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DISCORSO XIX
IL VALDES.
Allorchè le bande di Carlo V saccheggiarono Roma, e l'Europa era piena delle oltraggiose miserie ivi sofferte o recate, un giovane spagnuolo dettava un dialogo, ove suppone che a Valladolid un soldato, reduce da quel misfatto, s'incontri in un arcidiacono e nel cortigiano Lattanzio, e gliene divisi le particolarità. Lattanzio non rifina di stupire che un papa faccia guerra, e guerra contro l'imperatore: tutt'altro essere l'uffizio del vicario di Cristo. Il soldato risponde che di ciò non prendesi meraviglia in Italia, anzi v'è tenuto da nulla un papa che non maneggi le armi. Descrivendo poi quell'atroce catastrofe, nelle particolarità rilieva ciò che reca disonore al clero; il cortigiano ve lo attizza colle sue suggestioni, e conchiude ammirando i giudizj di Dio, il quale castigò in tal modo le ribalderie del papa e de' suoi545. Perocchè della guerra attribuiva la colpa al papa e a Francesco I, scagionandone Carlo V, lo che adempie pure in un precedente dialogo fra Caronte e Mercurio, ove dalle anime che arrivano al tragitto d'Acheronte fa raccontare molti abusi, l'opposizione fra la dottrina cristiana e la pratica, e passando a scrutinio un teologo, un frate, un vescovo, una donna e così via, mostra il peggiorarsi della razza umana. Al gusto odierno dee sapere di strano l'udire Caronte e Mercurio discutere del vangelo: ma le son licenze comuni a questi dialoghi de' morti.
Autore n'era Giovanni Valdes, persona di alta nascita e di molto merito alla Corte di Spagna.
Il tono di quei dialoghi, le accuse prodigate ai pontefici e alla Chiesa indignarono molti, e il mantovano Baldassar Castiglione, famoso autore del Cortigiano, che nel 1524 era ito nunzio del papa in Ispagna, e che morì a Toledo il 1529, si credette in dovere di denunziar severamente il Valdes al papa e all'imperatore. Lagnossene egli, quasi fosse venuto meno alla cortesia mostratagli, e avesse condannato il libro senza conoscerlo. Il Castiglione gli rispondeva una lunga lettera, professando d'avere denunziato quel libro con piena conoscenza, e perchè vi côlse un mar di errori e di calunnie contro le cerimonie, le reliquie, la religione stessa. E qui ragionando punto per punto, non gli perdona il dichiarare empietà che uno dica la messa in peccato. Se un prete è malvagio, se celebra appena levatosi d'accanto a una donna, forse ciò giustifica il rubare gli ostensorj e gl'incensieri? Le ricchezze sono bene spese in onor di Dio, e lo credeano persino i Pagani: ond'è mal gusto quel suo cuculiare le magnificenze del culto. Nè minor torto ha quando scusa Lutero, e trova bisognasse, prima di condannarlo, correggersi delle colpe ch'egli rinfacciava. Di rimpatto il Valdes non v'è obbrobrio che risparmii a Clemente VII, e ciò per discolpare l'imperatore; quell'imperatore che al papa professava affezione e ossequio, al tempo stesso che lo lasciava depredare e oltraggiare in tal guisa, che agli Spagnuoli stessi dolse di quella tragedia. Solo il Valdes esortava Carlo V a tenere cattivo il papa, e giacchè l'aveva in mano, non perdere sì propizia occasione di emancipare la cristianità. «Voi dunque, nuovo riformatore degli ordini e delle cerimonie cristiane, nuovo Licurgo, nuovo conditor di leggi, correttore de' santissimi concilj approvati, nuovo censore de' costumi degli uomini, dite che l'imperatore riformi la Chiesa con tener presi il papa e i cardinali? e che facendolo, oltre al servizio di Dio acquisterà ancora nel mondo gloria immortale? E volete indurlo a far così empia azione?....... Ah impudente! ah sacrilego! ah furia infernale!..... E non temete che Dio mandi il fuoco dal cielo che v'arda?» E qui, ritorcendo l'argomentazione in invettiva, gli preconizza un san-benito.
Non erano materie dove si facesse a credenza; e il Valdes stimò prudente abbandonare la Spagna, ricoverandosi a Napoli, ove il dominante era ancora Carlo V, ma i privilegi nazionali teneano in freno il Sant'Uffizio. Il Llorente, storico dell'Inquisizione parabolano e sempre mal informato come mostreremo, dice abbandonasse la Spagna perchè condannato d'eresia. Nol fu mai da vivo: sol dopo morto fu tenuto per capo d'eretici, ma non si specifica di quali eresie peccasse, e ogni Chiesa dissidente vorrebbe trarlo a sè, fin gli Antitrinitarj. Quest'è certo ch'egli può stare alla testa de' riformati italiani. In Napoli fu carezzato, stette segretario del vicerè Toledo, e scrisse varie opere, fra cui i filologi lodano il dialogo sulle lingue, nel quale fa da due Italiani e due Spagnuoli discorrerne sulla spiaggia di Napoli.
Quivi introdusse i libri di Lutero, di Bucer, degli Anabatisti che avea conosciuti in Germania, e fece proseliti. Pubblicò un commento delle Epistole di san Paolo (Venezia 1556) e riflessioni sopra san Matteo e sopra alcuni salmi, dedicate a Giulia Gonzaga del ramo di Gazzuolo, duchessa di Trajetto a Fondi, donna di sì famosa bellezza che Solimano granturco desiderò vederla, e mandò il terribile Ariadeno Barbarossa per rapirla, al che poco mancò riuscisse mentr'ella stava a Fondi con papa Leone546. Dopo vedova del famoso Vespasiano, essa adottò per impresa un amaranto e il motto Non moritura; e passata a Napoli nel 1537 per certi litigi, in casa sua teneva un circolo, ove disputavasi di materie religiose. Del Valdes citasi pure un «Avviso sopra gl'interpreti della santa scrittura», ove sostiene che noi fummo giustificati per la passione di Cristo, e che possiamo conoscere con certezza la nostra santificazione.
Nel catalogo dei libri proibiti pubblicato da monsignor Della Casa è notato Il modo di tenere nell'insegnare e nel predicare al principio della religione cristiana, libriccino il qual è solamente di tredici carte in ottavo; e il Vergerio, postillando esso catalogo, attribuisce quell'opuscolo al Valdes, e non rifina di lodarlo, facendo le meraviglie che si riprovi chi predica Cristo sinceramente e prudentemente, mentre si tollerano e lodano le sguajatezze del Barletta, tutto buffonerie ed empietà.
L'opera capitale del Valdes è quella stampata a Basilea nel 1550, col titolo Le cento et dieci divine considerationi del signor Giovanni Valdessa; nelle quali si ragiona delle cose più utili, più necessarie et più perfette della cristiana professione. Nella prefazione, Celio Secondo Curione «servo di Gesù Cristo, a tutti quelli i quali sono santificati da Dio Padre, e salvati e chiamati da Gesù Cristo nostro Signore» augura: «la misericordia, la pace et la carità di Dio vi sia moltiplicata». E comincia: «Ecco fratelli, noi vi diamo non le Cento novelle del Boccaccio, ma le Cento e dieci considerazioni del Valdesio, e di quanta importanza sieno vengo a dichiararvi».
E continua che «de' molti i quali scrisser delle cose cristiane, chi meglio e più saldamente e più divinamente il fece è Giovanni Valdesio, dopo gli apostoli ed evangelisti». Esaltandone i pregi, professa che di questo grande e celeste tesoro siamo tutti debitori a monsignor Pietro Vergerio, come stromento della divina provvidenza in farlo stampare, acciò da tutti potesse essere veduto e posseduto. Egli, venendo d'Italia, e lasciando il finto vescovato per venire al vero apostolato, al quale era chiamato da Cristo, portò seco di molte belle composizioni, e fece come si suol fare quando, o per incendio della casa propria o per sacco e sterminio di qualche città, dove ogni uno scampa le più care e più preziose cose ch'egli si trova in casa: così il nostro Vergerio, non avendo cosa più cara che la gloria del Signor Nostro Gesù Cristo, ne recò seco di quelle cose le quali ad illustrarle ed allargarle servir potevano». Soggiunge che fu dallo spagnuolo, da persona degna in lingua italiana tradotto. Del Valdes racconta che non seguitò molto la Corte dopo che gli fu rivelato Cristo, ma se ne stette in Italia, e fece la maggior parte della vita sua a Napoli, dove, con la soavità della dottrina e con la santità della vita guadagnò molti discepoli a Cristo, e massime fra gentiluomini e cavalieri, e alcune signore lodatissime. Pareva che costui fosse da Dio dato per dottore e pastore di persone nobili e illustri; ha dato lume ad alcuni de' più famosi predicatori d'Italia..... Morse in Napoli circa l'anno 1540, lasciando altre belle e pie composizioni, le quali per opera del Vergerio, com'io spero, sarannovi comunicate».
Cominciò di quel tempo a correre per Italia un opuscolo, intitolato del Benefizio della morte di Cristo, senza nome «acciocchè più la cosa vi muova che l'autorità dell'autore». Sul qual autore faremo indagini altrove; qui basti dire che a moltissimi fu attribuito; e ch'è uno de' libri di più bizzarra fortuna, talchè potrebbe prendersi a simbolo delle vicende della Riforma in Italia. Dato fuori nel 1542; stampato poco dopo; diffuso, dicono, a quarantamila esemplari, si riuscì a sopprimerlo a segno, da più non trovarsene esemplare; lo Schölhorn e il Gerdes, tanto solleciti raccoglitori in questo genere, nol seppero rinvenire; Mac Crie, Mac Aulay, Ranke lo dichiararono irreparabilmente perduto. Ma nel 1774 un tal dottore Antonio Ferrario di Napoli ne avea deposto un esemplare nel collegio di San Giovanni in Cambridge, con uno della traduzione francese del 1552. Ivi testè fu ritrovato; indi un altro nel 1857 nel collegio medesimo, ch'era appartenuto a Laura Ubaldina, poi al vescovo Moore, poi a re Giorgio I, il quale lo donò ad essa biblioteca. Una traduzione in croato, edita il 1563, era stata dal celebre filologo Kopitar donata alla biblioteca di Lubiana, dove giace pure un esemplare dell'italiano. Se l'essersi distrutte tutte le copie dell'italiano può darci argomento della potenza dell'Inquisizione, è inesplicabile che non si facessero più ristampe nemmanco delle traduzioni, talchè d'esse pure v'avea tanta rarità, finchè il reverendo Ayre riprodusse nel 1847 la versione inglese, sulla quale si fece una versione italiana, stampata a Pisa nel 1849, ed una migliore colla data di Firenze; poi scopertosi l'originale, fu diffuso dalla società biblica e si venne così a conoscerlo ed a parlarsene547.
È un opuscolo in buon italiano, dove è asserito che, avendo Cristo versato il sangue per la salvezza nostra, noi non dobbiamo dubitare di questa, anzi conservare la massima tranquillità. S'appoggia ad autorità antiche per affermare che coloro, i quali rivolgono le anime a Gesù Crocifisso, e si affidano per mezzo di esso a Colui che non può ingannare, sono liberati d'ogni male, e godono il perdono di tutte le colpe.
Il peccato originale (insegna) fu causa de' nostri mali, ma non li conoscevamo sin quando non fu data la legge. Il primo ufficio di questa fu appunto far conoscere il peccato; il secondo ingrandire il peccato, vietando la concupiscenza; il terzo dimostrare lo sdegno di Dio a coloro che non osservano la legge; il quarto incutere timore all'uomo; il quinto costringerlo a rivolgersi a Gesù Cristo, dal quale unicamente dipendono la remissione de' peccati, la giustificazione e tutta la salute nostra. Se il solo peccato d'Adamo bastò, senza colpa nostra, a rendere peccatori noi tutti, a più forte ragione la giustizia di Cristo avrà forza di renderci tutti giusti e figli della Grazia, senza cooperazione nostra: la quale non può essere buona se prima noi stessi non siamo divenuti buoni. Iddio avendo già punito ogni peccato nel Figliuolo suo dilettissimo, ha conceduto al genere umano generale perdono, e ne gode chiunque creda al Vangelo. Da Cristo solo deve dunque ciascuno riconoscere la propria salvezza, in lui solo confidare, non nelle opere proprie. Questa santa confidenza entra nei cuori nostri per opera dello Spirito Santo, il quale ci si comunica mediante la fede; e la fede non viene mai senza l'amore di Dio. Laonde ci sentiamo mossi da lieto e operoso ardore a fare azioni buone, sentiamo forza di eseguirle, e di soffrire tutto per amore e gloria del nostro Padre misericordioso.
«Per le cose dette (prosegue) si può intendere chiaramente che il pio cristiano non ha da dubitare della remissione de' suoi peccati, nè della grazia di Dio: nondimeno per maggior soddisfazione del lettore voglio scrivere alcune autorità de' dottori santi, i quali confermano questa verità». E qui adduce numerosissime autorità; indi ripiglia: «Nessuno però creda coi falsi cristiani, i quali degradano di costumi, che la vera fede consista nel credere la storia di Gesù Cristo come si crede quella di Cesare e Alessandro, o come i Turchi credono al Corano. Fede siffatta non rinnuova il cuore, nè lo riscalda dell'amor di Dio, nè produce le buone opere e i cambiamenti di vita, che provengono solo dalla fede vera, la quale è un'operazione di Dio entro di noi. La fede giustificante è simile a fiamma che non può non tramandare luce; così essa non può bruciare il peccato senza il concorso delle opere. E come, vedendo una fiamma che non mandi luce, riconosciamo essere falsa e dipinta, così quando in alcuno non vediamo la luce delle buone opere diciamo che non ha quella vera fede ispirata da Dio548.
«Che se ci prende diffidenza, ricorriamo al sangue di Gesù Cristo, sparso per noi sulla croce, e distribuito nell'ultima cena sotto l'ombra d'un sacramento augustissimo. Chi s'accosta a questo senza fede nè carità, non credendo che quel corpo del Signore è vita e purgazione di tutti i peccati, fa Gesù Cristo mentitore, calpesta il figliuolo di Dio, e stima non essere nulla meglio che una cosa comune e terrena, il sangue del Testamento, pel quale fu giustificato. E però il Cristiano, quando comincia a dubitare se abbia o no ricevuto il perdono, (quando lo rimorde la dubbiosa coscienza, ricorra a questo divino sacramento, che gli assicura il perdono di tutti i misfatti.
«Sant'Agostino costuma chiamare questo divinissimo sacramento vincolo di carità e mistero d'unità, e dice che, chi riceve il mistero dell'unità, e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero per sè ma una testimonianza contro di sè. Adunque abbiamo a sapere intendere che il Signore ordinò questo sacramento, non solo per renderci sicuri della remissione dei peccati, ma ancora per infiammarci alla pace, all'unione e carità fraterna. Perocchè in questo sacramento il Signore ci fa partecipare del suo corpo in modo, ch'e' diviene una cosa medesima con noi, e noi con lui. E com'egli ha un solo corpo del quale ci fa partecipi, così noi, per tale partecipazione, diveniamo un sol corpo fra noi. Questa unione è raffigurata dal pane nel sacramento, formato di molti grani, misti e impastati insieme in guisa, che l'uno non può dall'altro discernersi. Parimenti noi tutti dobbiamo essere congiunti in tale accordo di spirito, che niuna divisione possa insinuarsi tra noi. Adunque, ricevendo la santissima comunione, dobbiamo ritenere nell'animo che tutti siamo incorporati in Cristo, e tutti membri d'un medesimo corpo; membri, dico, di Cristo, in maniera che non possiamo più offendere, nè infamare, nè vilipendere alcuno de' nostri fratelli, senza offendere, infamare, vilipendere il nostro capo Gesù Cristo; nè tenere discordia con qualunque de' nostri fratelli, senza essere in opposizione con lui. Così non possiamo amare lui se non amiamo i nostri fratelli. Dobbiamo prepararci al divin sacramento eccitando gli animi nostri ad un amor fervente riguardo al nostro prossimo. Qual maggiore stimolo ad amarci che il vedere Gesù Cristo, non solo col dare se stesso a noi, allettarci a dare noi stessi per gli altri, ma comunicandosi esso a tutti noi, fare sì che noi diventiamo con lui tutt'una cosa?»
Conchiude raccomandando la comunione frequente, e così la preghiera, la fiducia nella predestinazione, per quanto il demonio ci tenti per levarcela, e per farci credere che, se per fragilità cadiamo in peccato, noi diveniamo vasi d'ira e dimenticati dallo Spirito Santo. Sant'Agostino dice: Niun de' santi è senza peccato; nè perciò cessa d'essere santo se con affetto ritiene la santità. È gran cecità l'accusare i Cristiani di presuntuosi se si vantano di possedere lo Spirito Santo; anzi senza questo vanto non sarebbero veri cristiani. Il timore servile sgomenta i reprobi; ma l'amore filiale conforta gli eletti colla fiducia che Dio, per sua misericordia, li manterrà nello stato felice ove gli ha posti, e che i suoi peccati gli furono gratuitamente rimessi.
«Noi siam giunti al fine di questi nostri ragionamenti, ne' quali, il nostro principale intento è stato di celebrare e magnificare, secondo le nostre piccole forze, il beneficio stupendo che ha ricevuto il Cristiano da Gesù Cristo crocifisso: e dimostrare che la fede per sè stessa giustifica, cioè che Dio riceve per giusti tutti quelli che veramente credono Gesù Cristo avere soddisfatto ai loro peccati: benchè, siccome la luce non è separabile dalla fiamma che per se sola abbrucia, così le buone opere non si possino separare dalla fede che per se sola giustifica. Questa santissima dottrina, la quale esalta Gesù Cristo ed abbassa la superbia umana, fu e sarà sempre oppugnata dalli Cristiani, che hanno gli animi ebri. Ma beato colui il quale, imitando san Paolo che si spoglia di tutte le sue proprie giustificazioni, nè vuole altra giustizia che quella di Cristo, della quale vestito, potrà comparire sicurissimamente nel cospetto di Dio, e riceverà da lui la benedizione e l'eredità del cielo e della terra insieme col suo unigenito figliuolo Gesù Cristo, nostro Signore, al quale sia gloria in sempiterno, amen».
L'opera fu da principio accettata come di retto sentire, e la sua tanta diffusione attribuiscono a persone pie, al Flaminio, ai cardinali Morone e Polo, a monsignor Carnesecchi. Poco si tardò ad avvertirne gli errori; ma su quel punto della giustificazione non erano ben d'accordo neppure i Cattolici, atteso che gran parte della disputa consisteva in parole, e, come dice Bossuet, v'aveva una mala intelligenza, anzichè vi fosse difficoltà in tal quistione..... Chi di noi (soggiunge) non ha sempre creduto e insegnato che Gesù Cristo soddisfece soprabbondantemente per gli uomini, e che il Padre eterno, contento di questa soddisfazione del Figlio, ci tratterà favorevolmente come se noi medesimi avessimo soddisfatto alla sua giustizia? Se vuol dirsi ciò solo quando si dice che la giustizia di Gesù Cristo ci è imputata, è cosa fuori di dubbio, e non valea la pena di turbare l'universo, nè chiamarsi riformatori per una dottrina così nota e confessata»549.
Or bene, questo libretto fu attribuito al Valdes, e più generalmente alla scuola ch'egli formò a Napoli. Perocchè colà egli nella allegra e pittoresca sua casa a Chiaja raccoglieva il fior della nobiltà napoletana, persone distinte per talenti, e signore quali la Gonzaga ora detta, donna Maria Brizeño, donna Costanza d'Avalos, donna Isabella Manriquez; e da esso derivarono i principali promulgatori della riforma, come l'Ochino, il Vermiglio, il Carnesecchi. Al qual ultimo, Jacobo Bonfadio scriveva poi550: «Dove andremo noi, poichè il signor Valdes è morto? È questa certo gran perdita e a noi e al mondo; perchè Valdes era un de' rari uomini di Europa, e quei scritti ch'egli ha lasciato sopra le epistole di san Paolo e i salmi di David ne faranno pienissima fede. Era senza dubbio ne' fatti, nelle parole e in tutti i suoi consigli un compiuto uomo: reggeva con una particella dell'animo il corpo suo debole e magro: con la maggior parte e col puro intelletto quasi come fuor del corpo stava sempre sollevato alla contemplazione della verità e delle cose divine. Mi condoglio con monsignor Marcantonio Flaminio, perch'egli più che ogni altro l'amava ed ammirava. A me pare sino, quando tanti beni e tante lettere e virtù sono unite in un animo, che faccian guerra al corpo, e cerchino quanto più tosto possano di salire, insieme con l'animo, alla stanza ond'egli è sceso».
E generale fu il compianto per la morte di questo bel ingegno, del quale un poeta cantava:
Valdesio ispanus scriptore superbiat orbis551.
Il Caracciolo, frate domenicano, che lasciò una vita manoscritta di Paolo IV, di cui molto faremo uso, riferisce: «Accadde nel 1535 che con Carlo V venne un detto Giovanni Valdes, nobile spagnuolo ma altrettanto perfido eretico. Era costui (mi disse il cardinale Monreale che se lo ricordava) di bell'aspetto e di dolcissime maniere, e di un parlare soave e attrattivo: faceva professione di lingue e di sante scritture: s'annidò in Napoli e in Terra di Lavoro. Di costui furono tre i principali discepoli: frà Pietro Vermiglio, canonico regolare ed abate di san Pietro d'Ara: frà Bernardino Ochino da Siena, e Marcantonio Flaminio, tutti e tre letterati principalmente nelle lingue e nelle lettere umane. Ora costoro, mentre furono in Napoli, per fare brigata maggiore di discepoli s'erano divisi in diversi pulpiti di scrittura santa: il Vermiglio in San Pietro d'Ara leggeva l'epistole di san Paolo ..... il Valdes leggeva in sua casa l'istesse epistole.... I nostri Padri scoprirono l'eresie in Napoli, essendo il nostro ordine acerbo persecutor dell'eresie, e che fa professione di difendere la fede cattolica. Il modo con che furono dai nostri scoperti, s'ha da sapere che Raniero Gualanda e Antonio Capponi, per la pratica che ebbero con Valdes e Ochino furono a pericolo anch'essi incautamente di essere macchiati un poco di quella pece. Ma perchè si confessavano dai Padri nostri in San Paolo, però i nostri che ne stavano sospetti si fecero riferire da loro tutto ciò che intendevano da quegli occulti eretici. In questo modo vennero a conoscere i nostri il mal seme che coloro seminavano, e le secrete conventicole d'uomini e di donne che facevano. Le quali da loro scoperte, e scritte al cardinale Teatino (Caraffa) in Roma, se ne fuggirono tutti di Napoli...... In Napoli se ne appestarono tanti, e particolarmente molti maestri di scuola che arrivarono al numero di tremila, come si riconobbe poi quando si ritrattarono.
«Il seme diffuso dall'Ochino fu coltivato da G. A. Mollio di Montalcino, e da frate Angelo francescano, confessore del vicerè, e da Lorenzo Romano, siciliano. Questi dapprima diffuse le sue opinioni sponendo i salmi e l'epistole di san Paolo, e diffondendo il Benefizio di Cristo, ma poi confessò i suoi falli al cardinale Caraffa, che l'indusse a palesar molte persone, anche di gran qualità, e far ritrattazione pubblica nelle cattedrali di Napoli e di Caserta».
Qual fosse la dottrina del Valdes non è ben chiaro: i Sociniani vorrebbero trarlo a sè, ma pare avesse sulla Trinità opinioni sue particolari. Nella biblioteca degli Antitrinitarj leggesi: De Jo. Valdesio quid dicendum? Qui scriptis publicis suæ eruditionis specimina nobis relinquens, scribit se de Deo ejusque Filio nihil aliud scire, quam quod unus sit Deus altissimus Christi Pater: et unus dominus noster Jesus Christus ejus filius, qui conceptus est in utero virginis; unus et amborum spiritus. Nelle lettere di Teodoro Beza troviamo che un ministro della Chiesa francese di Embden fu imputato d'aver fatto tradurre le Considerazioni del Valdes, folte di bestemmie contro la parola di Dio, senza le note che v'erano apposte nell'edizione di Lione. E avendo egli risposto che non v'avea bestemmie, e che la pietà del Valdes dovea potersi lodare non meno ad Embden che a Zurigo, a Basilea, a Ginevra, gli fu replicato che quest'opera avea fatto assai male alla chiesa di Napoli; che di là l'Ochino aveva attinto le fantasie che lo perdettero; e che molte persone, le quali prima aveano lodato le Considerazioni, cambiaron opinione dopochè le ebbero meditate, e il librajo che le stampò a Lione se ne pentì e ne chiese perdono a Calvino552.
Fatto è che molti diedero ascolto al Valdes, ma Nicola Balbani553, che fu ministro della chiesa italiana a Ginevra, riferisce che, dei convertiti alla riforma in Napoli, la più parte s'accontentavano d'accettare il dogma della giustificazione, riprovavano alcune superstizioni, pure non lasciavano la messa e il resto: quando perseguitati, abjurarono: alcuni furono uccisi come relapsi, fra cui il Caserta che aveva convertito Galeazzo Caracciolo.
Di quest'ultimo, come degli altri nominati nel presente capitolo avremo a dire ampiamente.
Conosciamo cinque edizioni in italiano fatte a Lipsia dopo il 1835, in tedesco ad Amburgo e a Strasburgo nel 1856; a Vevey e Lausanne nel 1856, ed a Parigi. A Torino nel 1860 se ne formò una stereotipa. Per trovare l'originale bastava ricorrere ala biblioteca della Minerva in Roma, fondata dal cardinale Torrecremata, poi riccamente dotata dal cardinale Casanatta, che fu bibliotecario della Vaticana (1620-1700). I Domenicani di quel convento aveano la licenza di leggere qualunque libro, per veder quali proibire; locchè fa rinvenire in quella biblioteca una quantità di libri, divenuti rarissimi, e fino unici. Clemente XI, nel 1701, avea pubblicato regole per il modo di conservar essi libri separatamente, e comunicarli solo a chi n'avesse formale licenza.
Quanto si vacillasse da principio sul punto della giustificazione appare dalle accuse che il padre Spina diede al Caterino e dalle difese di questo contra schedulam Paulo III oblatam, in qua quinquaginta errorum Catharinus insimulabatur; e versano la più parte su ciò e sulla predestinazione.
Fu uno de' teologi più reputati di quell'età frà Jacobo Nachiante fiorentino, vescovo di Chioggia (-1569), carissimo a Paolo III, a Giulio III; sentito assai nel Concilio di] Trento, e scrittore di molte opere, di cui fanno al caso nostro la Enarratio maximi pontificatus, maximive sacerdotii Jesu Christi; de primatu Petri: De auctoritate Papæ et concilj. De actis concilj approbandis per papam. De sacrosanctis indulgentiis. De expiatorio missæ sacrificio. De natura et sacramento evangelici matrimonii. Eppure vi fu chi lo tacciò di errori intorno all'essenza della libertà; del che peraltro lo difende il Tomassino, tom. iii, tratt. iv De gratia, e il Reginaldo De mente Conc. trident., P. ii, cap. 77.
Dalla Società biblica furono ristampate le opere del Valdes a Oxford nel 1845.
«Volendo io confessar ingenuamente alle VV. SS. Reverendissime (i cardinali inquisitori) tutti gli errori miei dal principio al fine, dico che, essendo io a Napoli circa otto anni sono, pochi giorni prima che andassi a Basignano col N N che era a Napoli; vedendo che io aveva cominciato a lasciar la mala via del mondo, e con desiderio di ritornar alla buona delle buone opere, incominciò a tentarmi sopra l'articolo della giustificazione che siamo giusti pel sangue di Gesù, e non per le opere nostre; mostrandomi molti lochi nel Testamento Nuovo, i quali par chiaramente il dimostrino. E però gli dissi che ciò mi piaceva. Il che detto esso al Valdesio, con cui spesso conversava, e con N ed N che ancor essi erano a Napoli, il Valdes rispose all'N, secondo mi riferì, che non si fidasse di me, sapendo che io era carnalissimo, e perciò il detto Valdes non volle che mai io andassi coll'N a lui, nè che io intervenissi o sapessi li lor ragionamenti. Pure il N mi andava dicendo e confermando sopra l'articolo della giustificazione.
«Ritornato a Napoli in casa del N, andai a visitare l'N, e gli portai certi scritti del N sopra due o tre capitoli dell'epistola di san Paolo alli Romani, dove parlava ampiamente della giustificazione, conforme al libretto del Benefizio di Cristo, e domandandomi se N gli avea letti, gli dissi non saperlo, come era vero.
«Mi domandò ancora del signor cardinale Morone, quel che esso teneva della giustificazione: gli risposi che io non sapeva, altro se non che il N e il N grandemente il commendavano a Trento della bella mente e bello animo suo, di esser innamorato di Dio e non delle cose del mondo; che mostrava essere ben capace della giustificazione per Cristo, e che sempre pareva loro che più fosse acceso nell'amor di Dio».