Cesare Cantù
Margherita Pusterla

CAPITOLO VI. UN'IMPRUDENZA.

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CAPITOLO VI.

 

UN'IMPRUDENZA.

 

Quell'adunanza erasi tenuta la sera del 18 giugno 1340: e i più dei convenuti, col dormirvi sopra, ne avranno dimenticato i discorsi; probabimente gli avrà dimenticati lo stesso Pusterla.

Ma bollivano per entro la fantasia del giovane Alpinolo, il quale, a forza di rimestarli, e volgerli, e interpretarli, vi diede corpo; dove non erano che parole, immaginò fatti: le minacce scambiò per disegni, i desideri per macchinazioni; e da una parte coll'impeto a lui naturale, dall'altra colla insana passione di certi pari suoi di tenersi alcunchè qualvolta si trovino avviluppati in qualche caso di criminale, si credette depositario del segreto di una trama, la quale potesse, a vedere e non vedere, dare il tracollo ai presenti tiranni - Certo (egli ragionava tra e ) il Pusterla intendeva più che non sonassero le parole. Un uomo di quella levatura vorrebbe nodrire speranze e passare a minacce quando non si sentisse le spalle al muro? A me non apersero tutta la cosa, e in ciò li lodo. Qual merito ho io per entrare a parte di trattati, ove ne va la sorte di tutta la Lombardia? Ma lascia fare; saprò ben io mostrare quel che vaglio: saprò ben io fare acquisto di loro confidenza col guadagnare un mondo di proseliti a causa così santa».

Per tale argomento, fu coi suoi più fidati amici, con quelli di più nerbo e di più cuore, e che in particolare si mostravano sviscerati della libertà, famelici di cose nuove, invogliati di menar le mani, e gl'infervorò, ed ingegnossi di diffondere la sua fanatica persuasione, facendo intendere che si tenessero per avvertiti, che il cielo si caricava, che il tumore stava per venire a capo. Alcuni l'ascoltarono cupidi e volentieri, perchè v'è un gran numero, non meno allora d'adesso, ai quali ogni cambiamento, ogni soqquadro suona fortuna o miglioramento; altri si stringevano nelle spalle dicendo, - Se saranno rose fioriranno». Vi fu chi lo trattò da delirante o millantatore, quasi o sognasse, o volesse farsi tenere un pezzo grosso; e costoro riuscivano i più funesti; giacchè, piccato dall'incredulità o dall'insulto, smaniavasi a due braccia per acquistar fede alle sue parole; e tra il fervore della sua disputa, uscire il nome del Pusterla e degli Aliprandi e del signor Galeazzino e di Bernabò, e del terzo e del quarto, che parte ci avevano mano, parte, al modo suo di ragionare, doveano avervela indubbiamente. Così il secreto suo, secreto d'un affare che era, si può dire, tutto nella sua immaginativa, divenne il segreto di molti giovinotti di poco cervello e di molta lingua, che lo propagarono ciascuno nel circolo de' suoi amici: sempre, come avviene al passar di bocca in bocca, dando per assoluto il probabile, per certo l'accennato; e ciascuno, per dimenticanza, per vanità, per millanteria aggiungendovi qualche cosa del suo.

Ad Alpinolo poi bastava che uno gli gettasse gli occhi addosso per comprendere come un vivo pensiero l'agitava dentro. Che, a furia di ripetere una falsità, alcuno finisca a persuaderla a stesso, non è osservazione nuova. D'altra parte Alpinolo, se la congiura non v'era, egli stesso l'aveva fatta davvero; aveva parlottato, aveva concertato tutto un , e col discorrerne rinfocata la passione e la persuasione, aveva ai suoi amici stretta la mano in segno di dire: - Ci rivedremo; faremo; diremo»; con alcuni avea giurato odio ai Visconti e morte ai tiranni, per Dio, per la sua porzione di paradiso; aveva forbito le armi sue, calcolato su quelle degli amici, sulle più che stavano nelle botteghe.

Galvano Fiamma, allora professore di teologia nei Domenicani a Sant'Eustorgio, poi capellano e cancelliere di Giovanni Visconti, nella sua Storia Milanese ci lasciò memoria come qui si contassero ben cento fabbriche d'armi, oltre i lavorieri subalterni di ferrareccia; in cui si occupavano da diecimila persone; se ne facevano, soggiunge egli, di lustranti come specchi, le quali spedivansi fino a' Tartari e Saracini. Per potere esser meglio sopravvegliate dai loro abbati e consoli, e da chi doveva far osservare le minute prammatiche, credute necessario al buon andamento, le varie arti stavano distribuite in appositi quartieri, come accennano i nomi tuttora conservati alle vie degli Orefici, dei Mercanti d'Oro, dei Fustagnari: e in quelle che oggi pure diciamo degli Armorari, degli Spadari, degli Speronari, aprivano le botteghe e le fucine tutti gli armajuoli.

Su e giù per queste vie, non vi saprei contare quante volte passeggiasse, o dirò più giusto, camminasse Alpinolo, occhieggiando per entro, e facendo il computo di quanti uomini se ne potrebbero guarnire. Da per tutto era un picchiar di martelli, uno stridere di lime, un soffiar di mantici, un cigolare di mole d'arrotini, un friggere di ferri roventi tuffati nell'acqua o nell'olio; e fra ciò un bociar di padroni, un fischiare e canticchiar degli opranti; suono che ad Alpinolo facea miglior sentire, che non l'accordo di scelta orchestra ad una fanciulla di quindici anni, condotta la prima volta ad un festino. Al vedere poi dentro e di fuori appiccate agli arpioni alla rinfusa, o disposte a guisa di trofei, ronche, partigiane, daghe, stocchi, palosci, balestre, spadoni a due mani, zagaglie, corazze di lamina, di maglie, di squame, buffe, morioni, e scudi rotondi, a cuore, a doccia, di frassino, di cuojo, di metallo, ne veniva al giovane un sollucheramento, quale ad un avaro in contemplando mucchi di zecchini in bisca; o più innocentemente ad un letterato, allorchè traversa per una via dove siano libri di qua, libri di e in fantasia li compra, li legge, li studia, li adopera per far altri libri e immortalarsi.

In alcune di quelle ferrarie entrava Alpinolo, e domandava quanto potesse comprarsi un petto, quanto una cervelliera, quanto valesse un uomo arnesato a piastra e maglia dal cimiero agli sproni: non comprava nulla, ma lasciava intendere così in nube, che potrebbero venir a taglio e presto. I fabbri l'ascoltavano e rispondevano: - Magari! Già noi braccianti, che cosa si desidera? non già che ci diano i quattrini a ufo, ma che ce li facciano guadagnare»; interrompevano il lavorìo per la ciarla.

Singolarmente sulla cantonata degli Spadari, per voltare dove allora era l'unico forno del pan bianco, famoso sotto il nome di prestiti della Rosa, e dove stette fino ai nostri un'effigie di sant'Ambrogio, cui toccò, tempo fa, di andare prigione per aver voluto fare un miracolo che ai Giacobini non garbava, stava casa e bottega un tale Malfiglioccio della Cochirola, il cui padre lavorando s'era acquistato assai credito e dei buoni denari. Il Malfiglioccio subentratogli, argomentando che, se il padre suo avea fatto bene, anche egli dovea continuare sulle orme di esso senza scattare d'un pelo, si guardò bene dal voler ammettere nella sua fucina nessuno dei miglioramenti che, secondo va il tempo e la pratica, aveano gli altri introdotto; anzi li derideva come novità, bizzarrie della moda, che domani cascherebbero.

- Sempre s'è fatto così (diceva) e di ragione la sapevano più lunga i padri nostri, i quali tornavano già di scuola quando codesti guastamestieri non vi andavano ancora». Che ne avvenne? il solito effetto. Le sue pratiche si sviarono, e mentre cresceva il da fare agli altri, a lui non capitava più che da raccomodare qualche vecchia armadura di qualche ambrosiano tagliato all'antica, e delle antiche usanze tenace.

Alpinolo, vedendolo stare soletto in bottega a tirar con pace il mantice, e con pace rivoltare un ferro nei carboni, non temendo scioperarlo, attaccò più lungo discorso con esso, e lamentate le miserie dei tempi, gli accennò che potrebbero anche mutarsi.

- Così fossesospirava Malfiglioccio. «Vi so dire che non si guadagna neppur l'acqua da lavare le mani. Chi ha famiglia bisogna stia a stecchetto, e rosichi pan e pane: e la è bazza quando la festa possiamo fare il miglio in vino. Uh, a rispetto di tempo fa! di quando la buon'anima di mio padre era abbate della nostra maestranza! Che lavorare! che coccagna! I fiorini fioccavano a casa nostra. Qua un palvese, una manopola, poi un frontale, poi schinieri: tre soprastanti e cinquanta garzoni noi si aveva a servigio, e avessero avuto cento braccia, per tutti v'era da lavorare accaniti notte e , che appena se avanzava tempo da mangiare un boccone strozzato. Ora tutto pace, tutt'acque morte; pare non si sentano più sangue nelle vene. Questi frati non sanno se non predicar pace. Cosa credono, che Domeneddio ci abbia fatto le braccia per tenerle spenzolone? Se la dura di questo piede, si può chiuder bottega e metter baracca di ferravecchio.

- Vi piacerebbe dunque che tornassero quei tempidomandava Alpinolo.

- Se mi piacerebbe! Darei la metà del poco che ho per vedere ancora una brava guerra. E ce n'ha di molti, sapete, in un Milano, ce n'ha di molti cui pizzicano le mani. E, viva Dio, la guerra a chi non piacerebbe? si vede quel che un uomo vale: si acquista onore, si acquistano stipendj; un po' si guadagna, un po' si ruba, e tutto il mondo ne ha».

Alpinolo, straccontento d'aver anche il voto degli artigiani, - Ebbene (soggiungeva) state di buon cuore: il rimedio non è lontano. Mettete ordine ai ferri del vostro mestiere, che avrete a lavorare di buon polso: ve lo prometto.

- Sì? davvero? (insisteva l'armajuolo). Bene! Il mio negozio godette sempre credito assai, e non v'è arma colla lupa che regga al paragone delle mie. E quanto ai prezzi, cortesia con tutti, e più con voi che siete degli avventori».

Indi salutando Alpinolo che partiva, e ripetendogli, - Mi raccomando», gli faceva di berretta, poi mettevasi a sportello colle mani in mano a disapprovare le novità, e masticarsi le speranze.

Non mi sarei arrischiato di degradare la dignità della storia con queste trivialità, se fossero state per Alpinolo nulla più di quel che siano per la maggior parte un mezzo di incantare la noja che strascinano da un conoscente all'altro. Per esso al contrario erano un interrogare il pubblico voto; erano nuovi fili di speranze, dietro ai quali più sempre certo si rendeva che la cospirazione esistesse, che stava per sovvertirsi da capo a fondo lo Stato.

Nei quali sogni pensate come egli mescolasse le affezioni sue private! Abbatter quel giudice e surrogargli quell'altro: a quel podestà tutto Visconti serbare la fine di Beno dei Gozzadini, cioè trascinarlo per la città, poi buttarlo nel canale; Luchino, quel maledetto Luchino, metterlo a brani, e al posto suo collocare (già ve lo immaginate) collocare il Pusterla e quell'angelo della Margherita. Allora, giustizia in ogni cosa; non più tributi, non più impacci; allora i buoni in alto e i malvagi sotto; allora... Che bei tempi! che viver d'oro! quante nuove glorie! quanta universale felicità!

Caldo, briaco di questi pensieri, e già parendogli trovarsi al fatto, Alpinolo entrò nel Broletto Nuovo, quello che oggi chiamiamo Piazza dei Mercanti. Credo che molti al pari di me si saranno fermati delle mezz'ore a contemplare, in quel grandioso edifizio, la mescolanza degli stili, e a leggere disegnata in essi la storia delle arti e delle variate dominazioni di questa città. Siffatta mescolanza per altro non si vedeva quando Alpinolo vi capitò.

Poichè il coraggio di spendere, e l'attività del fabbricare non son nate da jeri nei Milanesi, avevano essi coll'animosa lautezza che dava la libertà, comperato le case e l'area di quel centro della città, per radunarvi i principali uffizj; e nel 1228 fecero la piazza quadrata, con cinque porte, alle quali dai quartieri principali capitavano cinque vie acciottolate, una dal Duomo, una da Porta Nuova, una dalla Comasina, una dalla Vercellina; l'ultima usciva verso gli Orefici, e chiamavasi delle Carceri, perchè colà appunto erano le carceri dette Malastalla, ove si chiudevano i debitori fraudolenti e i giovani indisciplinati; ottimo rimedio per spegnere i debiti di quelli e rimettere a questi il senno in capo. Nel bel mezzo di quella piazza, essendo podestà quell'Oldrado de Grassi da Tresseno, il quale, pel suo zelo nel bruciare gli Eretici si meritò una statua a cavallo che ancora si vede colà incastrata nel muro, si eresse nel 1233 dalle fondamenta il palazzo della Ragione, nella cui parte superiore stava una capacissima sala pei tribunali, e nella inferiore, fra triplice corso di sette archi, uno spazzo coperto, qual si conveniva ai comodi del popolo in tempo che a popolo si governava la città.

Tutt'in giro erano fabbriche, con archi, colonne e porticali, ove potere i negozianti ripararsi dal mal tempo, e donde si aveva accesso alle varie magistrature. Quivi, attigua al palazzo della Ragione, avea casa il podestà, colle carceri: quivi, il palazzo di città, segnato di fuori colla croce rossa in campo bianco, ornata di palme ed ulivi, per far intendere che Milano era glorioso non meno in pace che in guerra; e dentro il quale sedevano i padri della patria a deliberare il meglio, cioè quello che i forti comandavano o che insinuavano gli scaltriti; quivi era il collegio dei nobili giureconsulti, che portavano un vestone di porpora, coi cappucci e i baveri foderati di vajo; quivi il collegio dei notari e dei fisici, gente che impinguava sui morbi corporei e sui morali della povera umanità: quivi ancora l'uffizio del Panigarola, ove i mercadanti, colla solita sincerità, notificavano tutte le vendite e i contratti, ed ove si conservavano ricavate nel sasso, le precise misure dello stajo, delle tegole, dei mattoni, per risolvere le differenze, ed inoltre una rozza pietra, la quale si faceva, come diceano, acculacciare dai mercanti che rompessero il banco, cioè fallissero di pagare, se col sacco o per mera disgrazia i giudici non guardavano poi tanto pel sottile. Quivi pure Azone Visconti aveva, nel 1336, eretta la badia dei mercanti, con banchieri e cambiatori dove ora è l'uffizio dei telegrafi, e di rimpetto la badia dei mercanti d'oro, d'argento, di seta: quivi i tribunali civili, ove salivasi per una scala, presso cui è ancora esposta al pubblico una lapide, la quale insegna come dal litigare nascono inimicizie, si getti denaro, si turbi l'animo, si sciupi il corpo, si lasci l'onesto per l'inonesto, non s'ingrassino che i procuratori; quei che sperano rimangono con un pugno di mosche, e quando pure riescano, al tirar delle tende si trovano avere, in spese e in mangerie legali, buttato tanto o più che l'acquistato.

Così la lapide: ma le cronache soggiungono che pochi facessero pro dell'avvertimento, perchè quelli che andavano colà a muover liti aveano sugli occhi una benda postavi dall'amor proprio, sicchè da una parte si davano a intendere d'aver ciascuno la ragione dalla sua, dall'altra credevano che al mondo vi fosse giustizia. Noi però, meno maliziosi delle cronache, pensiamo che al consiglio non si desse si dia ascolto, perchè scritto con caratteri gotici e in latino.

Questo pezzo d'anticaglia è dei pochi scampati a quella, per non dir altro, benedetta smania di rinnovare14: mercè la quale, della badia dei mercanti più non rimane vestigio; il portico del collegio dei dottori e dei fisici fu ridotto a più recente architettura, ed abbellito il campanile che a mezzo di quelli era stato eretto nel 1272 da Napoleone della Torre per dar i tocchi al mezzodì, alle due di sera, e quando alcuno veniva condotto al supplizio: il palazzo della Ragione convertito in archivio è chiuso e intonacato, sicchè a pena disotto a un erto strato di calcina si discerne la forma delle antiche arcate, come un pensiero maschio di sotto all'inviluppo d'un parlare artifizioso e cortigiano. Anche le logge sono abbattute, ma per fortuna non potè, nel Seicento, venir condotta a termine la fabbrica delle Scuole Palatine verso gli Orefici, onde sussiste ancora parte della loggia degli Osj, cominciata nel 1316 da Matteo Magno.

Questo edifizio era rivestito di lastre di marmo bianco e nero, diviso in due porticati di cinque archi, un sovra l'altro: nei parapetti superiori si vedono ancora scolpiti in altrettanti scudi le arme delle sei primarie regioni della città: e ne aggetta un pulpito, sulla cui spalletta un'aquila tiene fra gli artigli una scrofa, per segno dell'alto dominio dell'Impero sopra questa città, che, come sanno i ragazzi, deriva il suo nome dalla scrofa lanosa. Su quel pulpito, che il vulgo chiamava parlera, comparivano il podestà o i consoli ad annunziare al popolo convocato i bandi e le leggi ed a sentirne il parere; ora vi stanno sotto venditori di fusi e rocche a travagliare, e guardar la sentinella tedesca, che placidamente passeggia innanzi e indietro dei cannoni.

So bene che a coloro, ai quali piace veder le cose vecchie senza i moderni guasti, chiamati miglioramenti, gradirebbe non poco che, anche a costo della comodità, si fossero le fabbriche lasciate nell'antico assetto. Benchè tali allora durassero, potete ben credere che Alpinolo neppur d'un'occhiata le degnò, fissando invece la moltitudine ivi congregata di gente serva, e che, al dir suo, fra pochi giorni tornerebbe libera, magnanima, costumata: - fra pochi giorni.

Delle due piazze laterali, quella dov'è l'antico pozzo e la campana del Comune serviva ai mercanti che trattavano di cambj e di traffici; l'altra pel grano e il vino; era vietato, pena dieci soldi di terzoli, ingombrare con panche e con altro le volte, come pure a male donne e ai loro mezzani d'entrarvi, acciocchè a miglior agio vi potessero piazzeggiare i negozianti e i gentilomini, pei quali erano anche disposte pancacce da sedersi, e stanghe e traverse per potergli ponere sopra, dice il Corio, falconi, astori et suoi sparvieri o altri uccelli, al piacer et comodità di qualunque volea.

Stavano dunque colà chi cavillando un soldo, chi discorrendo di novità, chi asolando scioperato, e lodando e confrontando i falchi di Norvegia, d'Irlanda, di Danimarca; mentre alcuni ripetevano i miracoli, onde in quei due ultimi anni aveva cominciato a rendersi famosa la Madonna di San Celso, e così quelle di San Satiro, di San Simpliciano, di Sant'Ambrogio; altri stavano intenti ad un pellegrino che, col bordone e il sarrocchetto, montato sopra un tavolette, raccontava la meravigliosa storia di Paolozzo da Rimini, che in Venezia viveva molte quaresime senz'altro che bevere acqua calda, e che essendo dagli inquisitori tenuto prigione, non fece che confermare la verità del portento: o ad un cantimbanco, che sopra un cartellone segnava una folla di figure che chiamava uomini, e che spiegava essere le venticinquemila persone che, il 27 marzo passato, si erano raccolte a Corrigisior sul Cremonese, scalze e seminude, flagellandosi a sangue e facendo limosine, dirette da una bellissima giovane, avuta in concetto di santa; finchè scoperto che era raggirata da un mal arnese, la fu condannata al fuoco.

Chi s'immaginasse una festa da ballo, numerosa, allegra ove ciascuno pensa allo spasso, alla festività, allo spettacolo del momento: e in mezzo a quella folla un uomo, il quale ha disposto una mina, cui fra un momento vuol dare il volo e mandare in aria il festino, i sonatori, i danzanti, gli spettatori, potrebbe aver un'idea di ciò che sentisse Alpinolo in mezzo a quella turba. Sotto ai portici ove stanno coloro che rivendono usati i nostri libri, dopo che se ne annojarono coloro che o li comprarono nuovi a bottega, o gli ebbero per attestazione dell'ossequio e dell'amicizia degli autori, passeggiava bravamente Alpinolo, misurando e pesando coll'occhio quanti incontrava, come per dire - Tu sei con me, tu sei contro me».

Ed ecco, mal per lui, capitargli fra' piedi Menclozzo Basabelletta, quel desso, se vi ricorda, il quale un giorno lo proverbiò su le visite che la signora Pusterla riceveva da Luchino, e n'ebbe da Alpinolo quell'iroso rabbuffo. Al vederlo sentì questi risuscitar in cuore tutto il dispetto che aveva allora provato, aggiunta la vergogna che provò dappoi, quando, in apparenza almeno, lo trovò veritiero. E gli parve che uno sguardo maligno, un maligno sorriso del Basabelletta volessero dirgli: - Non avevo io ragione allora?» Accostatolo dunque siccome per rispondere a lingua al rimprovero che si credeva diretto a occhi, - Ebbene? (gli disse) con quanto ingiusti denti avevi allora morso la signora Margherita.

- Eh! tu il devi sapere meglio di me», riprese l'altro con fredda ironia.

Ed Alpinolo, frenando a stento la rabbia, - Guarda! vorrei cacciarti in gola codesti insulti a furia di sergozzoni, se non sovrastasse il momento, che tu stesso hai da veder chiaro più che per le mie parole.

- Bravo ragazzo! (ripigliava il Basabelletta) ora profitti nel viver del mondo. Bada a me: prometti sempre sulle generali; altrimenti col venire a precise particolarità, ti toccherebbe poi a trovarti di nuovo smentito, e deriso dei tuoi millanti.

« - Eh no!» replicava Alpinolo, sempre più infervorandosi. - Non sono millanti: derisioni non temo: ti so dire che questa condizione di cose tentenna: che costoro hanno a regnarci per poco.»

E il Basabelletta: - Ci regneranno, perchè il diavolo ajuta i suoi e perchè son troppi quelli che sanno cianciare come te, e poi all'opera non valgono la metà di quel che mostrano a parole».

Considerate se Alpinolo sentisse pizzicarsi le dita! ma parendogli in quelle espressioni ravvisare uno, su cui fare fondamento per l'ideata rivoluzione, mandò giù, e stringendogli convulsivamente la mano, il trasse verso un canto ove fosse men gente, e guardandosi intorno e abbassato la voce, - Quel che è stato è stato (gli diceva): ma poichè tu pensi diritto, sappi che le ciancie prenderanno corpo, che le speranze non sono in aria questa volta: che dove il popolo tutto è malcontento, dove il principe esecrato, basta una favilla a destare un incendio maledetto. E la favilla, ti assicuro, v'è già chi batte la pietra per suscitarla.

- Sai che?» ripigliava il Menclozzo. - Si vorrebbe che men pieghevoli avessero le schiene cotesti nobili; men ligi al padrone fossero e più amorosi alla plebe. Credilo: gli uomini sono come le nespole: per maturare vogliono la paglia. Sulla paglia dei casolari troveresti ancora dei cuori generosi: ma mentre il popolo s'invigorisce sulle glebe e nelle officine, i ricchi si smaschiano in giuochi e tornei, a caccie, a balli, a far tavolacci, e a cercar gloria nell'ostentare codardia alla Corte. I nostri buoni vecchi era loro vanto il sostenere la plebe nella Credenza di sant'Ambrogio, francheggiarne i diritti contro chi voleva soperchiarla... Ma il mondo invecchia peggiorando e di quella santa razza più neppur uno ce n'è: neppur uno.

- E tu sempre (così soggiungeva Alpinolo, sentendosi brillar dentro il cuore a quel parlare), sempre tu pigli san Michele pel diavolo. La razza dei buoni vive, ed io la conosco; e pensano al popolo più che tu non credi, e se l'intendono, e frappoco... e sapranno rendere giustizia a chi sente come te generosamente. Credimi e spera.

- Ch'io speri? Da senno me ne cagione il veder anche quelli che meno dovrebbero lasciarsi pigliar per la gola. Il tuo Pusterla per uno. Che non otterrebbe se egli stesse con noi? Invece, appena Luchino gli gettò quell'osso dell'ambasceria, accomodò l'anima alla servitù, e fatto dolce come un miele, se la campa a Verona senza un pensiero di , della patria, di qualche altra cosa che gli stringe più sulla pelle. - Sta colà, non ci pensa eh!» saltò Alpinòlo tutto fuoco. - Or sappi invece... ma stia in te, sappi che il mio signore non è altrimenti a Verona: se v'andò fu solo per intendersela con Mastino; ed ora è qui in Milano, in petto ed in persona: e... Insomma, ti basta? sei ora convinto?

- Belle fandonieesclamava ridendo il Menclozzo - Povero ragazzo! tu sei buono, e ti fanno bevere grosso. Qualche servitore te l'avrà dato a intendere: forse qualcuno avrà cantato per farti cantare...

- A chi farla bereinterrompeva Alpinolo, rosso come bragia. - Ma per chi m'hai tolto? Non ho io a credere a questo par d'occhi? Sappi dunque che jer sera, in casa i Pusterla, io persona prima, ho parlato con lui, con Zurione, con una mano di persone tutte di primo conto, e han detto quel che basta: e già dispongono: e non s'andrà all'altro sabbato a pagar le partite...» e seguitò via contando tra quel ch'era vero, e quel ch'egli si era immaginato. Ma l'altro, o incredulo davvero, o per quell'umore suo di contraddizione, - Va , va (replicava); c'è chi lo terrà indietro: e quell'acqua cheta della signora Margherita...

- Chi? Margherita? che celiicontinuò l'improvvido. - Essa non vede anzi quella sant'ora di nettar il paese da queste sozzure. Ella ci narrò la storia di Galvagno Visconti suo antenato, il quale, al tempo del Barbarossa, andava attorno vestito da buffone, colla cerbottana in mano, fingendo strologare: e intanto macchinava, e conduceva maneggi per la liberazione della patria. Ha fino soggiunto: «Allora i savj facean da matti; oggi i matti si credono troppo savj

Qui è da sapere che, fosse arte o piuttosto accidente, gli archi del portico, sotto al quale discorrevano Alpinòlo e il Menclozzo, sono combinati in maniera da produrre il fenomeno delle così dette sale parlanti; fenomeno che alcuno de' miei lettori avrà potuto osservare in san Paolo di Londra, nella galleria di Glocester, nella cattedrale di Girgenti, e più vicino, nel palazzo ducale di Piacenza, nella sala dei Giganti a Mantova, e fin in una volta del parco di Monza. Consiste in ciò, che uomo non può dire paroluzzacheta presso ad uno dei quattro angoli estremi di esso portico, che non sia inteso da chi si collochi al pilone diagonalmente opposto all'arco. I fisici ne diano la non difficile spiegazione; la storia nostra si contenta di dire che v'era chi ne traeva profitto. Queto come non fosse fatto suo, mentre i due disputavano, gli ascoltava a quel modo Ramengo da Casale, di cui più di una volta ci occorse di far menzione. Adulatore di Luchino, come abbiam detto, però sapeva anguillare in modo da non inimicarsi i nemici di questo; blande erano le sue parole, ambigui i fatti: mai non sarebbesi posto colle une e cogli altri in manifesta contraddizione con veruna parte, cercando anzi andare a versi a tutti, e riusciva ad illudere molti. Fra quei molti che non penetravano entro la scellerata anima di Ramengo, era Alpinolo, al quale la cieca persuasione della bontà di sua causa faceva credere che ogni uomo dovesse parteggiare colle sue opinioni. Quindi ombra di sospetto gli nacque allora quando Ramengo, come lo vide scostarsi dal Menclozzo, se gli avvicinò, ed avendo già inteso quanto bastasse per iscalzarne il resto, - Imprudente! (gli disse) tu parlavi or ora col Menclozzo... gli avresti mai detto!...» e ammicava con aria d'intelligenza. - Sei ben certo ch'egli sia dei nostri? Non t'ha dato Franciscolo il segno per riconoscerci?

- No», rispose Alpinolo.

E l'altro continuava: - A me l'ha dato Zurione, e non credo aver buttato il giorno invano, ma spero con maggiore prudenza di te. Tu a chi n'hai parlato

Qui Alpinolo nominò parecchi di coloro cui n'avea fatto motto, e degli altri cui volea farlo: e Ramengo, che non ne perdeva parola, gli chiese: - Ma non ti sei tu inteso con Galeazzo e Bernabò?

- Non io: ma l'avranno fatto gli altri che c'erano jer sera.

- Eh! non so chi tra loro abbia con essi bastante entratura, o chi voglia avventarsi a corpo perduto come te e me.

- Come? dite poco? (seguitava l'imprudente). I due Liprandi non son tutta cosa con loro? dove trovar gente più animosa che il Besozzo e quel da Castelletto?

- Milanesi! (esclamava l'altro scotendo il capo). Buona gente; di cuore; ma per darsi moto, per voler risolutamente, è inutile, bisogna ricorrere a quei di provincia.

- E per questo (seguitava il garzone) v'è il Torniello da Novara: e stamattina l'ho già veduto parlare con...

Così rinvesciava e ciò che sapeva, e ciò che immaginavasi; ed esponeva come fatti veri e successi quei che erano sogni di sua fantasia. Poi, contento di aver conosciuto un nuovo apostolo, abbracciatolo con un movimento generoso e cordiale, voltava via per cercarne altri, mentre Ramengo si difilava al palazzo, e faceva dire al Signor Luchino d'avere a comunicargli cosa della più grave urgenza. Luchino comandava che entrasse. Ma gli è tempo che diamo a conoscere ai nostri lettori questo malnato.

Ramengo era detto da Casale appunto dal luogo donde nasceva nel Monferrato, e donde, bambino in fasce, era stato portato via nel 1209, quando quella terra si era ribellata a Matteo Visconti per darsi a Giovanni marchese di Monferrato ed ai Pavesi. Il padre di lui, soldato di ventura, senz'altra ricchezza che la spada, era venuto a Milano a procacciare sua ventura al soldo dei Visconti. Morto poi nelle battaglie, sulla stessa via lo avea seguito Ramengo, siccome l'unica nella quale sperasse acquistar nome e ricchezze, e contentare l'avara ambizione che lo struggeva. il sollevarsi era difficile cosa in quei tempi agitati, quando Dante si lamentava che diventasse un Marcello ogni villano, il quale venisse parteggiando. Che se ognuno non avesse in pronto esempj di subite fortune, potrei ricordare Giovanni Visconte da Oleggio, povero fanciullo, raccolto di quei di appunto dai Visconti, e messo chierichetto in Duomo, poi fatto cimiliarca, poi podestà di Novara, poi generale di tutte le armi di Luchino, e suo logotenente e capitano per tutto il Piemonte: ovvero la bizzarra storia di Pietro Tremacoldo, detto il vecchio, mugnajo lodigiano, che divenuto famiglio dei Vestarini che colà dominavano, ottenuta da essi in custodia una porta della città, una bella notte v'introdusse certi suoi assoldati, levò Lodi a rumore, prese i Vestarini, e chiusi in un vestaro, come il vulgo chiama l'armadio, ve li fece morir di fame, proclamando stesso signore di Lodi.

- Se questi e quelli, perchè non anch'io?» diceva Ramengo tra il suo cuore, ogni qualvolta udisse tali o siffatti racconti: e poichè si sentiva incapace di salire con arti buone, disponevasi a quelle qualunque fossero che il potessero giovare, adulazioni, viltà, tradimenti.

I Pusterla, che avevano lauti poderi nel Monferrato, ed erano per alcun tempo stati feudatarj di Asti, aveano tolto in protezione il padre di Ramengo, acquistandogli credito e posto nelle milizie. Ma persone, la cui vista rammenti il dovere di una gratitudine che non si ha, divengono esecrate al malvagio. Ramengo, cresciuto con cuor tristo, se al mondo un n'era, uno di quei cuori per cui è necessità l'odiare, abborriva svisceratamente la famiglia Pusterla, perchè n'era stato beneficato; ma avendone tratti molti vantaggi, e molti altri sperandone, dissimulava; e fattasi una fronte inesplorabile, mostravasi coi Pusterla devoto sino alla viltà e piaggiatore, mentre con inquieta scontentezza procurava alzarsi sulle loro rovine.

Ruppesi intanto la guerra fra Ghibellini e Guelfi, e il papa, scomunicato Matteo Visconti, mandò l'esercito a sostenere gli anatemi, tanto che Matteo, atterritone, rinunziò il potere a Galeazzo suo figliuolo; e datosi a vita devota, morì poi nella canonica di Crescenzago. Allora Galeazzo spinse vivamente le ostilità; e fattosi confermare signore di Milano, chiese sussidj a tutte le città vicine. E poichè i Guelfi fautori dei Torriani, guidati da Simone Crivelli, da Francesco di Garbagnate e dal cardinal legato, tentavano passare l'Adda per entrare su quello di Milano, tutto al lungo di quel fiume dispose corpi d'osservazione, e rinforzò le rôcche. A Trezzo stava quel Marco Visconti di cui un amico mio sì bene vi espose le bravure e i patimenti: il castello di Brivio, un forte eretto a Olginate e la rocchetta di Lecco erano governati dal padre di Franciscolo Pusterla: il quale, volendo che suo figlio facesse il noviziato delle armi, gli affidò quest'ultima, ponendogli però ad ajutante Ramengo. Ciò avveniva nel 1322.

Lecco in quel tempo era poco meglio che un mucchio di rovine. Imperocchè essendosi esso ammutinato contro i Visconti nel luglio del 1296, Giavazzo Salimbene podestà di Milano, coi collaterali del capitano e tutti gli stipendiati della repubblica, cavalcò a Merate, e quivi congregati molti fanti della Martesana, mosse sopra Lecco, ne levò dugencinquanta ostaggi, che spedì a Milano, poi ordinò che fra tre giorni tutti i terrieri uscissero dal luogo, e a Valmadrera si collocassero colle loro robe a cielo scoperto, e guai a chi si movesse. Infelici! dovettero obbedire, e di dal lago videro bruciare la patria loro, non conservata che la rocchetta per tenerli in soggezione; poi intesero pubblicarsi un bando, che mai più quel borgo non fosse rifabbricato.

Simili vendette erano a tutt'altro opportune che a far amare il dominio: e in quelle parti più sempre si infervorò l'animosità contro dei Visconti, alimentata dalla intelligenza che manteneano colà i Torriani, oriondi della vicina Valsassina. E sebbene le replicate vittorie dei Visconti avessero fiaccato la potenza di questi, ogni qualvolta però riuscissero a sollevare il capo, i Torriani trovavano appoggio in questi terrieri. Devotissimi a loro v'erano i Ticozzi, i Manzoni, gli Invernizzi e principalmente Gualdo della Maddalena. Col volgere dei casi, la famiglia di questo era stata disfatta, egli ucciso in battaglia; l'unico figlio Giroldello, menato ostaggio, era riuscito a camparsi, e aveva ultimamente preso servigio nelle truppe guelfe: rimaneva in Lecco che una sorella sua Rosalia, teneramente amata da Giroldello, più amata ancora dopo che da lei lo distaccava la sventura.

Bellissima era cresciuta la Rosalia, e con quel prepotente bisogno di amore che istillano negli animi dolci le sciagure dei primi anni, e che più si accende quando mancano attorno le persone su cui sfogarlo.

Franciscolo Pusterla, giovanissimo allora, aveva conosciuto la coetanea fanciulla, e ne compassionava la situazione, tanto più perchè la vedeva così bella: qualità che ha tanta parte nei sentimenti destati da una fanciulla. Riguardandola come vittima innocente delle civili discordie, come martire d'una fazione, cui la sua famiglia stessa aveva aderito, e che ora rimaneva nobilitata dalla sventura, volentieri trovavasi con lei, le usava maniere di singolarmente amico, e con arti di delicata beneficenza sapeva recarle opportuni soccorsi: tanto che i molti che han costume di non credere alla generosità se non interessata, bucinavano che Franciscolo l'amoreggiasse.

La conobbe anche Ramengo, e le pose amore.

Ma no: di questo sentimento, che in tanti è germe d'azioni generose, non si deturpi il nome usandolo a significare quel che Ramengo provò per Rosalia. Calcolo, mezzi, risultamenti egli vedeva solo colà, dove gli altri dell'età sua vedono affetti, piaceri, illusioni. Unica meta d'ogni suo operare era di togliersi alla nativa bassezza, ed avanzare negli impieghi e alla Corte, fossero qualunque le vie. Tra le vicende d'allora aveva egli veduto salire quando i Visconti, quando i Torriani: e sebbene ora paresse assodato il dominio dei primi, non poteva un accidente rimettere gli altri in potere? Collegarsi col Visconti nel tempo del loro maggiore ascendente era idea che il desiderio poteva suscitargli, ma che la ragione ributtava siccome un delirio. L'umiliazione presente all'incontro porgeva il destro di amicarsi coi secondi; gran cose bollivano: il paese era in guerra e la sorte delle armi va sempre dubbia: se mai tornasse prospera ai Torriani, qual merito di essersi unito a loro in tempi di sfortuna, quanta ragione per venirne ingrandito!

Ma sposare la causa loro apertamente sarebbe stato un mettersi a repentaglio. Se invece prendesse per moglie la Rosalia, essa era tanto meschina, tanto sola oggidì, da non ispirar gelosia a chi che fosse; da non impedirlo d'esercitare il rigore contro chiunque desse segno di devozione al nome torriano. Qualora poi i Visconti venissero sbalzati dal dominio, la Rosalia non solo gli varrebbe di tavola per campare dal naufragio, ma per approdare anche ad una riva fiorita.

Con questi calcoli si preparava ad un'unione, che solo l'accordo dei caratteri e la virtù possono rendere beata: con questi e con altri ancora più turpi. Aveva egli avuto sentore della predilezione di Franciscolo per la Rosalia, e l'aveva creduta spinta chi sa fin dove. Ma poco brigandosi di ciò, coglieva volontieri un'occasione di vendicarsi del Pusterla coll'usurpargli l'amica. A lui, che si teneva per un gran che nelle guerre, metteva astio quel trovarsi soggetto a un garzoncello, che allora faceva le prime armi. È ben vero che questi interamente a lui deferiva nelle cose di guerra, ma però aveva più volte posto freno all'eccessivo rigore onde perseguitava la parte avversa; e principalmente una volta gli aveva fatto seriissimi rimproveri perchè avesse mandato uomini in traccia di Giroldello, venuto in Lecco a salutare nascostamente la sorella, e ingiunto a loro che, non potendo vivo, il prendessero morto, Ramengo cominciò da quel punto a considerare Franciscolo colla stizza onde un fratello diseredato guarda l'altro dovizioso: a tenerlo per un impaccio a' suoi progressi; a contrariarlo sott'acqua, aspettando luogo e tempo di far peggio.

E per contrariarlo richiese la mano della Rosalia a certi lontani parenti, alla cui custodia era stata commessa: i quali, tra per disgravarsi d'un peso, tra per la speranza di cessare le persecuzioni contro Giroldello, assentirono. Conchiuso il sì, Franciscolo sovvenne lautamente a quanto occorreva pel corredo e per le nozze; dal che Ramengo a crescere i sospetti e pigliarsene peggior talento: ma godeva di cavarne intanto alcun frutto: quando l'avesse fatta sua, penserebbe a custodirla.

La Rosalia, come succedeva allora e come succede anche oggi al più delle fanciulle, ne venne informata ad affare conchiuso, e consentì senza sapere che si facesse. Non conosceva ella Ramengo, questi avea fatto opera per meritarsene la benevolenza, ma quando si vide a lui congiunta di un nodo che la morte sola può sciogliere, formò sua delizia di quel ch'era precetto; e come fa l'amore, vedendo generosità e nobili sentimenti e beneficenza in quanto aveva fatto e faceva Ramengo, andò lieta di trovare uno su cui traboccare la piena di un affetto, che non aveva sin allora avuto sfogo, e lo amò con tutto l'impeto d'una prima passione.

Amare l'oggetto che si possiede: è pur divina cosa. Per brutale che uno sia, non è possibile che, nei primi tempi almeno, non ami la donna sua, quella con cui divide i piaceri, i dolori, le cure della vita. E Ramengo pose anch'egli amore alla ingenua sua Rosalia, e gustò le dolcezze del voler bene e dell'essere ben voluto; le quali avrebbero anche potuto ridurlo a più miti pensieri, persuaderlo a cercar quello, in cui solo è la felicità di quaggiù, il diffondere il bene fra coloro che ne circondano, grande o piccolo che sia il circolo nostro.

Ma da quei momenti di virtuosa concitazione ben tosto ricascava egli nelle abitudini antiche, spoglie di ogni gentil sentire, e per cui sino i più soavi affetti prendevano del fiero e dell'atroce. Severo, bisbetico, cane, poi a sbalzi cortese ed affettuoso, or accarezzava la donna sua, ora ne conculcava i sentimenti: oggi batteva villanamente chi avesse osato recarle la più lieve noja od esitato nell'obbedirla: domani le comandava colla rigidezza che soleva a' suoi soldati, sottraevasi alle dimostrazioni gentili di lei; teneva insomma i modi più opportuni ad alienarsi un cuor di donna.

Conosceva egli il suo torto, ma non che emendarsene, ne traeva ragione di inviperire; non che farle merito della pazienza onde la meschina tollerava, argomentò che ella se ne vendicasse col tradirlo; argomento vago affatto ma che pure in lui divenne un bisogno, per trovar nella donna un nuovo oggetto di livore. Gli antichi dubbj intorno al giovane Pusterla rinacquero più forti; la pietà di esso parevagli segno di colpa: e poichè il Pusterla tornava sovente da lei, e seco volentieri passeggiava talora lungo quelle rive, colla compiacenza di un giovane che trovò un'anima ingenua ed appassionata; e, qualora di lei parlasse, vi metteva l'ardore che suole la gioventù, non anco avvezza a fingere, a temere, a dissimulare. Ramengo ne divenne furiosamente geloso, o, a dir più proprio, ne colse pretesto di resuscitare la rabbia che i benefizj passati e la presente soggezione gli avevano messa in cuore contro del Pusterla. Con severi rabbuffi adunque intimò alla donna come per conto nessuno volesse più soffrire Franciscolo in sua casa, imponendole al tempo stesso che si guardasse bene dal dire, lasciare intravedere a questo il comando del marito. Ordine che costrinse Rosalia a quegli obliqui andamenti, cui tanto spiace alle anime leali il vedersi ridotte dalla prepotenza e dalla ingiustizia; e non isfuggendo questi all'occhio scrutatore del marito, ne crescevano i biechi sospetti.

Se non che Franciscolo abbandonò Lecco per correr colle armi dei Brianzuoli in soccorso dei Visconti, i quali, dall'esercito guelfo crociato incalzati vivamente, si videro fino assediati in Milano. Breve per altro durò il buon vento ai Crociati, stantechè il Visconte, chiamate tutte le forze disperse, non solo liberò Milano, ma a Vaprio diede un tale tracollo ai nemici, che i Torriani da quell'ora perdettero ogni speranza di principato, e i loro fautori andarono sbrancati in varie parti.

Ramengo, secondo che la fortuna delle armi gli faceva scorgere nella donna sua un istrumento opportuno od inutile alle sue aspirazioni, l'aveva o meglio o peggio trattata, ma quando seppe rovinate le speranze dei Torriani, usò maniere di tal rigore, con quanti nel territorio si potevano credere devoti a quella parte, che tutti ne stavano pessimamente.

La Rosalia, che erasi data a credere di poter qualche cosa sull'animo del marito, osò interporre alcuna parola per mitigarlo almeno al suo Giroldello, ma egli avea preso tanta insolenza, che più non si poteva seco: ributtò villanamente la supplicante; poi, come d'un mezzo che più non tornava ai suoi usi, la tolse a tedio, e di voglia se ne sarebbe disfatto quando avesse potuto e celarlo agli occhi altrui, e trovare qualche appiglio onde vincere il residuo di pietà che anche ai più malvagi fa rincrescere l'immolare alcuno senza ombra di colpa.


 

 

 





14 Per questo fatto e per altri antecedenti e susseguenti, giova ricordare che questo libro fu compito nel 1831. I cambiamenti si succedono così a precipizio nell'ordine materiale siccome nel morale! Oggimai tutto v'è scomposto, e sgarbatamente aperta la piazza stessa, ch'era unica in Milano.



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