agli amorevoli e prudenti ricordi di Vostra Maestà, con la quale, per non la tediar più, mi rimetto a quanto sopra questa materia ho scritto anco al Legato, e parlato con M. Majo suo oratore: pregando sempre Dio che le conceda quanto lei desidera. Da Roma, all'ultimo di luglio 1530».
Ai 18 novembre tornava sul medesimo promettere, e soggiungeva: «Se convenisse che io da me solo ne deliberassi, confido tanto nell'amore e prudenza della M. V. che, senza aspettar altro, le direi assolutamente di voler seguire in tutto il consiglio e voler suo. Ma per esser cosa che tocca a tutta la Chiesa e la cristianità, prima che possa risolutamente risponderle è conveniente che consulti con li cardinali, e intenda bene l'inclinazione degli altri principi al Concilio»540.
Intanto Clemente VII, che, come dice il Guicciardini, per troppa finezza di vedere, scorgeva tutte le possibilità e in conseguenza vacillava, cercavasi altri alleati. E prima sperò negli Svizzeri, e l'Aleandro al Sanga da Brusselle il 14 novembre 1531 scriveva: «Si trova per le istorie che le grandi eresie mai non si estinguono se non col sangue. Se Dio vuol far così ancor di questa, niun modo pare potesse esser miglior di questo, perchè, per esser gli Svizzeri vicini all'Italia, facilmente con ogni piccola cosa si potrà soccorrerli, e puossi veder buon conto dell'amministrazione del denaro, e andar porgendo ajuto alla giornata. Il che non saria così se l'impresa si fesse in mezzo alla Germania, e che più è, saremmo fuora di quel timore ch'era, se si faceva impresa generale contro Luterani, che la Germania tutta si unisse contro noi...... Quella parte di Svizzeri ch'avrà più archibusieri, ancor che sia in minor numero di picche, sarà vittoriosa, perchè si sa ben quanto gli altri Svizzeri temono e buttano giù le picche, visti gli archibusi.....
«Molto mi meraviglio e dolgo ch'a questa tanto santa occasione, tutti li re, principi e popoli non si muovano a contribuir qualche somma di denari, e præsertim li signori Veneti, che sono confinanti per più bande a' Luterani; che se Svizzeri cattolici perdono, la vigilia loro saria la festa di questi»541.
Clemente trescava pure con altri, e il Sanga ad esso Aleandro nunzio apostolico scriveva da Roma il 12 settembre 1531, che il duca di Ferrara cercava ogni modo di nuocere al papa, e avea fatto saper all'imperatore d'aver intercette lettere, per le quali il papa a Inghilterra e Francia prometteva tutto, purchè non si facesse il Concilio. «Il che quanto sia lontano dal vero, nessuno lo sa meglio di vostra signoria, qual sa in questo l'animo buono di Sua Santità». Il papa se ne duole coll'imperatore stesso in iscritto, domandando sieno prodotte le lettere stesse, e non voler aquetarsi benchè l'imperatore si mostri certissimo della buona intenzione di Sua Santità. «E parli qui francamente, che mai fu falsità più falsa di questa»542.
Alfine Clemente si fissò colla Francia, a' cui dominatori sempre si volsero i papi nelle loro angustie, chiaminsi Carlo Magno o Napoleone III. Sperando dunque che Francia lo sorreggerebbe nelle sue ambizioni domestiche, e rimarrebbe fedele all'antico simbolo, mosse egli stesso a trovar Francesco I. Al colloquio erasi assegnata Nizza, ma il duca di Savoja ebbe gelosia di lasciarla occupare da navi pontifizie, ond'egli andò a Marsiglia (1533, 13 ottobre) col pretesto di condurvi sua nipote Caterina, figlia di Lorenzo De' Medici duca d'Urbino e di Maddalena de La Tour d'Auvergne, promessa sposa ad Enrico, secondogenito di Francesco I. Quanto quello di Bologna coll'imperatore, solennissimo fu il ritrovo davanti a' maggiori dignitarj di Roma e di Francia. Seduto in eccelso trono, il pontefice ricevette il re, che davanti a lui piegò il ginocchio, giurogli obbedienza, e gli baciò i piedi, la mano e la stola; il primogenito del re fu ammesso al medesimo favore; i due più giovani figli baciarongli la mano e i piedi; i soli piedi gli altri della Corte. L'arcivescovo di Parigi a nome del suo signore professò che il re cristianissimo, come primogenito della Chiesa, lo riconosceva in tutta umiltà e devozione qual pontefice e vero vicario di nostro signor Gesù Cristo; lo venerava come successore di san Pietro, e gli prestava obbedienza e fedeltà; offrendosi a tutta sua possa per la difesa sua e della santa sede apostolica, al modo che aveano fatto i suoi predecessori.
Ma se il re, tornando da quel congresso, diede severi ordini per «far processi contro chi fosse convinto del delitto d'eresia che pullula e cresce nella buona città di Parigi» (10 dicembre 1533), seguitò per altro i consigli della politica sostenendo la Lega Smalcadica de' Protestanti tedeschi contro Carlo V imperatore di Germania: vale a dire, puniva chi non andasse alla messa, favoriva coloro che la messa aveano distrutta.
Questo buon re Francesco, il protettore delle lettere, che i palazzi suoi facea costruire dal Primaticcio, dipingere da Leonardo, fregiare da Benvenuto: che volle essere armato cavaliere da Bajardo senza paura e senza taccia, al 21 gennajo 1535 assisteva in Parigi al supplizio di sei Luterani. Venivano in solenne processione i vescovi, i dottori della Sorbona, i dignitarj, poi il re a capo scoperto, con una torcia in mano, e dietrogli principi e principesse e cortigiani. L'arcivescovo portava il Santissimo, pel quale erano stati costruiti sei altari di riposo; e a canto a ciascuno una forca e un rogo. Il popolo trasaliva d'insulti e d'impazienza, volendo colle proprie mani straziare gli infelici condannati; i quali erano avvinti a una trave in bilico, che calava per tuffarli nella fiamma, e risaliva sinchè questa non consumasse le corde. Cominciava l'orribile altalena allorchè il re avvicinavasi, ed egli, giunto a quel posatojo, cedeva la torcia al cardinale di Lorena, prosternavasi a fare l'adorazione, intanto che si compiva il supplizio de' condannati; poi ripigliava la torcia e la via. Al termine della quale tenne un discorso contro la perversa setta, protestando che, se ne sapesse infetto uno de' proprj membri, lo taglierebbe; se un suo figliuolo, lo sagrificherebbe egli stesso543.
E le persecuzioni continuarono un pezzo; e il giugno 1540 un editto da Fontainebleau ordinava ad ogni balìo o siniscalco, procuratori, avocati del re di cercare i Luterani, per darli al giudizio delle Corti supreme, altrimenti perderebbero l'uffizio.
Le nazioni non hanno dunque di che rinfacciare l'una l'altra; meglio è che, disapprovando le violenze d'allora, imparino la tolleranza, tanto predicata eppur tanto poco ottenuta in questo nostro tempo di sì caldi e sì poco leali partiti. Noi siamo lieti di trovare che papa Paolo, saputo di que' supplizj, altamente li disapprovò, benchè da buona intenzione: rammemorando che Cristo usò più misericordia che rigorosa giustizia; nè doversi con morte tormentosa far disperare un uomo, che pur potrebbe mutare di credenze544.
Nil tale patribus facere se putantibus,
Nihil minus volentibus
Quam quem eligebant; nil minus poscentibus
O terra! votis Hadrianus omnibus
Quis credat? invitis. Deúm vis hæc: Deúm
Deúm abditum hoc arbitrium est...
in concedendo parcissimus, in recipiendo nullus aut rarissimus; in sacrificio quotidianus et matutinus est: quem amet aut si quem amet, nulli exploratum. Ira non agitur, jocis non ducitur. Neque ob pontificatum visus est exultasse: quinimo constat graviter illum, ad ejus famam nuntii, ingemuisse.
Noi abbiamo sentito accuse consimili farsi a Pio IX.
Semper et a Sextis diruta Roma fuit.
Gevay, Urkunde ecc., p. 66-70. Istruzione, per Martino de Salinas, dall'8 febbrajo 1529.
«Nel breve a S. M. eravi posto espressamente de celebratione universalis concilii. A queste parole S. M. con grande attenzione aperse gli occhi e gli orecchi, dicendo: - Sia ringraziato Dio che Sua Santità persevera in quello che altre fiate mi ha promesso, e fa bugiardi costoro che dicono Sua Santità sutterfugere il Concilio - . Allora diss'io: - Sire, Sua Santità non rifiuta il Concilio, purchè si celebri secondo il debito di ragione, cioè che in primis V. M. sempre sia assistente, come al Concilio Niceno Costantino, a Costantinopolitano Marciano, e agli altri i seguenti imperatori. Poi, che si abbia evidente speranza di tre cose: l'una di ridur veracemente i Luterani al grembo di santa Chiesa, ed a questo bisogna che sufficientemente consentano, perchè per questa principal causa si avria a far il Concilio. L'altra, che non si partorisca uno scisma con le altre nazioni cattoliche che restano, che saria quando Francia, Anglia e Scozia non volessero convenire. La terza, che si facesse una buona e santa reformazione di tutta la Chiesa di Dio in capite et in membris, da vero e da buon senno: altramente, pensando a gabbar Dio, ne gabberemmo noi stessi: S. M. rispose ecc.
«Finito questo colloquio, domandandomi se io sapea scrivere in ebreo, dissegli che sì, ma che la non pensasse però ch'io fossi nato ebreo, come fingono gli eretici, dicendo ch'è cosa ingiusta che un giudeo difenda la Chiesa cristiana. Mi domandò dove io l'aveva appreso. Dissi che da un Giudeo, non già di mia terra, dove mai poterono star Giudei, ma spagnuolo, qual si fece poi cristiano in casa di mio padre». Monumenta Vaticana, LXV.