Cesare Cantù
Margherita Pusterla

CAPITOLO IV. L'ATTENTATO.

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CAPITOLO IV.

 

L'ATTENTATO.

 

All'erta! - piglia! - segui! - lascia!

Queste voci schiamazzate dai cacciatori, ed un urlare e guaire di segugi e di levrieri, un sonare di corni, uno sparnazzare di falchi e di sparvieri, uno scalpiccìo di palafreni e di giumenti, il ragliare della cavalcatura del buffone Grillincervello, traevano i Milanesi a vedere una grossa comitiva, che, col signor Luchino, usciva a caccia dalla porta Comasina, e che dai cittadini faceva esclamare: - Oh bello!» ed ai contadini: - Povere le nostre campagne

A chi esce di quella porta verso Como, dopo corso un dieci miglia, fra Boisio e Limbiate, si affaccia sulla mancina un vago palazzotto, a cui la lieta situazione fece dare il nome di Mombello. Sta sul colmo di un poggetto, ultimo ondeggiamento del terreno che, via via digradando dopo le altissime vette delle Alpi, qui viene a perdersi nell'interminabile pianura lombarda. Di lassù spazia lo sguardo sopra le feconde campagne del Milanese, da cui sorgono tratto tratto casali, grosse terre, borgate, e più in la metropoli dell'Insubria, colla meravigliosa mole del Duomo, monumento dell'originalità e della potenza dei tempi robusti e credenti; dall'altra parte vagheggia un cerchio di ubertose colline, poi di superbe montagne, che a mattina e a tramontana limitano l'orizzonte, varie di forma, di altezza, di tinte: alcune verdeggianti e coltivate a grano e a vigne: altre non vestite che di boscaglie; altre in fine brulle e squallide, siccome la vecchiaja dell'uomo che male trascorse la sua gioventù.

Quel palazzo, come ora è, fu rifabbricato dai signori Crivelli nel secolo scorso; negli ultimi anni del quale venne in celebrità, allorquando il giovane Buonaparte, sceso a nome della repubblica francese a rendere serva la Lombardia col solito titolo di liberarla, colà si piacque di porre alcun tempo il suo quartiere generale.

Ivi, attorno al giovane eroe, figlio della libertà e che credevano intento a dispensarla, mentre non mirava che a farsene erede, accorrevano a portare servilissimi omaggi i deputati delle improvvisate repubbliche d'Italia, alle quali la prepotenza militare aveva diminuito il numero delle azioni libere, cresciuto quello delle obbligatorie; concesso licenza di pagare assai più, e di piantare sulle piazze un grande albero, intorno a cui far gazzarre e risa e balli e canti, finchè a qualche burbanzoso ufficiale piacesse intimare il silenzio. Di tali dimostrazioni rideva il Buonaparte in quella villa; rideva della sincerità dei pochi, e si giovava dell'astuzia dei più; e intanto preparavasi a mercatare Venezia, ed a spianare a medesimo la via di salire a un trono, innalzatogli da coloro che dianzi, coll'abbatterne un altro, aveano proclamato al mondo lo sterminio dei regnanti e l'era della libertà e dell'eguaglianza, - non però della giustizia.

Non ti spaventare, lettor benigno; non temere che noi vogliamo qui tracciare il pendio, per cui l'Italia passò dal dominio dei Visconti sino a quello di Napoleone: il cenno fatto di lui non è che una delle tante e troppe digressioni del nostro racconto, alla quale ci recò la menzione di quel palazzo. Poco prima dei tempi da noi descritti, era stato, con isplendidezza pari alle loro dovizie, fabbricato dai signori Pusterla per villa suburbana; abbellito di tutti gli artifizj, onde allora si sapesse far lieta una casa campestre; giardini con ogni maniera di belle piante e rare, bei poggi di vigne, grotte, zampilli e ruscelletti da lungi condotti, davano amenità e frescura, mentre gli appartamenti offrivano tutte le agiatezze, non disgiunte da esteriore apparenza di forza. Poichè ai quattro angoli della fitta muraglia che lo girava, sorgeano torri di pietra, capaci ad ogni occasione di tener fronte a qualche improvviso attacco che, in tempi di tante agitazioni fra i privati e di sì poca forza nel Governo, potea venire o dal popolo ammutinato, o da bande di masnadieri, o da emuli baroni.

Quivi appunto erasi ridotta la signora Margherita allorquando il suo Franciscòlo, lusingato dalla confidenza mostratagli da Luchino Visconti, si era, mal per lui, assunta la esibita ambasceria a Mastino della Scala. le dissuasioni di frà Buonvicino, le carezze della donna sua erano valse a stornarlo da incarichi, i quali, vergognosi sotto vergognoso dominio, potevano sembrare un assenso dato all'oppressione della patria: ad indurlo a vivere in decoroso ritiro, muta protesta che ognuno può senza pericoli opporre ai cattivi reggimenti. Come egli dunque si fu partito, essa preferì togliersi alla città, e nella quiete campestre risparmiarsi il dispiacere di veder il trionfo dei tristi, e cercare più frequenti le occasioni di fare il bene.

Altrimenti la intese o volle intenderla quel Ramengo da Casale, adulatore di Luchino, che altra volta ci venne occasione di nominare. Il quale, presentatosi al Visconti, pochi giorni dopo che Francesco Pusterla se ne fu andato per Verona, - Signore (gli disse), madonna Margherita si o collocata a Mombello. Certamente ella cercò la solitudine perchè ad alcuno piacesse di consolargliela. Non vorrà la serenità vostra onorarla di una sua visita

Il partito più destro che i cattivi signori traggono dai cortigiani, è il farsi suggerire da loro il male, di cui già avevano l'intenzione, e così scusarsi in alcun modo davanti alla propria coscienza. Luchino, dissimulatore dei proprj sentimenti, non mostrò fare caso di un suggerimento che tanto gli diede per lo genio: ma pochi giorni dopo, ordinava una gran caccia clamorosa nei boschi di Limbiate.

Era la caccia passione dominante in Luchino, siccome negli altri signori, che vi trovavano una imitazione ed un esercizio preparatorio della guerra. Immensa quantità di selvaggina si annidava pei frequenti boschi, moltiplicandosi protetta dall'impunità, poichè le leggi, riservando questi animali al diletto dei principi o dei feudatarj, punivano di gravissime pene il contadino che avesse ardito turbarli, non che ucciderli, quand'anche li vedesse correre sopra i suoi campi e desolarli. Ma i patimenti di questi, che importavano? non erano che vulgo: e il principe intanto si ricreava, e attorno a lui altri signori venivano in grossa comitiva, tutti, benchè da caccia, in abiti eleganti. Imperocchè i nobili, scemate le occasioni di distinguersi dagli altri nelle magistrature e fra le armi, s'erano vôlti a gareggiare di vestiti e di lusso; e siccome uno scrittore contemporaneo dice, cominciò la gente ismisuratamente mutare, abiti sì di restimenta sì della persona: cominciò a fare li pizzi delli cappucci lunghi: cominciò a portare panni stretti alla catalana e collare, portare scarselle alle coreggie, e in capo portare cappelletti, sopra lo cappuccio. Poi portavano barbe grandi e folte, come bene giannetti spagnuoli volessero seguitare. Dinanzi a questo tempo, queste cose non erano anco. Si radevano le persone la barba, e portavano vestimenta larghe e oneste; e se alcuna persona avesse portato barba, fora stato avuto in sospetto d'essere uomo di pessima ragione, salvo non fosse spagnuolo, ovvero uomo di penitenza. Ora è mutata condizione, idea, diletto. Portano cappelletto in capo per grande autorità; folta barba a modo di eremitano; scarsella a modo di pellegrino. Vedi nuova divisanza! E che più è, chi non portasse cappelletto in capo, barba folta, scarsella in cinta, non è tenuto covelle, o vero poco, o vero cosa nulla. Grande capitana, è la barba. Chi porta barba è temuto.

Che se l'ingenuità, soverchia davvero, di questo narratore non vi tediasse, vorrei lasciare ad esso il descrivervi i costumi di Luchino, poco mutando delle sue parole. Facciamolo, e a chi non piace, salti al fondo.

Luchino visse in signoria anni nove in tanta pace e giustizia, che non si trovava un terreno che si crollasse. Con l'oro in mano gira l'uomo franco. Fu uomo severo senza alcuna pietà. Mai non perdonava. Secondo lo peccato, secondo la fallanza puniva. Questo messer Luchino, benchè guardie avesse d'uomini da piede e da cavallo a modo regale, niente di meno ebbe una speziale e nuova guardia con seco. La guardia sua erano due cani alani grandi e terribili, grossi come leoni, lanuti come pecore; gli occhi avevano rossi e terribili. Questi due cani alani sempre lo seguitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta, l'altro dalla parte manca. Quando mangiava solo stavano a tavola tuttavia con esso quattro grandi cani e della carne dava ora ad uno ora all'altro. Quando stava in piedi, la molto baronia gli faceva intorno piazza con silenzio per temenza dei cani: nulla si crollava, nulla parlava. Che se per ventura lo signore un poco guardasse alcuno con malo sguardo, subito li cani li erano sopra in canna, e davanlo per terra. Anche questo messere Luchino fu uomo molto giusto, per oro per argento lasciava di fare giustizia, sicchè sua terra era franca. Molto amava lo popolo minuto.

Quale amor di popolo e di giustizia fosse quel di Luchino, di Luchino che solo nei cani si fidava, il dica chi (come il Maj nei palimsesti) sa leggere altre parole sotto alle apparenti. È vero ch'egli favoriva lo popolo minuto, ma per deprimere i grandi, non già per sentimento del bene: son però queste le vie della Provvidenza, che fa dai despoti stabilire l'eguaglianza in faccia ad un padrone, finchè vengano tempi che avverino l'eguaglianza in faccia alla legge.

Se l'annunzio del venire di Luchino conturbasse la Margherita, non occorre che io ve lo dica. Acconcia colla leggiadria che ai campi si conviene, atteggiata d'ogni grazia ma pur maestosa, ella accolse la brigata allorchè si dirizzò per riposarsi al suo palazzo: nella sala e nei tinelli avea fatto disporre lauti e delicati rinfreschi pei signori e per la famigliagoduti i quali fra l'allegria ed i festosi motteggi, e fra le sguajate smancerie di Grillincervello, cui la dama opponeva un dignitoso silenzio, Luchino chiese di ammirare a parte a parte la bella posta e la ben intesa eleganza del luogo. La signora il compiacque, e dal poggio spaziandosi giù per la pendice, tutto mostrava a Luchino, mentre i suoi seguaci animavano quel quadro, spargendosi in gruppi ad ammirare quel cielo così salutevole alla vita, e le ridenti circostanze, ove in quella stagione ogni cosa appariva nel colmo della bellezza e della bontà.

Ma la dama traevasi continuamente a mano il suo Venturino;  una grave damigella non le si dipartì mai da fianco; e dietro, alcuni famigli in aspetto di far onore all'ospite, il quale trovò appena agio di poter dirle alcune galanterie, che essa mostrò accettare come nulla meglio che gentilezze universali e insignificanti. In sul partire adunque, Luchino, dopo aver levato a cielo la situazione gli adornamenti, - Ma per una solitudine (susurrò a Margherita) sarebbe bene che voi foste più sola».

Sperò il temerario averle fatto intendere l'animo suo; lo sperò tanto più, in quanto cortesissime gli erano parse le accoglienze della bella cugina; e la virtù conosciuta in questa, non che rimoverlo dai turpi suoi divisamenti, più ve lo infervorava, per quel mendo umano d'impuntarsi maggiormente ove più difficoltà si affaccia. mancavano d'aggiungere legna al fuoco Ramengo e gli altri cortigiani, esaltando i meriti della bella e gli atti cortesi onde aveva accolto e onorato il principe parente. Unico il buffone osava lanciare motti al signor suo, di caccia fallita, di non so che altre baje, le quali, mentre moveano a riso Luchino, più ne istigavano l'amor proprio a voler ridurre ad effetto il suo capriccio.

Quella prima gita non era stata se non come la correria che si fa sotto una piazza nemica, tanto per riconoscere il luogo e le opportunità dell'accampamento e degli assalti. Non passarono molti giorni, e Luchino, con poco seguito di fidati, ricomparve baldanzoso a Mombello. Ricomparve sgradito ma non inaspettato: chè troppo la donna erasi avveduta come e le lusinghe della parentela, e l'autorità del grado, e il bagliore delle ricchezze dirigesse egli ad un iniquo fine. Era dunque cresciuto il pericolo, non per la virtù di Margherita, ma per la pace sua, la quale rimase turbata dal contrasto durato in frenare e respingere le proposizioni dell'audace, dall'incertezza del fin dove egli spingerebbe altre volte le sue persecuzioni.

Mentre Luchino tornava quel giorno verso Milano, computando dentro di i progressi che potesse aver fatti verso il fine delle sue voglie, e coll'allegria propria e col fragore della brigata cercando di lasciar indovinare un trionfo che sperava, che voleva agevolare col darlo già per ottenuto, Grillincervello gli disse: - Guarda, guarda, padrone! Colui certo è un tuo debitore»; ed accennava un giovane che a cavallo veniva via a rotta per la strada, e che, come s'avvide del corteggio del principe, la diede attraverso i campi per iscansarlo.

Egli era quell'Alpinòlo che, se vi ricorda, abbiamo incontrato nel primo capitolo, a fianco del Pusterla, e del quale, poichè avrà molta parte nel nostro racconto, conviene che diciamo. Passava per un di quei tanti senza genitori, cresciuti come una pianta in mezzo al deserto.

Ottorino Visconti, fratello della nostra Margherita (quel desso sulle cui avventure vi ha fatto piangere un amico mio) avea nel 1329 dall'imperatore Ludovico il Bavaro ottenuto in feudo Castelletto sul Ticino e le giurisdizioni del Novarese, dominj restati poi nei Visconti d'Aragona, discendenti da quella famiglia. Per gratitudine egli andò ad accompagnare quel sovrano a Pisa; e reduce di , varcato il Po non lontano da Cremona, gli accadde di fermarsi ad un casolare sulla riva, in cui stava una famigliuola di mugnaj, che nei barconi guidavano i mobili loro mulini a cercare la più opportuna corrente, e che, quando ne capitassero, tragittavano i passeggieri. Quivi desiderando un tratto riposarsi, Ottorino chiese che alcuno dei fanciulli gli tenesse il cavallo, mentre sbrucava un poco di erba sul pratello quivi innanzi. - Io no. - Neppur io» rispondevano dispettosetti, e scappavano volgendosi ad ora ad ora a guatar il cavaliero e la bestia con una meraviglia sospettosa. Ma uno di essi, che al corpo pareva di più età, ma in fatto contava appena sette anni, si fece innanzi baldanzoso, e - Che paure? a me». E preso alla briglia il palafreno, lo osservava, lo palpeggiava, godeva di porgergli l'erba di propria mano, di sentirsene il fiato sopra il volto, facendosi bello di poter dominare un sì grosso e generoso animale; poi, con un sospiro, qual non sarebbesi atteso dalla verde età e dal contegno ingenuo e risoluto di lui, esclamò:

- Oh ne avessi uno io!»

Ottorino, che compiacevasi al vedere quella vispa franchezza, - Che ne faresti tu?» gli chiese.

- Eh! so ben io che ne farei, io. Correrei per mari e per terre a cercar di mio padre».

- Ma il padre tuo non l'hai tu qui?» replicò Ottorino.

- Oh! signor no!» rispose crollando il capo con mesta tenerezza il garzoncello. «M'hanno trovato su queste rive; m'hanno portato in quella casa; m'hanno tirato su... Ma... non aver i suoi! non poter mai dire come tutti gli altri, caro babbo

- E tua madre

Si rimbambolarono gli occhi al fanciullo, e mentre col dosso d'una mano li tergeva, tendendo il dito dell'altra proferì: - Eccola »; e mostrava una croce sur un rialto, alla quale era appesa una fresca ghirlanda di margaritine  e garofanetti.

Ne prese pietà Ottorino, e - Verresti tu meco?»

- Se stesse a me! Ma recherei dispiacere a questa povera gente... mi vogliono tanto bene!... Ma non ci ho mio padre

Quei mugnaj avevano di fatto messo un grande amore nel ragazzo: quando però il Visconti chiese glielo lasciassero condur via, l'uomo rispose: - Oh signoria, la è troppo buona. Se lo porti pure. Tutta bontà di Vossignoria».

Ma la Nena, moglie di lui, forse che avesse in astratto sentito parlare dei guaj del mondo e delle bisbeticherie dei signori, cagliava, e al garzone diceva: - Non badargli! rimani qui. Pane non te ne verrà meno se vorrai lavorare: e sarai quieto e dabbene e timorato di Dio».

Maso invece (così chiamavasi il mugnajo), uomo che aveva girato il mondo, cioè era andato a prendere grano e riportar farina sino a Cremona e a Casalmaggiore, e che davasi a intendere d'aver conosciuto gli uomini perchè aveva conosciuto molti gastaldi e molti granaj, le dava sulla voce, e - Come? vorresti tu rubargli questa fortuna? Non vedi? egli è un diavoletto. Gran salute, gran coraggio, grande appetito; ha tutte le condizioni per diventare un grand'omo. Lascia pure che sua signoria se lo conduca, e vedrai, farà passata. Già non è nato mugnajo, il deve diventare».

Le ragioni del marito, come succede, prevalsero: la Nena, sul congedarlo, mentre rassettava indosso quel po' di cenci al fanciulletto che balzava tant'alto dalla contentezza, gli diceva: - Guardati dai pericoli, fuggi le cattive compagnie, le donne e le bettole», come dicono tutte le madri nel licenziar i figliuoli, Maso gli soggiungeva: - Rispetta sua signoria e fa fortuna»: e Ottorino si menò seco il ragazzetto.

Quest'era appunto il nostro Alpinòlo, e Ottorino destinava farsene uno scudiero; e intanto che venissero gli anni, lasciarlo per paggio a Bice sua moglie. Ma ohimè! tornando in patria scoperse che Bice l'avea tradito, ed erasi fuggita a viver male nel castello di Rosate con Marco Visconti suo cugino; il quale poi, sazio o insospettito, un giorno la trabalzò dalla finestra nella fossa, salvo a piangerla dirottamente dopo morta.

Ottorino ne patì come uomo di sentir generoso che vedesi ingannato da persona carissima; andò cercando distrazione fra le imprese e nei viaggi, ed il cordoglio lo trasse a morte sul meglio del vivere: e nel 1336 fu sepolto in Sant'Eustorgio di Milano, presso suo padre Uberto.

Lasciò egli raccomandato Alpinòlo specialmente alla Margherita, consolatrice sua in quel crepacuore; onde il garzone attaccassimo a lei, con essa passò nella casa Pusterla, ove serviva a Franciscòlo in uffizio di scudiere. Animo esuberante di affetto, non trovandosi al mondo persona su cui per naturale legame potesse rivolgerlo, tutto l'aveva diretto, dirò meglio, avventato sulla famiglia in cui era aggrandito: e ne amava le persone e gli interessi coll'impeto di una passione, qual poteva essere in un giovane che, non disciplinato da consigli di superiori, conservava in tutto il vergine loro vigore la foga, l'irriflessione, quell'estremo bisogno di sensazioni e di felicità, che sono pregio e difetto della giovinezza. Un desiderio, anzi una vera mania di libertà avevano ispirato in esso i bollenti discorsi del suo giovane signore, e le compagnie che in Milano frequentava di giovani acuti alle novità, e di veterani memori delle franchigie antiche e dispettosi della presente servitù. Si sarebbe detto che, al modo onde gli uomini sollevati da bassa fortuna s'ingegnano di farla dimenticare, così egli volesse far dimenticare altrui, dimenticare egli stesso di non avere parenti patria di nascita, coll'amare oltre misura quelli di adozione. Alla sua balda imperturbabile volontà non era sacrifizio che paresse grave per servire la repubblica milanese o i figli di Uberto Visconti e il Pusterla: mettere per essi la vita gli saria parso ben poca cosa.

Tali caratteri che, qualora si fissino sopra un'idea o sopra una persona, hanno per nulla tutto il resto del mondo, scarsissimi s'incontrano nelle odierne società, il cui attrito, come fa coi ciottoli il torrente, leviga e pareggia tutte le disuguaglianze della superficie. È un bene? è un male? Chiedete se è bene o male la polvere di cannone, la quale, ove saviamente si diriga, serve di potenza e di difesa; sregolata, diviene micidiale.

Se a questo fare di violenza, mai non iscompagnata da generosità, accoppiate la freschezza dei diciassette anni, una schiettezza ardita, eppure educata alquanto dal conversare coi signori, una melanconia su tutti i suoi sentimenti diffusa dall'ignorare i parenti suoi, comprenderete come dovesse venir caro ai Milanesi, gente per natura d'ottimo sangue; dico solo agli umili, ma a quelli ancora di alto grado. La stessa incertezza dei natali, che il mondo, per una delle mille sue ingiustizie, suole ascrivere a colpa, o almeno guardare colla superba compassione che tanto si avvicina all'insulto, non che nuocere ad Alpinòlo, il rendeva anzi più interessante a chi lo conoscesse, per la smania perpetua ch'esso mostrava di trovare, di ricuperar suo padre, di togliersi dal volto questa, ch'egli chiamava infamia, del non avere genitori. Se volta avveniva che udisse narrare le angustie di qualche malarrivato, - Ma egli almeno ha padre o madre», esclamava. Qualora mirasse un fanciulletto a mano o fra le braccia dei genitori, struggevasi di pietà, di desiderio. Quante fiate la Margherita il sorprese, che contemplando il suo Venturino e blandendolo con melanconiche carezze, frenava le lagrime a stento!

Come la Margherita fosse opportuna a ispirar amore in chiunque le si accostasse, già deve il lettore averlo compreso: e deve il lettore, per poca esperienza che abbia del mondo, avere osservato come coloro che poco hanno a lodarsi degli uomini, si volgano con entusiasmo di devozione alle donne, in cui trovano la compassione, il disinteresse, l'affettuosità, per così dire, che negli uomini rimangono o spente o soffocate dai calcoli dell'amor proprio e dal tumulto delle faccende.

Perciò sopra la Margherita aveva Alpinòlo concentrato tutto l'affetto che dapprima portava ad Uberto e ad Ottorino estinti, e ad altri due fratelli di essa che allora combattevano in Palestina; non affetto qual suole intendersi da uomo a donna; una specie di culto, tale da distruggere tutti i computi della vanità, tutte le speranze della passione: e considerandola come un punto lucente fra l'universale tenebria della società, non avrebbe tampoco saputo pensarla capace d'azione men che generosa e santa.

Se alcuno mai non ha versato lacrime sul seno di donna rispettata, se mai non ha all'occhio di lei rivelato un cuore ferito e contristato, non indovinerà quali momenti doveano esser quelli, in cui Alpinòlo, sedendo vicino alla signora sua, coll'affetto di un fratello, colla riverenza di un vassallo, le apriva le proprie ambasce. Su queste gli uomini avrebbero sorriso sdegnosamente siccome di una debolezza, di una fanciullaggine, di una esagerazione di sentimento: ma in lei trovavano un eco, una simpatia, ed alcune di quelle parole che bastano a tornare per un pezzo il sereno a chi più era da nubi ottenebrato.

Nell'anno precedente a quello in cui siamo col nostro racconto, i Visconti erano stati ad un pelo di perdere il dominio. Lodrisio Visconti, nipote di Matteo Magno, corrucciato di vedersi escluso dalla signoria, tentò fare novità, fidando sui molti scontenti, sulle promesse di qualche vicino, sul proprio ardire e sulla fortuna, e mosse contro Azone una banda di mercenarj. Questa banda, composta di Tedeschi e guidata dal capitano Malerba, fu chiamata la Compagnia di San Giorgio, ed è la prima delle molte che poi resero il valore un mestiere, e che, terribili non meno agli amici che ai nemici, tempestarono per due secoli la già abbastanza afflitta patria nostra.

Contro l'istante pericolo presero le armi tutti i Milanesi, i quali, se non trovavano gran fatto a lodarsi dei presenti dominatori, avevano però abbastanza lume d'intelletto per non credere alle promesse di libertà, che Lodrisio voleva effettuare colla violenza; sperare che un branco di masnadieri comprati venisse a raddrizzare i torti e rinsanichire la giustizia in un paese straniero. Non avendo però saputo impedire che Lodrisio passasse l'Adda a Rivolta, giungesse fin nel contado del Seprio, al cui dominio pretendeva, e si accampasse a Legnano, i Milanesi mossero ad incontrarlo colà con tremilacinquecento cavalli, duemila balestrieri, quattordicimila fanti, ragguardevole esercito per sì piccolo Stato. Lo comandava Luchino, non ancora principe, il quale dispose l'avanguardia a Parabiago, a Nerviano il centro, la retroguardia a Rho; ma sorpreso di gran mattino il 21 febbrajo (era domenica, e nevicava a fiocchi) ebbe un tale tracollo, che rimase egli medesimo prigioniero, e fu legato ad un albero finchè la giornata fosse decisa.

Lo vide in quest'arduo Alpinòlo, che dietro a Francesco Pusterla combatteva: e tosto recatone avviso ai cavalieri più fidi d'arme, con essi rinfrescò la battaglia; e raddoppiando gli sforzi, giunsero a ricoverare il capitano. Se non fosse stile della storia il non riferire mai che a persone illustri il merito delle illustri azioni, avrebbe essa confessato che la principale parte in quel fatto l'ebbe Alpinòlo, il quale, facendo meraviglie della sua persona, arrivò primo sino al Visconti, e tagliatone i lacci, rimessolo a cavallo, e cacciatagli in mano una mazza ferrata, tornò con esso a mostrare il volto ai nemici; i quali, al fine d'una giornata in cui cinque volte si rintegrò la battaglia, andarono in piena rotta, lasciando prigioniero lo stesso Lodrisio, che stentò degli anni assai in un carcere a San Colombano.

È questa la battaglia di Parabiago, tanto celebrata fra i Milanesi, in cui si narrò che sant'Ambrogio comparisse nell'aria con un poderoso staffile, percotendo quei mercenarj7;  e in memoria della quale si fabbricò un insigne tempio sul luogo dove Luchino fu liberato, con ordine che ogni anno, nel stesso, considerato come festivo, i dodici signori della Provvisione vi tornassero in grande solennità a far un'offerta in comune, per assistere ad una messa speciale, nel cui prefazio si scagliavano imprecazioni contro quelle masnade: rito che seguitò fin quando san Carlo Borromeo lo restrinse a una visita alla basilica ambrosiana in città.

Per allora grandi feste, grandi falò si fecero in Milano, e Azone con pomposo corteggio recatosi a Parabiago, vestì cavalieri quelli che più si fossero nella battaglia segnalati. Un araldo d'arme chiamava un dopo uno i prodi, coi nomi e i titoli della famiglia e dei genitori: e non trovandosi macchie, gli diceva: - Vieni, e t'accosta a ricevere il cingolo militare, di cui la patria e gli altri cavalieri ti credono meritevole». In questa guisa furono da esso araldo nominati ed esaminati Ambrogio Cotica, Protaso Caimi, Giovanni Scaccabarozzo milanesi, Lucio Vestarini lodigiano, Inviziato di Alessandria, Lanzarotto Anguissola e Dondazio Malvicino della Fontana piacentini, Rainaldo degli Alessandri mantovano, Giovannolo da Monza, Sfolcada Melik tedesco: i quali un dietro all'altro si presentavano ad Azone, che ricevendone il ligio omaggio, dava ad essi una leggiera gotata, presentava la spada, e ne circondava i lombi colla cintura cavalieresca; mentre due altri cavalieri allacciavano ai loro talloni gli sproni d'oro. Fu poi chiamato Giovanni del Fiesco genovese, fratello della signora Isabella moglie di Luchino, ma gli onori non poterono esser renduti che al suo cadavere, recato sopra ricca bara, accinto di tutte le armi come quando, ai fianchi del cognato combattendo, era rimasto ucciso.

Ultimo si proclamò il nome di Alpinolo, ma quando fu chiesto chi fosse il padre suo e quale la schiatta, nessuno potè renderne conto; egli stesso ammutolì confuso, come al rimembrare d'una vergogna; e non potendo provare di non uscire di stirpe non infamata, non venne ammesso all'onore dei prodi. Se la cosa il pungesse nell'anima, consideratelo. Solo la tirannia più sozza e sconsigliata parevagli che potesse badare alla razza, anzichè alla personale virtù: paragonava a questo, a quello, singolarmente al Melik, tedesco prezzolato, e da quell'ora si fece più astioso contro i Visconti, più sempre smaniato di conoscer suo padre; e somigliante a certe vergini involontarie dopo una serie di desiderj delusi, era divenuto irritabile, stizzito colla società, a dir suo, così mal regolata: e sempre più entusiasta per coloro che vi formavano eccezione, sempre più bisognoso di nuovi sogni, di pericoli, di prove rinascenti.

I Milanesi davanti a quasi tutte le case nobili costumavano un porticale, dove poter accogliersi ad asolare, a discorrerla cogli amici, a carattarsi l'un l'altro, così portando la vita pubblica e comune d'allora, come il rinchiudersi e isolarsi è portato in altri tempi dal non vivere ciascuno che per , dal non far più che stesso centro e periferia di ogni azione. Di sessanta che erano questi luoghi di ritrovo, che chiamavano Coperti, ora appena sussiste quello dei Figini, fabbricato poco dopo in piazza del Duomo8.

Appunto sotto uno di questi Alpinolo, in sul mangiare, barattava parole, col fuoco che egli in ogni cosa poneva, allorchè se gli avvicinò un tal Menclozzo Basabelletta, umore satirico, beffardo, e caldo popolano, come quei tanti in cui lo sprezzo tiene luogo di libertà. Non so se per amore di bene, o per dispettosa invidia, o per piaggiare la plebe, che anch'essa ha i suoi adulatori, si faceva indagatore maligno, e sarcastico detrattore dei nobili, dei ricchi, dei magistrati.

Salutato egli il giovane, e battendogli sulla spalla, - Oh! (gli disse) quella cima di tutte le donne, quella coppa d'oro di cui non rifini di contar miracoli, scusa assai bene la lontananza del marito col ricevere il magnifico signor Luchino. L'ho visto io più volte uscire verso la villa di lei».

Chi avesse veduto Alpinolo inalberarsi nell'udire trassinato fra un pieno circolo quel nome a lui sacrosanto, l'avrebbe assomigliato a un basilisco che s'avventa a chi gli trasse la pietra. Rosso come i bargigli d'un tacchino, divampante negli occhi. - Menti per la gola, sparlatore villanourlò con irte le chiome; e cacciando a mano la sciabola, saltò senz'altro alla vita del petulante. I circostanti accorsi aiutarono questo a sottrarsi; poi con parole, e più a forza di braccia ritenendo Alpinolo, poterono alfine quietarlo. Pure, giurando a gran voce vendetta, ripetendolo bugiardo, stringendo le dita in pugno, pestando de' piedi, digrignando i denti, corse in furia a casa i Pusterla, e senza proferire parola, che tra quell'ira non avrebbe potuto articolarne alcuna, si difilò alle scuderie, e gettata la briglia al primo cavallo che gli venne sotto la mano, vi saltò su di netto e via a spron battuto.

- Salva! salvaesclamavano le madri nel vederlo venire di carriera, e si affaccendavano a levare di mezzo alla strada i bambini trescanti. Egli via, prestamente ebbe guadagnata la porta Comasina, situata poco oltre il ponte Vetere: e uscitone per la strada allora angusta e bistorta, percoteva in fuga il corridore, quando, non essendo molto lontano da Boisio, conobbe di lontano la compagnia di Luchino, che tornava di Mombello.

Augurossi di non avere occhi, tanto gli trafiggeva il cuore quel trovar vero ciò ch'egli aveva al Menclozzo con tanta sicurezza disdetto. Più che mai fuori di , figgendo gli sproni nella pancia al cavallo, il precipitò di foga traverso ai frumenti spigati, evitando la brigata abborrita. Allora fu che lo notò Grillincervello, ma non potè intendere le imprecazioni, che non solo col pensiero, ma colla voce, ossia con un rantolo, con un gorgolìo inarticolato, slanciava contro di loro Alpinolo.

Siffatto, per viette non usate egli giunse a Mombello: in mezzo al cortile balzò dal cavallo, e senza por mente a questo, così come era polveroso e affiatato si presentò alla Margherita. Era la prima volta ch'e' si permettesse con lei simile eccesso di famigliarità: ma era anche la prima volta che per lei concepisse altro sentimento che di venerazione. Non appena però si vide incontro il soave e sicuro aspetto di quella bellissima, ancora un non so che turbato dalla visita ricevuta, a guisa d'un bel cielo sul cui zaffiro la passata bufera lasciò tuttavia qualche nuvoletta, ogni sdegno fu quieto in Alpinolo, ogni sospetto dileguato: e come era stato subito a supporre il male, altrettanto subito rimproverava stesso acerbamente d'aver potuto un istante dubitare di quell'angelo. Chinò dunque gli occhi, quasi indegno si credesse di fissarla; ma pure non potè lasciare di dirle: - Anche qua Luchino

La Margherita, colla dignità della virtù a cui non giungono gl'insulti direttile, alzò il capo, e in tono di dolce rimprovero esclamò: - Alpinolo! questa parola avrebbe potuto venire da tutt'altri: ma da voi non l'avrei mai temuta».

Ruppe in singhiozzi Alpinolo, e le si gettò ai piedi chiedendole perdono: narrò il sospetto, intese la spiegazione: e il conchiuso dei loro discorsi fu ch'egli subitamente istruisse d'ogni cosa frà Buonvicino. Non era scorso il domani, che Buonvicino era venuto alla Margherita, e persuasala a pigliare i passi innanzi, e ridarsi senza indugi alla città, come ella fece, tenendovisi ignorata nel chiuso palazzo finchè ritornasse il marito.

Luchino pochi giorni tardò a rivenire all'assalto, pieno di una contumace fidanza. Accostandosi a Mombello, trova un silenzio perfetto: le finestre chiuse: nessuna bandiera sulle torrette. Luchino comincia a sbuffare dal dispetto, Grillincervello dalle risa: questo lancia il suo somaro, e poco poi torna indietro riferendo: - L'uscio è imprunato, domine, c'è la faccia di legnoSviano dunque, e venuti alla corte rustica domandano al gastaldo che n'è della signora del luogo.

- È partita.

- Quando?

- Jer da sera, eccellentissimo.

- Per dove?

- I fatti dei padroni io non li cerco, io.

- Ma non aveva ella disposto per rimaner qua dei giorni molti?

- Anzi dei mesi, eccellentissimo.

- Onde dunque l'improvvisa risoluzione?

- I fatti dei padroni io non li cerco, io. Mio dovere è obbedire, eccellentissimo».

Troppo rincresceva a Luchino che altri dovesse accorgersi  d'un torto fattogli, d'un mancatogli riguardo; sicchè mostrò di pigliare la cosa in riso; e prese a celiarne egli stesso, a lasciar quasi intendere che ciò fosse un accordo, un'intelligenza. Ma questa necessità del fingere ne aizzava tanto più lo sdegno, e pieno di maltalento, giurava pigliar vendetta di quello che chiamava oltraggio. Legna al fuoco aggiungevano quinci i lazzi del bigherajo che non si rassegnava a comparire ingannato, quindi il vile cortigiano Ramengo, che, per sue ragioni malvolto verso la Pusterla, sapeva con arte fina esacerbare contro di lei il principe, sperando addensare un turbine sul capo della innocente.

la speranza scellerata gli fallì. Da quel punto l'amore, dirò meglio, il voluttuoso capriccio di Luchino, attraversato, si converse in fiera collera: e con profonda atrocità si propose, così in generale, di perdere quella infelice. Occasioni di nuocere a un nemico non vengono scarse al potente, e pur troppo gliene offrono talora le stesse vittime designate, talora gli amici di quelle. Fu il caso.

Alpinolo, coll'impeto sconsigliato a lui naturale non si limitò ad adempiere la commissione di Margherita: la quale anzi gli aveva ingiunto di risparmiare a suo marito la cognizione d'un oltraggio, per resistere al quale ella sentiva abbastanza forte stessa, non abbastanza forte lo sposo per accoglierlo come uom deve, o per legittimamente punirlo. Ma se a lei la prudenza insegnava a rivelare il men che si può de' guai irremediabili, Alpinolo era invece persuaso che il mostrare le piaghe equivalga a rimediarvi. Non appena dunque ebbe inviato frà Buonvicino alla signora, senza farne motto ad alcuno tornò fuori di città, e tirò per la più breve a Verona.

Senza dar riposo mai al suo corpo, senza distinguere il fitto meriggio dalla notte più fonda, stancando la cavalcatura, non l'indomito suo corpo, scorreva paesi e paesi, ma ancora più a furia trasvolava il pensiero, in un delirio di fantasie, vie più incitato dalle memorie dei luoghi per cui traversava.

In Crescenzago era morto Matteo Visconti: - Anch'essi questi grandi, questi prepotenti finiscono come l'ultimo della plebe. Oh se anche adesso il papa volesse parlar alto, e quando uno si fa tiranno, negargli le consolazioni della religione, la comunione coi fratelli!» A Gorgonzola il re Enzo era caduto prigione dei prodi Lombardi: - Ora vanno essi a prigione dei principi». Al ponte di Cassano i Milanesi avevano respinto Federico Barbarossa; una lega benedetta dalla croce, v'avea fiaccato l'orgoglio di Ezelino...; Treviglio stava libero ancora; - Possa conservarsi

Così al forte di Caravaggio, così a quelli di Mozzanica e d'Antignate erano accoppiate ricordanze, vive perchè recenti, perchè ripetute dai padri ai figliuoli.

Scorrendo il territorio bergamasco, Alpinolo si ricordava di quando v'accorreano d'ogni parte gl'inviati della città, per giurare a Pontida la reciproca difesa. Brescia gli tornava a mente i figliuoli, attaccati dal Barbarossa innanzi alle macchine murali, e nullostante percossi dai genitori, affinchè la pietà paterna non guastasse la patria libertà. Il lago di Garda, le rôcche di Lonato, del Sirmione, di Peschiera, di Castelnuovo per cui passò, le tante altre onde vedeva irte le alture, gl'inspiravano un fiero coraggio, un orgoglioso dispetto, paragonando il passato col presente; vedendo tutto oro in quello, in questo tutto fango e sozzura.

Alle mura dei borghi e delle città, ai palazzi del Comune, ai tempj, ai canali che crearono la fertilità d'intere provincie, egli domandava: - Chi vi ha compiti?» e tutti pareangli rendere una sola risposta: - La libertà. Ma ora  (soggiungeva nella infervorata fantasia) perchè non altrettanto? perchè le braccia non basterebbero ad abbattere questi tirannetti che minacciano tremando? e render alla patria le franchigie e il primitivo splendore?.... Perchè siamo divisi».

Al mezzo del seguente giorno pervenne a Verona, dove, per usar una frase diplomatica, regnava l'ordine sotto la tirannia dei signori della Scala. Capo della fazione guelfa in Italia era di quei tempi Roberto re di Napoli, della ghibellina gli Scaligeri e i Visconti. I Guelfi (e chi nol sa?) teneano col papa, i Ghibellini coll'imperatore, secondo credevano che l'un o l'altro potesse meglio giovare alla patria ed alla libertà. Ma poi e papa e imperatore erano stati messi da banda: il primo risedendo in Avignone, allontanava la speranza di proteggere l'Italia o forse d'unirla in un solo dominio: gli altri, senza forza, denari, opinione, solo si reggevano in quanto erano sostenuti dai diversi principotti; onde, conservando pure gli antichi titoli di fazione, e Guelfi e Ghibellini non miravano che a crescere in dominazione.

Estendere la loro su tutta Italia era l'intento sì dei reali di Napoli, sì dei signori di Milano e di Verona: ma appunto per ciò si contrastavano gli uni gli altri; di modo che la politica, la quale, nei due secoli precedenti, aveva operato a passioni ed entusiasmo, in questo era ridotto a calcolo e ponderazioni; e gl'Italiani avevano inventata quella bilancia di poteri, che divenne poi norma universale in Europa, e fu non poche volte sostituita al diritto e alla giustizia.

Lunghi e fieri contrasti avevano tolto il re Roberto dalla speranza di signoreggiare tutta Italia; ora a ciò avevano l'occhio Mastin della Scala, e Luchino Visconti. Era Mastino succeduto a Cane suo zio, quel gran lombardo, la cui cortesia  fu il primo rifugio e il primo ostello dell'esule Allighieri:  e nessuna delle virtù, ma tutti i talenti n'aveva ereditato  e l'ambizione: comandava a nove città, state capitali d'altrettante repubblichette, e ne traeva in gabelle settecentomila fiorini d'oro; potè mandare a spedizioni lontane fin quattromila cavalli; e chiesto dai Fiorentini di vender Lucca per trecensessantamila zecchini, rispose non aver bisogno di quelle miserie.

Conveniente a tanta ricchezza era lo splendore di sua Corte, ove dava anche magnifico ricetto agli uomini illustri, costretti ad esulare dalla patria, assegnando a ciascuno agiati appartamenti, con dipinture allusive al loro stato e grado; e sino a ventitrè signori vi si trovarono raccolti una volta, i quali avevano tenuta, e per varie guise perduta la dominazione di qualche città.

Non è qui il luogo di descrivere le arti, per cui andava acquistando preponderanza sull'Italia, del cui dominio erasi lusingato a segno, che fece preparare un diadema tutto gioje per coronarsene re. Ma una lega degli altri principi, istigata dalla gelosia dei Visconti, gli ruppe il disegno; del che egli voleva il maggior male ai signori di Milano, e non cessava di scalzarne l'autorità. La mossa mal riuscita di Lodrisio fu tutta maneggio di Mastino: ma fallita quella, perduta anche Padova, conobbe che non era il caso di usare la forza aperta; e voltosi agli scaltrimenti, propose patti. Per conchiudere questi era stato da Luchino, siccome vedemmo, prescelto il Pusterla, sì per allontanarlo dalla moglie, sì ancora perchè, conoscendo come costui non gli fosse troppo affezionato, si persuadeva condurrebbe la cosa tanto tiepidamente, da non istringer un nodo al quale egli era inclinato da vero, vi credeva inclinato lo Scaligero, di cui anzi sempre nuove macchinazioni gli venivano all'orecchio.

Che se Mastino cercava pace, v'era stato indotto anche dalla scomunica lanciatagli dal papa, perchè, il 27 agosto 1338, esso e Alboino fratel suo aveano per le vie di Verona, scannato il vescovo Bartolomeo della Scala, per astio privato, dando poi voce ch'egli tenesse intelligenza coi Veneziani e i Fiorentini per consegnare in man loro Verona, ed ammazzare i due signori. Della scomunica ei si risero da principio; ma quando videro le loro cose andar a fascio, pensarono davvero a torsela di dosso col sottoporsi a pubblica penitenza.

Grave penitenza, giacchè richiedeva che, per quaranta giorni, portassero e notte il cilizio, andassero scalzi e col cappuccio sugli occhi; giacessero sul pavimento; non lavarsi, non radersi, non tagliare l'unghie, non conversare, non accostarsi alla moglie, sedere per terra; sul desco ignudo non mangiare, carni, uva, cacio, pesci; puro pane e acqua tre giorni la settimana; levarsi al tocco del mattutino, assistere agli uffici fuor di chiesa, oltre recitare certe orazioni. Però non appena essi impetrarono perdono, la penitenza fu mitigata; e il che Alpinolo vi giunse fu appunto quello in cui essi Scaligeri facevano l'ammenda imposta. In camicia, a capo nudo, esso l'incontrò fuori la porta di Verona, donde fino alla cattedrale andarono con in mano un doppiere acceso, di sei libbre, e facendone portare innanzi a altri cento somiglianti. Venuti poi alla chiesa (era domenica e tempo di messa solenne) offersero quei ceri, chiesero perdono ai canonici, e furono ribenedetti. In aggiunta dovevano, entro sei mesi, offrir a quella chiesa un'immagine di nostra Donna d'argento e dieci lampade, con una rendita bastante a tenerle accese: e istituirvi sei cappellanie con venti fiorini d'entrata ciascuna. L'anniversario dell'uccisione del prelato, ciascuno dei due peccatori dovea nodrire e vestire ventiquattro poveri: digiunare tutti i venerdì: se mai si facesse il passaggio in Terrasanta, mandarvi venti cavalieri, mantenuti per un anno. Il papa di rimpatto, oltre assolverli, li nominava vicarj, essendo vacante l'impero, contro un annuo tributo di cinquemila fiorini.

Acconciatosi anche col pontefice, tanto meno si sentiva Mastino la voglia di accettare i gravi patti proposti dal Visconte. Era dunque mancato il principale oggetto dell'ambasceria del Pusterla, sebbene riuscisse in una commissione segretamente affidatagli da Luchino; ed era di ottenere che lo Scaligero non lasciasse più uscire dai suoi Stati Matteo Visconte, fratello di Barnabò e di Galeazzo, inviato anch'esso in aspetto di ambasciatore, ma in fatto perchè a Milano egli dava ombra allo zio.

Fino a servire alle segrete intenzioni ed ai sottofini di Luchino erasi lasciato indurre il Pusterla dall'ambizione, dal piacere di piacer al padrone. Ora pensate qual dovesse egli rimanere allorquando Alpinolo, colle vive tinte somministrategli da un'esagerata immaginazione, a sbalzi, a scosse gli espose gli osceni tentativi di Luchino. Nessun maggiore dispetto che sperimentare ingrato colui, per cui vantaggio siasi commesso un'ingiustizia, un peccato. Lo provava Franciscolo, il quale esacerbato contro Luchino quanto dianzi trovavasi a lui ben vôlto, scoprendo essere un nuovo oltraggio quello ch'esso aveva accettato per una riparazione degli oltraggi antichi, risolse senza più di abbandonare il suo posto e tornare alla città, pieno di truci pensieri, e della speranza non solo di ovviare lo scorno, ma di potersene vendicare.


 

 

 





7 E in prose e in versi di quei tempi ci è serbato memoria del fatto.

 

Malerba ch'era nel corno destro, blasfemava sancto Ambroxio in soa lingua. - Maledetto quel camisone bianco che ha menazzato colla scutica! mai la spata mia a potuto far colpo. - Queste parole di Malerba furono hodite da tutti. Et siccome Dio, facto uno funicolo, caccioe quelli compravano nello templo, così el spirito di sancto Ambroxio spartì loro barbari come se fosse tratto ogni generatione di bombarde.

 

E Gaspare Visconti cantava, in bocca d'Antonio Visconti:

 

A Parabiago, rotto il nostro campo

Era, e già preso il mio fratel Luchino,

E la nemica schiera fea tal vampo,

E ognuno di noi di morte era vicino,

Visibilmente, in aria deste un lampo

Che se po' dir celeste, anzi divino,

Col camisotto bianco et con la sferza,

Che alcun non resse alla percossa terza.

 



8 Fu poi demolito nel 1864; come furono cambiati i nomi di molte vie e delle porte; gran segno di rigenerazione, e forse unico.



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