Cesare Cantù
Margherita Pusterla

CAPITOLO X. IL PROCESSO.

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CAPITOLO X.

 

IL PROCESSO.

 

A Milano intanto erano stati disposti i processi delle persone arrestate per l'affare della congiura. Il signor Luchino Visconti era studioso di serbare le apparenze della giustizia; e i suoi lodatori rammentavano spesso a grande encomio il seguente fatto. Aveva egli commesso il governo di Lodi al suo prediletto figliuolo naturale Bruzio, giovane studioso di lettere, ma immerso a gola in ogni turpitudine. Sotto la costui balìa accadde che un gentiluomo lodigiano uccidesse un altro, onde fu preso e condannato nel capo. I parenti del reo si presentano a Bruzio, e - Messere (gli dicono), se avete bisogno di denaro, non perda la testa il figliuol nostro, ed eccovi quindicimila bei fiorini, un sopra l'altro».

Ciò udendo, Bruzio, avido dell'oro, cavalcò a Milano, fu dal padre, e inginocchiatosegli davanti, gli chiese grazia pel delinquente, mostrandogli come egli potrebbe così ristorarsi della sua povertà. Luchino fece segno ad un sergente che gli portasse il suo elmo, il quale era forbito e lucente, con sopra un bel cimiero, coperto di velluto vermiglio: ed avutolo, disse a Bruzio: - Leggi queste parole che vi sono scritte». Dicevano Justitia. - E la giustizia (soggiunse) noi porremo ad effetto; permetterò che quindicimila fiorini possano più della mia divisa. Va e torna a Lodi, e fa giustizia, od io la farò di te».

Giustizia di questo calibro ne troverete facilmente presso i peggiori tiranni; troverete anche chi l'ascriva loro a merito, merito ad assassini che fedelmente spartiscono fra loro ciò che rubarono alla strada. Ma alcuni opinano che vera giustizia non possa mai esercitarsi laddove chi governa ha interesse diverso dei governati; poichè, qualora si trovino questi in collisione con quelli, l'istinto dell'utile personale si mescola alle decisioni, quasi senza che i giudici se ne avvedano. Quanto più doveva succedere in tempi tanto grossolani, e ignari della dignità dell'uomo!

Il diritto di sangue nelle repubbliche lombarde, dopo la pace di Costanza, spettava al podestà, magistrato che generalmente chiamavasi da paese forastiero, durava in posto uno o due o tre anni, e proferiva le sentenze di concerto con un luogotenente o vicario condotto seco, e con alcuni pratici della legge e delle costumanze, a norma di queste e di quelle. Il travalicare però il diritto nei casi di Stato era abuso di cui già si lordavano le repubbliche, e peggio i tirannelli succeduti ad esse in ogni parte d'Italia. Quando fu trovata, o dirò meglio, quando si tornò a studiare la ragione scritta nelle Pandette, i potenti non curarono gran fatto le garanzie ivi sancite dalla libera sapienza romana, ma trassero a loro servigio le esorbitanti leggi, che la timida tirannide dei Cesari aveva mescolate agli ordinamenti migliori; e si valsero di quegli esempj per farne puntello alla mal fondata autorità e credersi giustificati, se, nei casi di maestà, trascendevano il diritto.

Allora i giureconsulti, non guardando più ciò che era giusto ma ciò che era scritto, sugli esempj di una società nella quale non era ancora venuto Cristo ad erigere un potere tutelare contro la spada, degenerarono a schifosa servilità, e divennero adirati campioni della parte ghibellina, per quel genio d'imitazione romana che tante cose ha già guaste nel nostro bel paese. Quando il Barbarossa adunò a Roncaglia la dieta italiana, famosi legisti pronunziarono che l'imperatore era padrone del cielo e della terra, delle vite e delle robe. Poco meno sostiene Dante nel ghibellino suo libro De Monarchia. I giureconsulti avevano sempre, come si dice, in manica un discorso per indurre la città a mutare il governo a popolo in governo d'un solo: i tirannelli non domandatemi se facessero lor pro di dottrine per le quali la legalità non si riponeva nella ragione, ma negli atti del governo, qualunque ei si fosse: che sostenevano essere assolutamente obbligatorio il comando della legge, e la legge essere ciò che piace al capo: pel qual modo essi tiranni poterono vantarsi protettori della libertà, purchè questa venisse definita il poter fare tutto ciò che non è impedito dalla legge.

Sentono di quello spirito gli statuti criminali di Milano, dei quali il CLXVII sancisce che ribelli del Comune milanese s'intendono tutti coloro, che fanno contro al pacifico stato del signore e del Comune di Milano: il precedente ordina che, nei casi di ribellione, presa in così lato senso, il podestà e i giudici suoi, tutti e singoli sieno tenuti per proprio uffizio ad investigare e procedere per indizj, argomenti e tormenti, e con tutti i modi che parrà; ed a punire e condannare.

Così elastici regolamenti facevano che in ogni paese, come dice il Muratori, quando per semplici sospetti o per vendetta si voleva togliere taluno dal mondo, sempre era in pronto la voce e il processo di congiura.

E la voce d'una congiura l'avea qui sparsa Luchino; si trattava ora di convalidarla con un processo. Il 15 giugno, vale a dire sei giorni prima, era entrato podestà in Milano Francesco de Oramara marchese di Malaspina, giureconsulto anch'egli, e adoratore della lettera scritta, che poneva per primo dovere d'un magistrato il conservare la quiete; e nell'assumere la carica aveva giurato di far osservare gli statuti del Comune di Milano, e principalmente gli accennati contro i ribelli, o come qui li chiamavano, i malesardi. Non avrebbe dunque messo impaccio alla condanna de' ribelli: ma dall'altra parte egli era un onest'uomo, corto sì, ma retto, retto quanto bastava per venir raggirato da uno scaltro birbante; ma incapace assolutamente di menare una brutta pasta per piacenteria o per sordide speranze. L'uomo da ciò l'aveva in serbo Luchino.

Quella banda di San Giorgio, che v'ho detta raccolta da Lodrisio Visconte a danno del Milanese, dopo sconfitta a Parabiago, si era sparpagliata; e i mercenarj, avvezzi alla prepotenza ed al saccheggio, e buttatasi alla via, rubavano, assalivano, incendiavano; terribili ancora a minuto sotto il nome di Giorgi. Per reprimerli, fu dato licenza a chiunque di farsi giustizia da : e le memorie dei tempi ricordano che Antonio e Matteo Crivelli, cui i Giorgi avevano guaste le ville, quanti ne poteano avere gli arrostivano, e infarcendoli di avena, li davano a' cavalli; ad altri sul Cremonese fu stratagliata la pelle sul dorso a modo di nastrini indi il boja li frustava, gridando ad ogni colpo «Stringhe e bindelli». Così si educavano i privati e il pubblico all'umanità.

Luchino, per quel suo amore così fatto alla giustizia, aveva contro ai Giorgi istituito un magistrato nuovo, il capitano di giustizia, con autorità amplissima. E perchè il mite naturale de' Milanesi non rattenesse nell'esecuzione, scelse a quel posto un tal Lucio, severissimo uomo, il quale, imprigionando e impiccando a josa, sbrattò dai ladri il contado. Dai ladri dico grossi e minuti; giacchè molti signori, annidati nelle rôcche e nei palazzotti di campagna, non lasciavano passare immune se non chi avesse il salvocondotto della miseria. Anche a costoro pose freno Luchino: impedì le guerre tra persone e persone, famiglie e famiglie: dichiarò che tutto il contado immediatamente dipendesse pel criminale da Milano; sicchè i feudi si limitarono a semplice giurisdizione, non a tirannia: e i cortigiani del principe lo poterono lodare d'avere stabilito l'eguaglianza di tutti in faccia alla legge; - eguaglianza però dalla quale si dovevano intendere eccettuati i forti, gli scaltri, gli adulatori, il principe, i suoi favoriti, e i favoriti de' suoi favoriti.

Miglioramenti così fatti sono una vera benedizione del Cielo qualora vengano da principe buono e di rette intenzioni: se mai è un tristo, gli somministrano armi terribili, che, dopo adoperate pel pubblico bene, può far servire al suo malnato talento. Luchino di fatti colla stessa mano onde feriva i nemici della società, abbatteva i suoi personali. Nel che egregiamente era servito da quel Lucio, così austero, così pratico delle leggi, o a meglio dire, dei tranelli del Foro, così zelante di far osservare il diritto: cioè la volontà del principe, e non già per coscienza erronea, ma perchè smanioso di togliersi d'addosso un'enorme vergogna che lo rimordeva più che un misfatto, quella d'essere nato da povera gente e povero egli stesso. A chi abbia profondo nell'animo questo abborrimento è facile, vi so dir io, il trovar modo da fare passata ed arricchire, perchè il merito, quando si vuol vendere, trova facilmente compratori.

E Luchino aveva comprato costui, e adoperatolo altre volte a' suoi fini: onde non esitò a porre gli occhi sopra di esso anche nel presente caso, e cominciò dal carezzarlo e solleticarne la vanità. Nel giorno della solenne traslazione delle ossa di san Pietro martire, la gran festa che abbiamo accennata terminò per la Corte in uno splendido convito, ove sedevano il vescovo Giovanni, tutti gli ambasciatori delle città e dei principi, gran signori e letteratipaesani, sì avveniticci; e tanto straordinaria era la profusione, che Grillincervello, facendone le meraviglie, disse all'orecchio di Luchino: - Padrone, hai qualche pesce da pigliare per la gola

Ho detto profusione, ma niuno diasi a intendere che nelle grosse spese di quel pasto si trovasse nulla della finitezza e del buon gusto che oggi possiamo immaginare ed effettuare. La prima messa fu di marzapani e pignocate dorate, colle armi della biscia; indi vennero pollastrelli con savore; due porcellini e due vitelli interi, dorati anch'essi; poi un'abbondanza di spicchi di castrato, di capretti interi, di lepri e piccioni e fagiani e pernici e storioni, e quattro pavoni coperti di tutte le penne e due orsi; tacio le cento maniere di gelatine, di salse, di paste, di canditi, di frutte, uno sfarzo di piattelli e tazze d'argento, d'acque odorose date replicatamente alle mani, come lo rendeva necessario il non usarsi le forcine; vini poi squisiti e senza misura. Ogni nuova imbandigione era portata a suono di tromba e d'altri strumenti, da donzelli superbamente divisati, fra mezzo ai quali scorreva Grillincervello, tenendo in allegria con motti e con versi e strofe da ciò, e ricevendo da questo e da quello i rilievi e i doni, dei quali aveva fatto un cumulo su un deschetto in disparte, dicendo che gli basterebbero per mantenere quindici giorni le molte mogli e i molti figliuoli che, secondo la scostumatezza de' pari suoi, egli teneva in casa.

I discorsi erano vivi tra i convitati; altrimenti da quel che sogliano ora a tavole principesche, e questo era una nuova lusinga all'amor proprio di Luchino, giacchè neppure la ilarità dei bicchieri non suscitava ragionamenti che gli potessero tornare spiacevoli. La quiete e felicità dei popoli soggetti, gli atti di beneficenza, le prodezze guerresche, l'onta dei nemici, qualche lepida avventura privata, porgevano ampio soggetto di ciance e d'adulazione. Mal vi apporreste credendo dovessero schivare studiosamente di discorrere delle disgrazie della settimana, degli infelici che languivano nelle prigioni, mentre alla Corte si sguazzava. Non era quello un nuovo trionfo del signor Luchino? Non era un pericolo ovviato? un atto di pubblica giustizia? Poco tardarono dunque a formare tema di discussione il podestà ed il capitano di giustizia, collocati vicino e in mezzo ad altri giureconsulti.

Dei cui discorsi avvedutosi, Luchino volse la parola a Lucio, e - Voi (gli disse), voi che delle leggi sapete quel che n'è; voi che tutti interrogaste gli oracoli dell'antica sapienza, qual pensiero fate sopra tanto caso? che n'avrebbero sentito quegli insigni nostri progenitori i Romani

Qui la calcolata vigliaccheria del capitano era accresciuta dal vedersi distinto in mezzo a tanta nobiltà; sicchè senza esitare rispondeva: - Il giudizio intorno a traditori della patria può egli essere dubbio? Quanto a me, avvezzo a sostenere francamente la giustizia, a decidere secondo quella, che che me ne deva costare, dico e mantengo che, se la vostra serenità risparmiasse il sangue di costoro, verrebbe meno a' suoi doveri, e tradirebbe il potere affidatole dal popolo».

Quanto bel suono faccia ai tiranni l'udirsi parlare del dovere di essere cattivi e di fare a proprio modo, sarebbesi potuto scorgere dalla compiacenza che scintillò nell'occhio di Luchino. Il quale, lieto di essere stato così bene compreso, continuava: - Sì, ma qui s'avrà a fare con volpi vecchie: gente da toga e da spada, scaltriti a segno da negare i fatti più evidenti.

- Principe, a vincere nemici insegnatemi voi: per far parlare un ostinato, non ho bisogno di scuola».

Così sotto alla maschera di rozza veridicità ascondeva colui la più turpe adulazione, e pattuiva l'infamia; e qui come d'un bel fatto, venivasi vantando di difficilissimi processi, dove era riuscito a convincere al modo suo i più scarsi d'incolpazioni; dietro a che la disputa s'infervorava tra que' legulej, e durava gran pezzo dopo levate le mense; finchè Luchino, tratto in disparte il capitano, gli affidò l'incarico di guidare quel processo, e conchiuse: - I Pusterla sono ricchissimi possessori; e al fisco abbonderanno i mezzi di compensare lautamente i fedeli suoi ministri».

Furono sproni a buon cavallo; e Lucio da quell'ora non pensò che ad ordire le fila per la tela meditata. - Datemi in mano due righe d'un galantuomo, m'impegno di trovarlo reo di morte», ha detto non so qual moderno forestiero. Pensate poi allora, quando il maltalento dei capi e la corruttibilità dei giudici non si trovavano frenate da provide garanzie e dall'opinione e quando fin la tortura poteva essere adoperata per istrappare di bocca la verità o quella che voleasi verità.

Oltre il consiglio generale, in cui sedeva la suprema autorità, ne era in Milano un altro particolare di ventiquattro cittadini, dodici del popolo e dodici dei nobili, parte juris periti, cioè letterati e cogniti delle leggi, parte morum periti, cioè senza lettere ma pratici delle costumanze patrie e degli statuti: duravano in uffizio due mesi, chiamavansi società di giustizia, ed a loro spettava il conoscere i delitti di maestà preseduti sempre da un giudice forestiero.

Il giudice presidente o capitano era esso Lucio, il quale passò dunque in rassegna per iscegliere quelli che facessero al suo caso.

Ecco qua (diceva egli tra stesso) gente di idee nuove, ma che pretende cavate dal Vangelo, la quale riporta tutto al regolo della giustizia, supponendo che la giustizia sia una cosa reale, e che s'attacchi non alle convenzioni degli uomini, ma ai voleri di Dio. Fanatici! utopisti! credono che il principe deva star alla rettitudine come l'infimo de' plebei e che sia un gran che la testa di un uomo, per quanto oscuro. Non fanno per me.

- Quest'altri sono incamminati sul buon sentiero e sanno volere la giustizia senza rinnegare la politica; giusti fino al trono. Nelle differenze tra privato e privato e' si farebbero coscienza di portare danno pur d'un bruscolo; ma qualora si tratti del principe, la pensano più liberalmente. Alcuno di questi giova introdurlo nel consiglio, perchè gridano alto giustizia, leggi, ragione, e fra il popolo hanno voce d'essere zelatori. Gridino pure; ma in consiglio i seniori li compatiranno come inesperti, e il voto loro rimarrà eliso dai meglio assennati.

- Questi altri, onesti di fondo, incanutirono nel mestiere, onde si sono formata l'abitudine di veder sempre nero, di credere tutt'uno accusato e reo, e necessari alcuni sacrifizi al pubblico bene. Un pajo anche di questi. Un pajo di quei gran giurisprudenti che, fino dalla scuola, si sono avvezzati a intendere e proclamare che suprema legge è il pubblico bene, e del pubblico bene prima condizione la quiete: la quiete potevasi conservarsi altrimenti che col rispettare l'ordine stabilito, qualunque esso sia; e in conseguenza essere il maggior reo colui che moto a novità.

Luchino poi aveva cominciato a mostrarsi rigoroso cogli uffiziali di Corte, i quali avessero angariato o rubato ai cittadini, e con tormenti li sforzava a palesare gli illeciti guadagni. Chi fosse tinto di questa pece aveva dunque, come diceva Lucio, una museruola alla bocca per tacere e fare a modo.

Tra sì varie maniere di vedere la giustizia, Lucio potè costituire il suo consiglio senza neppur ricorrere all'abiettissima viltà di quelli che si vendono per denaro ai potenti, e che speculano sul piatto degli oppressi. D'altra parte egli sapeva benissimo come in tali vertenze gli svantaggi dell'accusato sieno tanti, che è un prodigio d'innocenza chi n'esce purgato: aggiungeva le torture, sieno le sfacciate e strillanti della corda e del cavalletto, sieno le ipocrite ed ignorate della prigione e della lentezza: onde, esaminata ogni cosa, esaminate le speciali circostanze di un delitto di Stato, ove accusatori, testimonj, giudici sanno di gratificarsi il padrone coll'aggravare gl'imputati, si trovò d'aver buono in mano e disse a medesimo: - Cuor mio riposa: un bel palazzo e un ricco podere e la confidenza del mio signore non mi possono mancare».

Ma per essere sempre più sicuro del fatto suo, il capitano sottopose per primo a giudicatura quel Franzino Malcolzato, servitore del Pusterla, bravaccio famigerato per risse e ferimenti e omicidj. Costui, come si vide posta innanzi da un canto la tortura, la forca, o al men che fosse la prigione perpetua; dall'altro promessa l'impunità qualora si confessasse reo e manifestasse le volute colpe del padrone e i complici suoi, non esitò nella scelta, e Lucio trionfò della sua invenzione. Secondo dunque gli veniva questi suggerendo; il Malcolzato disse che d'una grande congiura aveva inteso ragionare: sparlar abitualmente del principe e de' suoi fatti; discorrere di speranze, di vicine mutazioni, d'un avvenire migliore; il suo padrone aver tenuto a Verona spesse e segrete conferenze col signor Mastino della Scala e con Matteo Visconti: aver ricevuto colà Alpinolo, spedito in gran diligenza dai congiurati milanesi, e con questo esser venuto di volo alla città, spesso tra via bestemmiando il signor Luchino; nel palazzo del Pusterla esservi armi; quella tal sera aver egli introdotto colà i più fidi amici, che dissero, che disposero, che giurarono uccidere, incendiare, rubare; - e seguitò narrando cose tanto assurde e contraddittorie, da mandarlo ai pazzarelli o condannarlo  di impostura.

Nel consiglio di giustizia non mancò chi riflettesse all'incongruenza  di tali deposizioni; ma Lucio fece sentire come i tumulti bisognasse frenarli col porre il piede sulle prime faville; che se la pace di tutti richiedeva qualche vittima, tornava meglio colpire quel ribaldo, che non mettere a repentaglio tante teste segnalate.

Vero è che la giustizia non dovrebbe accettare diversità di persone, ma quante altre cose non dovrebbe! i pochi opponenti, vedendo prevalere l'opinione dei più, entravano in diffidenza della propria e in timore d'ingannarsi; la riverenza pel potereprofondamente era nei più radicata, che, senza avvedersene, mescolava nei giudizj la probabilità di godimenti, d'onori, di partecipazione a qualche brano dell'autorità stessa; poi essendo molti a giudicare, ciascuno vi portava una volontà meno ferma, una meno intera valutazione delle conseguenze, che non avrebbe fatto qualora da solo avesse avuto a prendere la deliberazione; e la responsabilità dell'esito pareva diminuita in ragione del numero dei colleghi. Finalmente, riflettevano, si tratta d'un mal arnese, da cui la società non può aspettarsi bene di sorta.

Guai all'uomo che patteggia un solo momento coll'austerità di sua coscienza! se è privato, diverrà un iniquo; se magistrato, un satellite; se principe, un tiranno.

A quell'indegno procedere non resse Bronzino Caimo, valoroso giurisperito, che in piena adunanza osò mostrarne l'enormità ai suoi colleghi. Lucio (anche i tristi s'ingannano qualche volta) non aveva dubitato di trasceglierlo, perchè, sebbene non dissimulasse la sua avversione alle violenze di Luchino, neppure i nemici di questo mostravano farne gran capitale, attesochè si dichiarava sempre abborrente dalle illegali opposizioni e dai miglioramenti recati colla spada: onde solevano dire ch'egli pretendeva raddrizzare il mondo coll'aspersorio e col messale.

Ma l'aspersorio e il messale lo facevano ripugnante a qualunque viltà, e coraggioso sostenitore del vero; tanto che la processura da Lucio impiantata non sarebbe in modo veruno potuta giungere a compimento, ove prima non si fosse punito costui, che osava di aver ragione.

Lucio pertanto, in segreto interrogatorio, potè far confessare al Malcolzato, che Bronzino Caimo era esso pure dei congiurati, anzi uno dei più pericolosi perchè ragionevole, e quando il generoso si preparava a non permettere che fosse, così senza un richiamo, violata la giustizia, si vide egli medesimo trascinato nelle prigioni, e chiamato innanzi a quei giudici stessi, ai quali doveva servire per lezione di docilità.

Senza dunque che altri più fiatasse, le confessioni del Malcolzato furono tenute buone: poi sotto pretesto che egli non volesse dir tutto quello che sapeva, gli venne tolta la promessa impunità, e, condannato a morte, fu tra pochi giorni appiccato, siccome ministro scellerato delle scellerate trame del Pusterla. Il popolo corse a vedere, e disse: - N'ho gusto! egli era un prepotentaccio, e meritava di finir così. Viva i nostri padroni che purgano il mondo da questa feccia».

Ma come le ingiustizie s'incatenano! Da questo supplizio restava convenuto, non solo tra il popolo, ma in giudizio, che una congiura esisteva, che n'era capo il Pusterla, che il secondavano gli altri nominati, oltre i più non iscoperti. Potevansi dunque chiamare in processo gli altri sopra un fatto, della cui verità non si doveva più dubitare dopo che era passato, come dicono, in giudicato: ed a Lucio non restava più altro a fare che mostrarne colpevoli gli imputati....

Oh, togliamo una volta le mani da questa sozza pasta, congratulandoci dei progressi che alla ragione criminale fecero fare coloro, i quali non temettero offendere i principi col francheggiare la sicurezza di tutti.

Per allora la conclusione fu che, terminati i dibattimenti della società di giustizia, i trombetti del Comune andarono in giro per la città, e ad ogni crocicchio fermandosi, dato fiato alle trombe, invitarono i capi di famiglia, perchè, il tal giorno a mezzodì, si radunassero alla concione generale nel Broletto nuovo.

In questo generale parlamento risedeva, come ho detto poco sopra, l'autorità suprema del governo: intendo di diritto, perchè nella pratica si credeva che, col nominare un principe, si fossero i cittadini spontaneamente esonerati di un tal peso per gettarlo sulle spalle a questo, il quale poche volte gli incomodava a venire a dir di sì.

Una delle poche volte fu questa, acciocchè coll'ombra del suffragio universale sanzionassero un nuovo atto di sua tirannia.  Già sulla loro decisione verun dubbio non provava il Visconte, conoscendo per esperienza come il voto della moltitudine così congregata non sia null'altro che l'espressione di quello degli intriganti, da cui si lasciano raggirare quei più che non ebbero voglia tempo capacità di ponderare i diritti e la giustizia. D'altro lato, guardando di mal occhio queste apparenze repubblicane, che sopravvivevano insieme colla monarchia, Luchino godeva screditare tali assemblee nell'opinione, col farsele consorti nei delitti.

Allora adunque che furono ivi radunati i cittadini, comparve in mezzo di loro la società di giustizia, e il capitano, salito sulla parlera, espose la congiura scoperta e sventata, nominò i rei, pubblicò le sentenze proposte sì contro gli imprigionati, si contro i fuggiaschi. I quali ultimi non erano pochi, giacchè tutti quelli che sapevano di essere in qualunque modo dispiaciuti al Visconte, sebbene del presente fatto non avessero colpa conoscenza, temettero ch'egli cogliesse volentieri quest'occasione, in cui il rigore pareva giustificato. Quelli dunque, che nei tempi di fazione si eran chiariti nemici del biscione, fuggirono; fuggirono quelli che altre volte n'erano stati perseguitati, ragione per esserlo di nuovo; fuggirono Ottorino Borro e Pagano Casati, per non provar novamente i guai che a lungo avevano sofferto nelle prigioni di Binasco; fuggirono Lodovico Crivello, Bellino della Pietrasanta, altri ed altri neppure nominati dalle imprudenti o dalle estorte accuse, ma, che il Visconte e i suoi enumeravano come argomento della estensione di quella trama.

Fra quelli che erano intervenuti al colloquio funesto, e contro cui vi erano imputazioni dirette, erano riusciti a sottrarsi Zurione, fratello di Franciscolo, Calzino Torniello da Novara, Maffino Besozzo ed altri, che, se tutti io nominassi, alcuno si dorrebbe perchè avessi richiamato in luce il delitto e la pena de' suoi avi, altri se ne farebbe bello, siccome d'una domestica gloria: - tanto in ciò vanno concordi le opinioni.

Letti i processi, voglio dire quella parte di processi che a Lucio piacque estrarre, apparve così enorme la colpa di tutti, che i novecento capifamiglia, i quali davano voto segreto con sassolini bianchi e rossi, trovaronsi tutti d'accordo nel confermare la condanna, eccetto una qualche dozzina, che dovevano o avere sbagliato, o non compresa la serenissima volontà.

I fuggiaschi vennero dichiarati sbanditi dallo Stato milanese, scaduti dalla nobiltà, cioè mutato il sangue; i nomi loro scritti sul libro dei signori ricevitori della Camera del Comune di Milano, e le effigie rozzissimamente dipinte sul muro del Broletto nuovo, appese alla forca. Ma ciò che è più positivo, i beni loro restarono messi al fisco, e quelli soli del Pusterla salirono al valore di dugentomila fiorini d'oro, che oggi si ragguaglierebbero a dieci milioni di franchi.

Di somma voglia Luchino avrebbe côlto il destro di togliersi d'in su gli occhi i tre nipoti, Bernabò, Galeazzo e Matteo, siccome gliene offrivano ragione le lettere trovate in casa Pusterla, e che furono l'argomento di maggior peso in quel processo. Ma egli non aveva osato farne proferire sentenza finale, tra perchè il fratello vescovo erasi interposto a favore loro con vive istanze, tra perchè temeva si levasse ancora tanto rumore, quanto pochi anni prima per l'assassinio di Marco Visconti.

Davanti a una Madonnina che soprastava alla porta Romana, furono dunque accesi due torchietti, e intimato a Bernabò e al bel Galeazzino (Matteo era già sul Veronese) che, prima che i due ceri fossero consumati fino al verde, eglino dovessero uscire di città: e, come se ne furono iti, fu mandato un bando che li dichiarava esclusi dallo Stato come sospetti della fede, violatori della pace, spergiuri detestandi; et che non potessero contrar matrimonio, morendo avere sepoltura ecclesiastica.

Pur troppo, come sapete, ritornarono; fecero di questo paese il peggio che seppero, vennero sepolti in chiesa, e lasciarono prole niente migliore.

Il peggio toccò agli infelici ch'erano stati côlti. Martino e Pinalla Aliprandi, chiusi nelle carceri pretorie in piazza dei Mercanti sotto alle scale del palazzo, da un pertugio di quella carbonaja poterono udire la sentenza che li condannava a morir colà entro di fame. Poi il seguente videro Borolo da Castelletto, Beltramolo d'Amico, e l'incorrotto giudice Bronzino Caimo, decapitati sulla piazza stessa; li videro, e come dovettero invidiarne la pronta morte, essi costretti a doverla aspettare a gradi a gradi, con tutti gli atroci spasimi del digiuno!

Ogni anno si soleva imporre sul censo una taglia straordinaria, detta il fiorin d'oro, molto incresciosa non meno alla nobiltà che alla plebe. La mattina dell'esecuzione, Luchino pubblicò che quell'anno la condonava, e che non la riscoterebbe più fuorchè nel caso d'invasione di nemici.

Tanto bastò, e fu sin troppo, perchè il dabben popolo milanese dimenticasse quel sangue, anzi corresse a vedere quell'atto di giustizia del suo generoso signore; il popolo, tanto somigliante ai fanciulli, che da ogni cosa traggono motivo di festa, che contemplano giocondi lo strato disteso sulla bara del padre, e dicono oh bello alle molte candele accese ai funerali della madre loro.

I giudici, uscendo di carica, si trovarono consolatissimi d'avere, per la pubblica sicurezza, lavorato tanto, colla soddisfazione d'essere pur riusciti a scoprire i traditori del paese e castigarli. Più soddisfatto rimase il capitano Lucio, il quale da un viglietto di Luchino si trovò assegnato per residenza il palazzo dei Pusterla alla Balla, e conceduto ad uso il delizioso podere di Montebello, salvo ad accordargliene la proprietà quando fosse deciso definitivamente intorno al Pusterla e alla sua famiglia.

Anche la storia doveva, come spesso, offrire l'umile servigio della sua penna alla prepotenza; talchè, o prezzolata, od abbagliata, o trovando più comodo il credere che l'esaminare, affogando sotto pompose parole il vero, e mentendo l'eloquente semplicità dell'affetto, scrisse qualmente lo sciagurato Francesco Pusterla, benchè il più ricco e il più nobile fra i signori milanesi, benchè con gran favori e con gelose missioni distinto dai Visconti, aveva macchinato a rovina di essi, e meritato così di cadere dalla opulenza di Giobbe nella miseria di Giobbe: grand'esempio di non tentare novità contro ai signori del proprio paese.

Così un consesso indipendente processò: la legge proferi la sentenza: il suffragio universale la confermò: il popolo applaudì; la storia perpetuò. Chi più avrebbe osato dubitare dell'esistenza di una cospirazione, e della giustizia con cui fu castigata?


 

 

 


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