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LA CONGIURA.
- Buon Gesù, che foste anche voi pargoletto, e sin d'allora cominciaste a soffrire, e crescevate in età e sapienza, soggetto ai vostri genitori, ed acquistando grazia presso Dio e presso gli uomini, deh vogliate custodire la mia fanciullezza, fare che io non contamini l'innocenza; e che le opere mie, conformi al voler vostro, promettano bene di me ai parenti ed ai cittadini miei.
- Buon Gesù, che tanto bene voleste ai vostri genitori, vi sieno raccomandati i miei; benediteli, date loro pazienza nei travagli, forza nell'obbedienza, e la consolazione di veder crescere me quale essi desiderano nel timor vostro.
- Buon Gesù, che amaste la patria sebbene ingrata, e piangeste prevedendo i mali che le sovrastavano, guardate pietoso alla mia; sollevatene i mali; convertite coloro che colle frodi o colla forza la contristano; alimentatele la fiducia del bene, e fate che io possa divenire un giorno cittadino probo, onorevole, operoso».
Così faceva ripetere la Margherita al suo Venturino, che le stava inginocchiato davanti, tenendogli le manine giunte fra le sue mani. Una madre che insegna pregare al suo figlioletto, è l'imagine più sublime insieme ed affettuosa che possa figurarsi. Allora la donna, elevata sopra le cose terrene, somiglia agli angeli che, compagni della vita, suggeriscono il bene e ritraggono dal peccato. Al bambino poi, coll'idea della madre, si stampa in cuore la preghiera ch'essa gl'insegnò, l'invocazione al Padre che è nei cieli.
Giovinetto, allorchè le lusinghe del mondo vogliono avvoltolarlo nelle voluttà, esso trova il coraggio di resistere, invocando quel Padre che è nei cieli.
Va tra gli uomini; scontra, la frode sotto al velo della lealtà, illusa la virtù, beffeggiata la generosità, caldi nemici e tepidi amici; freme e maledirebbe l'umana razza, ma si ricorda di quel Padre che è nei cieli.
Se, mai il mondo lo vince, se l'egoismo, la viltà germogliano nell'animo suo, vive però in fondo al suo cuore una voce amorevolmente austera, come quella della madre allorchè gl'insegnava la preghiera a quel Padre che è nei cieli.
Così traversa la vita, poi sul letto dell'agonia, deserto dagli uomini, non accompagnato che dalle opere sue, volge ancora il pensiero ai giovanili suoi giorni, a sua madre, e muore con una fiducia serena in quel Padre che è nei cieli.
E questa preghiera faceva ripetere la Margherita al devoto pargoletto: indi, spogliatolo ella stessa colle pietose cure che alle madri vere non sono un peso ma la soavissima delle dolcezze, lo coricava, il baciava, e coll'effusione della materna compiacenza, gli esclamava sopra, - Tu sarai buono!»
Non appena giù. Venturino aveva chiuse le pupille a quel caro sonno della fanciullezza, che in braccio agli angeli si addormenta senza un pensiero, senza un pensiero si desta.... Beati giorni! i più belli nella vita: - e non sono avvertiti.
Margherita contemplava l'accelerato anelito del bambino: il vivido incarnato, che il sonno gli diffondeva sulle guance, la invitò a baciarlo, e le brillava in volto quell'ineffabile contentezza, che non sa se non chi rimase assorto nell'osservare chiusi due occhi, che devono sorridergli amorevoli allo svegliarsi.
Staccatasi da lui, la Margherita si fece nella sala dove stavano quella sera accolti gli amici più fidati della casa, venuti a salutare il tornato Francesco. La gioja del rivederlo avea nella donna compensato i dispiaceri cagionatile, dalla sua lontananza; e fatta come era per sentire le dolcezze domestiche, le pareva che, al rivedersi dopo qualche tempo di assenza, dopo un pericolo, nulla dovesse piacer meglio al marito che starsene quieto colla moglie, col figlioletto, tre vite in una. Ma altri pensieri bollivano nell'anima di lui, e tutto il dì non sapeva che ragionar di vendette, e macchinarne.
A Verona non aveva dissimulato a Mastino l'oltraggio nuovo e l'antico rancore: del che profittando pei fini suoi, lo Scaligero il rinfocò, e gli promise che, qualunque risoluzione prendesse, non gli verrebbe egli meno di assistenza e protezione. A Matteo Visconti, per quel che mostrarono poi i dissolutissimi suoi portamenti, non dovevano fare schifo le scostumatezze dello zio: ma volenteroso di sommovere lo stagno per pescarvi, egli aggiunse nuovo ardore alla stizza del Pusterla, e gli diede lettere per Galeazzo e Barnabò suoi fratelli, dove gli esortava a ricordare chi erano, e profittare dell'occasione per finirla una volta di rimanere schiavi, com'egli si esprimeva, ad un prete e ad un manigoldo.
Tornato il Pusterla a Milano nascostamente, nè la bandiera sulla torre annunziò la venuta sua, nè la solita scolta d'uomini d'arme vegliava alla porta. Ma poichè tutto il giorno ebbe tempestato là entro, senza che la donna sua valesse a mitigarlo, abituato alla vita clamorosa, ai circoli, alla discussione, bisognoso di sempre nuove e forti emozioni, neppur quella prima sera egli seppe rimanersi tranquillo in famiglia: ma d'ordine suo, Alpinolo aveva recato l'avviso di sua venuta agli amici coi quali più si confidava, e questi la sera, un dietro l'altro, per una portella segreta verso la via segreta dei Piatti entravano a ritrovarlo e consolarlo.
L'esteriore del palazzo era muto, oscuro, talchè si sarebbe detto disabitato. Ma non appena Franzino Malcolzato, tristo arnese e fido portiere, aveva fatto passare gli amici dalla corte rustica in una seconda, venivano accolti da valletti eleganti in vesti aggheronate a giallo e nero, i quali, reggendo torcetti di cera, gl'introducevano ad una vasta sala terrena isolata nel mezzo dell'edifizio, e attorniata dal giardino. Arazzerie storiate coprivano le pareti; qui e qua scansie, con suvvi vasi e piatti di majolica a rilievo di frutte colorate, e due ampj finestroni, aperti a ciascun lato e incortinati di zendali a partite di vaghissimi colori, davano accesso all'aria della sera, temperando graziosamente la caldura del giugno. Quivi entro, chi attorno a Franciscolo, chi seduti sui capaci scanni di velluto, chi presso ad una tavola, su cui avevano gettato alla rinfusa guanti, mantelli, spade, berretti, discorrevano, narravano, chiedevano, udivano. Si discernevano dagli altri il bollente Zurione, fratello del Pusterla, il moderato Maffino da Besozzo, Calzino Torniello da Novara, Borolo da Castelletto ed altri arrabbiati ghibellini, cui ora veniva lezzo d'un principe che, per opera loro stabilito, non mostrava di averli in quel conto che s'erano ripromesso.
Ultimi arrivarono i fratelli Pinalla e Martino Aliprandi, d'origine monzesi; il primo gran mastro di guerra, l'altro rinomato giurisperito. Avevano acquistato la grazia del signor Azone coll'aprirgli, nel 1329, Monza, che poi Martino, essendone podestà, cinse di mura; Pinalla la difese contro l'imperatore Lodovico il Bavaro, indi a capo dell'esercito visconteo, campò Bergamo dal re di Boemia; per le quali prodezze, la pasqua del 1338, era stato in Sant'Ambrogio, armato cavaliere insieme col nostro Pusterla. In tal occasione fu a spese di questo aperta una corte bandita, e giuochi d'arme e solennità così sontuose, che a memoria d'uomo le maggiori non s'erano vedute. Ma da quell'auge era Pinalla scaduto allorchè, nell'invasione di Lodrisio, posto a difendere l'Adda a Rivolta, si vide dalle sue truppe vilmente abbandonato, e costretto a fuggire. Una nuova guerra, in cui vendicarsi della noncuranza di Luchino, od almeno con audaci imprese e ben riuscite, cancellare quell'onta, era il suo più vivo anelito.
Tra gente così fatta e in una simile occasione (ben ve lo potete figurare) tutt'altro che pacati avevano ad essere i ragionamenti, dove l'idea degli oltraggi che ciascuno aveva ricevuti in privato, dava risalto ai pubblici guaj. Uscivano dunque in propositi esagerati e violenti contro i dominatori del loro paese, tanto più franchi, quanto più sapevano fedele il circolo tra cui versavano. - Oh sì!» esclamava Franciscolo, allora appunto che la Margherita, coricato il suo bambino, entrava nella sala. - Cotesti vecchi ci van ricantando i mali del tempo della nostra libertà; ogni tratto battagliamenti; un continuo doversi esercitare alle armi tutti, sino i fanciulli: poi ad un tratto suona la martinella; traggono fuori il carroccio, e ognuno, voglia o non voglia, dee vestirsi di ferro, lasciare gli agi di sua casa, i guadagni del mestiere, correre negli aspri perigli della zuffa, o negli oscuri dell'agguato; poi ogni altro giorno rivolte cittadinesche, esigli, diroccamenti, uccisioni... Oh se avessimo un capo che con mano vigorosa ci frenasse! - Così la discorrevano cotesti timidi, a cui natura negò sangue generoso o l'età lo intepidì».
E Zurione interrompendolo: - Codesto è amor di patria! Or mangino di quello che si son preparato. La libertà finì, non finirono le guerre: morti, esigli abbondano, e non più pel bene della patria, ma per sodare costoro nel dominio, per ribadirci da noi le proprie catene. Allora le guerre le volevamo noi stessi, noi stessi le decretavamo: era il bollore di un momento, poi si racquetava, e i frutti maturavano a favor di tutti o dei più. Ora egli solo le comanda a suo talento, per particolari interessi, e noi bisogna farle: nostra la fatica e sua la gloria».
- Dite bene» esclamava Alpinolo: «Sua la gloria. A chi toccò il merito della vittoria di Parabiago? chi ne menò trionfo? chi ne profittò? Han detto: Luchino è valoroso, dunque esaltiamolo signore. - Sì, ma se non fossimo stati noi...
- Oh perchè (ripigliava Zurione) perchè lo ricoverasti tu dalla forca a Parabiago?
- Sarebbe stato certo il migliore a lasciarvelo (entrava a dire il dottore Aliprando): che non si vedrebbero oggi i privilegi dei nobili calpestati, non messi a fascio i Ghibellini coi più marci Guelfi: non aggravati di tributo i gran signori come gl'infimi della plebe, non trascurato chi fu...
- E noi si tace!» saltava su Alpinolo con occhi divampanti, e battendo la palma sulla tavola. «Perchè non possiamo vendicarci? Che? non v'ha più spade? non hanno più nervi le braccia lombarde? Basta voler essere liberi e saremo».
Ed alzava uno sguardo alla Margherita, quasi per cercarle in viso l'approvazione. Margherita era stata dalla prima fanciullezza abituata a udire in sua casa discutere delle pubbliche cose; onde erasi formato un modo proprio di vederle, di apprezzarle; e, rispetto a quei tempi di tanto vivere a comune, il suo favellare di politica non riusciva punto ridicolo, com'è in altre stagioni l'udire una donna decidere su quistioni, davanti a cui stanno dubbj gli uomini più saputi: decidere secondo le impressioni del momento, secondo le massime di chi più le avvicina. L'educazione datale dal padre suo le insegnava a discernere la ragione dalle esagerazioni di quegli infuriati, i torti veri dai pregiudizj della passione. Non potendo però nè calmare l'impeto di loro, nè insinuare i ragionamenti suoi, tenevasi in disparte, e attaccò discorso col dottore Aliprando.
Questo, come uom di lettere che egli era, andava fastoso d'avere ottenuto pel primo in Milano i Rimedj dell'una e dell'altra fortuna, dati fuori allor allora dal Petrarca, e si era fatto premura di recarli quella sera alla Margherita, sapendola amante delle belle novità. Essa interrogando, come si fa, il parere di lui, sfogliava il libriccino, fissando così di corsa gli occhi su questa o su quella carta; allorchè colla bella mano chiedendo un tratto silenzio, in voce soave, al cui suono tutti si tacquero attenti, come se nel baccano d'una taverna si ascolti all'improvviso una dolce melodia di flauto, così favellò: - Udite come ben discorre il libro che qui il dottore mi favorì. Li cittadini guardarono come ruina di nessuno quella ch'era ruina di tutti; onde conviene con pietà e paura cercare di placar gli animi; se non fai profitto presso gli uomini, pregar Dio pel ravvedimento dei cittadini.9
Intese l'indiretta risposta Alpinolo, e - Se ai cittadini manca l'impeto di una concorde volontà, un solo uomo che può fare? che non può il coltello d'un risoluto?...»
Allora l'Aliprando recatosi in mano il libricciuolo, soggiungeva: - Madonna è come l'ape: non liba dai fiori che il miele. Pure l'ape anch'essa ha il suo pungiglione per chi la offende; e volete udire quel che il divino poeta parli altrove? Avete (così leggeva dal libro stesso) avete il signore, a quella guisa che la scabbia avete e la tosse. Idee contraddicenti buono e padrone. Chiamar buono un signore è dir una lusinghiera bugia e manifesta adulazione. Pessimo egli è, da che toglie a' suoi concittadini la libertà, che è il massimo dei beni quaggiù, e per empier la voragine d'un solo insaziabile, rimira a occhi asciutti migliaja di soffrenti. Sia affabile, sia piacevole, sia largo in donare a pochi, le spoglie di molti: arti dei tiranni che il vulgo chiama signori e li prova manigoldi.
- Bene! Bravo! Ben pensato! ottimamente espresso!» scoppiava d'ogni parte fra i congregati. E il dottore contento di quell'applauso come se fosse dato a lui proprio, seguitava:
- Or attendete al più bello: Come laceri li tuoi fratelli, coi quali hai passato insieme la puerizia e l'adolescenza, coi quali usaste il medesimo cielo, i medesimi sagrifizj, i medesimi giochi, le medesime gioje, i medesimi pianti? Or con che faccia vivi laddove sai che la tua vita è odiata da tutti e la tua morte a tutti desiderosa?10. Che ne dite? Vi par egli ravvisar questo ritratto? non è scritto apposta per...
- Per Luchino: chi ne dubita? è tutto lui», ripigliavano a più insieme, e l'uno commentava, l'altro voleva vedere coi proprj occhi le parole sacrosante del grande Italiano, dell'Italiano veramente libero, com'essi chiamavano il Petrarca, senza far caso che egli allora stesse corteggiando i prelati ad Avignone, che lambisse Luchino, e che, misurando la bontà dei principi dalla liberalità, chiamasse il vescovo Giovanni il più grand'uomo d'Italia11; adulazione di cui doveva poi rimproverarlo un altro illustre di quei tempi, Giovanni Boccaccio, rinfacciandogli di vivere stretto in amicizia col maggiore e pessimo dei tiranni d'Italia, in Corte piena di strepito e corruzione, come era la viscontea12.
La Margherita, dolce per naturale e pei prudenti consigli paterni, frapponeva qualche parola per disapprovare gli esagerati spedienti, e mostrava come il lamentarsi a tal modo di un cattivo reggimento non faccia che peggiorare quello, ed invelenire i soffrenti: dover piuttosto, chi lo può, procurare legittimamente di mitigarlo, non mai attizzare fra gli oppressi un'ira impotente: in caso diverso, altro non restare che o soffrire in pace o mutare di cielo. - Mio padre (soggiungeva essa) l'ho inteso più volte replicare: Ai novatori la pazienza. Nessuna riforma può attecchire se non sia radicata nel popolo. E questo popolo non è come amano figurarselo diversi, nè tutto oro, nè tutto feccia. Costretto sempre alla fatica, non si abbandona gran fatto ai sentimenti, e piuttosto calcola i vantaggi immediati. Non ridetevi dei pareri di una donnicciuola. Io ve li do sull'esperienza di mio padre, il quale aveva anche in bocca questo proverbio: Il popolo è simile a san Tommaso: vuol vedere e toccare. Ma voi, come? voi parlate di libertà, e non interrogate il volere del popolo: di virtù, e pensate cominciare dall'assassinio?»
- No, no: dite bene», la sosteneva Maffino Besozzo. «Non a sì estremi partiti si vuol ricorrere. Uccidere un tiranno cos'è mai! domani la plebe se ne fa un altro. È un direzzolare, e non ispegnere il ragno. Miglior via conoscevano i padri nostri. La religione stabilì in terra uno, maggiore dei re, perpetuo custode della giustizia, tutela al debole contro del prepotente. Quando in lui si aveva fiducia e a lui si ricorreva, l'innocenza trovava ascolto e la spada dei tiranni perdeva il filo contro al manto dei papi che copriva l'umanità. Vi ricordi un imperatore, che scalzo domanda a Gregorio VII perdono delle ingiustizie commesse. Quando il Barbarossa voleva soffocare la libertà lombarda, chi si fe' capo della nostra lega? chi impedì che Italia cadesse tutta sotto alla tirannide sveva? chi represse l'immanissimo tiranno Ezelino? Oggi noi diffidiamo della potenza inerme, rimettendoci più volentieri a quella delle spade. Eccovi i frutti».
- Uh! il guelfo ipocrita! - il papista! - il frate!» pronunziavano tra sè gli altri: ma ragioni da opporre a quei fatti non suggerivano facilmente, e perciò rifuggivano nel sofisma. E il Pusterla ripigliava: - Il papa! che sperare da lui? Ligio alla Francia, vuol farsi un regno in terra, nè più nè meno di tutti costoro. Scampo non v'è proprio che nel popolo».
- E il popolo (l'interrompeva Martin Aliprando) il popolo non siamo noi? non è generalmente sentita la gravezza della dominazione dei Visconti? Perchè dunque non dovrà ogni buon cittadino avvisare al meglio della patria? Chi sono costoro? donde hanno il potere? donde se non dal popolo? e il popolo che gli elesse può ritirare da loro l'autorità che ha dato. Questo popolo però o guaisce oppresso, o tace spauroso. Per farne chiaro il voto, unico mezzo è la sommossa.
- E le armi?» soggiungeva Pinalla.
- Lo Stato (riprendeva Franciscolo) è cinto da potenti, o gelosi, od invidi della grandezza di Luchino. Qual più facile cosa che intendersi con loro? A Verona ho veduto quanto basti. Altro che sollecitare l'amicizia di costui! Lo Scaligero non vede quell'ora di mostrargli i denti. E il fatto stesso di Lodrisio attestò che a spegnere il biscione bastava una banda raccogliticcia. Che sarebbe se fosse un capo creduto dal popolo?
- Lodrisio stesso non si potrebbe trarre dalla sua prigione di San Colombano?» addimandava Zurione.
Ma Pinalla in tono di dispetto: - O che? non c'è altri che sappia reggere la spada quanto e meglio di lui?»
- Non c'è (soggiungeva Borolo) altri capi di miglior nome? Bernabò e Galeazzo son pure in urto collo zio: alzerebbero tosto la bandiera se fossero certi di trovare seguaci.
- A proposito, che conto si può fare su costoro?» chiedeva il Pusterla, mezzo indispettito dal non sentire proposto sè stesso. - Io tengo per essi lettere del loro fratello Matteo: ma non so per quanto spenderli.
- Spiriti liberi son essi, innamorati del pubblico bene e della libertà», gridava Alpinolo, facile a supporre in altrui i sensi suoi proprj. Ma il Besozzo, più esperto e penetrante, replicava: - Della libertà? Aspettiamo a dirlo quando sederanno in potere. Vedete quando altri assedia una città? è tutto cura a demolirne le difese, aprir la breccia, diroccare le mura. Fate che se ne impadronisca; ogni suo studio sarà di rinfrancare i bastioni, raccomodare, saldar le muraglie. Così costoro che aspirano alla potenza.
- E per questo (aggiungeva Ottorino Borro) Luchino gli ha in uggia. Bernabò per altro fa il sornione, e si mostra con noi voglioso di libertà, con lui spensierato del dominare. Il bel Galeazzino poi se la passa pompeggiando in comparse, e dividendo con Luchino il talamo giacchè non può il trono».
Un'ilarità universale destavasi a quello scherzo, di mezzo alla quale Zurione tornava su: - Ma che mestieri di rivenir sempre a cotesta famiglia, che Dio perda? Ci hanno bistrattato i loro padri, dunque assumiamo capi i figli: bell'argomentare davvero! Mancano cittadini generosi e potenti in città? Manca fuori chi ne darà mano? Qualche nemico si muova, noi lo assecondiamo...
- E una folla di persone innocenti si precipita sotto le spade per l'acquisto di un bene che non conoscono, che forse non vogliono, e si trae sulla patria la guerra, e guasti, e ammazzamenti, e prepotenze, e un esito incerto, o forse una vittoria, cui unico frutto sia mutar padrone».
Così aveva la Margherita interrotto il cognato, esponendo coll'aria di calmo convincimento che è proprio della ragione. Ma non è questo il tono che faccia colpo sopra animi concitati e: - Con queste dottrine di nulla mai si verrà a capo. Il ben pubblico deve preferirsi al particolare. - Nessuna impresa più santa che liberar la patria», esclamavano gli uni a gara degli altri: e Franciscolo con guizzo di dispetto proruppe: - Ebbene; si stia colle mani in mano: facciamoci pecore, perchè il lupo ci mangi: taciamo, e colui conculchi i nostri privilegi, contamini le nostre donne...»
Appena questa parola gli fu uscita dalla gola, accorgendosi che fitta dovesse dare alla moglie sua, se ne pentì: ma era detta. Facendosi appresso a lei la accarezzava, le dava ragione, le ripeteva il titolo di cui ella mostrava più compiacersi; quello di «mia buona Margherita»; però quella sua parola era stata accolta con un bisbiglio di approvazione, e aveva drizzati i discorsi sopra l'insulto tentato da Luchino, e sopra altre dissolutezze e sue e dei suoi. Chi ricordava il fatto del Lando di Piacenza: chi quello di Umbertino da Carrara, il quale, oltraggiato nella moglie da Alberto della Scala, alla testa di moro che portava per cimiero fece aggiungere corna d'oro, e poco andò che, per suo maneggio Padova fu tolta agli Scaligeri. - Non è la prima volta che uno perde una bella città per aver tentato una bella donna. - Gloria immortale ai liberatori della patria! - Gloria a Bruto ed a' suoi imitatori! - Oh la libertà! Viva la repubblica! Viva Sant'Ambrogio!» erano voci che facevano echeggiare la sala; e siccome allo scaricarsi della bottiglia elettrica, tutti rimangono scossi quelli che stanno entro la sua atmosfera, così quei Lombardi venivano agitati tutti dal parlare d'un solo; alla guisa che avviene nelle moltitudini, l'ardor dell'uno trasfondevasi in tutti; tutti parlavano, ognuno rincalzava le ragioni dell'altro e ne aggiungeva di proprie; i più seguitavano a ripetere ciò che essi ed altri già prima avevano detto: era quel vortice che trascina, quell'ebbrezza che non lascia luogo a peso e misura. Tanto più allorquando in mezzo all'adunata comparve un moretto, vestito di bianco alla orientale, con grosse perle agli orecchi, al collo: il quale, con alzate le braccia al modo di certe anfore antiche, reggeva sopra il lanoso capo un vassojo d'argento in forma di paniere, nel quale erano disposti d'ogni sorta rinfreschi e confetture. Insieme un paggio recava una sottocoppa d'oro cesellato, sulla quale una capacissima tazza, del metallo istesso e di fino artifizio, entro cui un altro paggio, da una brocca d'argento, versò vino prelibato. Primo Franciscolo, a cui fu offerto in ginocchi, l'accostò alle labbra, indi mandò in giro fra gli amici la coppa che più volte venne ricolma, talchè l'amor di patria fu riscaldato dal generoso liquore
- Un brindisi alla libertà di Milano», propose Alpinolo.
- Sia, sia», replicarono tutti, e votando le tazze, gridavano: - Viva Milano! viva Sant'Ambrogio!»
- E muojano i Visconti» aggiungeva Zurione, e non mancava chi facesse eco a questa voce, senza che alcuno si levasse, come in tempi da noi poco lontani il Parini, a correggere quel grido col dire: - Viva la libertà, e morte a nessuno».
- Già non è cosa da finire così», esclamava il Pusterla. E il Borro: - Ne va del bene della patria, dell'onore lombardo, della domestica sicurezza.
- Si, sì: bisogna pensarvi di buon senno; - prendervi su qualche bravo partito», gridavano a vicenda o insieme i due Aliprandi, il Borolo e gli altri; indi con quelle potenti strette di mano, con cui pare si voglia esprimere senza parole quanto valga l'accordo della volontà, si congedavano, e gettatisi sulle spalle i mantelli, calcatisi i berretti in capo, se ne andavano un dopo l'altro, promettendosi di tacere, di pensarvi, di rivedersi.
La Margherita, appena il discorso si volse sopra l'ingrato argomento, che le rimembrava l'oltraggio ricevuto e il dispiacere di non aver potuto tenerlo nascosto, lasciò la sala e ritirossi alle domestiche occupazioni. Se dicessi che affatto le riuscisse disgustoso quell'ardore non mostrerei conoscere il cuor delle donne, sempre disposto a gradire gli atti che annunziano generosità, impeto, vigoria di volontà: forse perchè confidano trovare un appoggio più saldo alla debolezza, che è, o che noi le persuadiamo essere loro appannaggio. Certo quei nomi di patria, di libertà, d'eroismo, se v'ha su cui vivamente facciano impressione, sono le donne; e la Margherita non era di natura dall'altre differente.
Un sovvertimento civile poi era un'idea abituale di quei tempi di vivi dispetti, d'immaginose speranze, di cozzanti interessi, quando le lotte, che oggi vediamo agitarsi sulle tribune e nei giornali, si risolveano nelle piazze e a colpi di stocchi. Milano singolarmente, negli anni precessi, era corsa per assidua vicenda di tumulti, tanto da far dire a san Bernardo che egli non aveva trovato nel mondo gente così facile a rivolgersi e sconvolgersi quanto il popolo nostro. E quantunque allora le cose prendessero altro assetto, fino ad avere il Petrarca potuto chiamare i Milanesi i più miti tra gli uomini13, però la memoria del passato era ancor viva e vivrà, come vive e vivrà la ricordanza delle clamorose imprese di Napoleone, sebben noi non le abbiamo vedute.
Pure v'ha dei discorsi, delle azioni che uno non sa disapprovare e insieme non vuole sanzionarle colla sua presenza. Tal era questo baccano per Margherita, la quale però era affatto lontana dal temerne verun danno, sì perchè i governi d'allora, piuttosto violenti che astuti, non conosceano l'arte di spargere fra i governanti il sospetto, più micidiale che la paura, col cingerli di spie e di timor delle spie: sì ancora perchè quelli radunati da Franciscolo erano persone fidate alla prova: tanto fidate, che egli non aveva esitato a manifestar loro la sua onta e la venuta sua a Milano, cose che dovevano per tutti gli altri restare un mistero. Imperocchè erasi preso accordo, principalmente col consiglio di fra Buonvicino, che la Margherita col figliuolo seguirebbe lo sposo, per rimanere con esso nel Veronese, fin a tanto che il tempo recasse migliori opportunità.
Aveano dunque lesta ogni cosa alla partenza, che era stabilita per la notte dell'altro domani: ma il domani sta in mano di Dio.