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CAPITOLO XIV.
Perduta ormai la speranza di rivedere Alpinolo, certo che, dovunque fosse, costui ne avrebbe fatte di tali da lasciarsi scoprire anche troppo. Ramengo andava tra sè pensando ove rintracciario; giacchè il desiderio di scoprire un figlio lo faceva disviare dalla pesta che fin la aveva ansiosamente fiutata. In una delle sue corse alla ventura, mentre costeggiava il Po, ascoltò di sotto un macchione uscire un fischio come d'uomo che chiami: s'accosta: era un barchettajuolo, il quale sommessamente gli chiese: - Vuol forse passare, signor cavaliere?
- Oh la si lasci servire. Conosco ai panni ch'ell'è un milanese. Se n'ho passati queste settimane!»
Tali parole diedero la spinta all'irresoluta volontà di Ramengo, il quale risposto un sì piuttosto agl'interni suoi ragionamenti che all'inchiesta del barcaruolo, calossi, fece allogare il cavallo nel barchetto: poi mentre il rematore faceva forza vogando e tagliando obbliquamente il filone del fiume, il ribaldo, intento a scalzare, gli domandava dei passeggieri, degli abiti loro, dei discorsi, del dove si dirigessero: poi l'interrogò se fra quelli aveva veduto un bel fante così e così, dipingendo Alpinolo.
- Eh eh! (rispondeva il remigante) se dovessi averli a mente tutti. L'è stato un via vai! Però... quel che mi descrive mi pare di averlo veduto sì: un uomo così fra i trenta e i trentacinque...
- No, no: meno: neppur venti; capelli neri...
- Appunto: or mi raccapezzo: occhi grigi, bassotto, tarchiato...
- Anzi, occhi neri: alto tanto più di me; ben tagliato in tutte le membra: - impossibile vederlo e non ricordarsene.
- Uh! tanti asini si somigliano».
Capì Ramengo che l'uomo era tanto gonzo, tanto occupato del mestier suo, da non poterne succhiellar nulla: onde giunto all'altra riva, scarsamente regalatolo, si mise alla ventura, perchè l'unica indicazione datagli dal navalestro fu che quei profughi erano andati di là. Varcò ancora da luogo a luogo, richiedendo da per tutto, e da per tutto udendosi rispondere che Milanesi di fatto, se n'eran veduti molti, ma niuno sapeva ridire chi fossero, dove si dirizzassero: al più conoscevasi che andavano fuori via dalla patria per la tirannide di Luchino.
Ma altri tiranni egli vide dominare per le varie città di Romagna: a Rimini i Malatesta, gli Ordelaffi a Forli, a Faenza Francesco di Manfredi, i Polenta a Ravenna: Roma lamentavasi vedova, dopo che i papi, tramutandosi in Avignone, l'avevano abbandonata alla tirannide di que' suoi baroni, contro dei quali doveva pochi anni dopo, sollevare generosa ed impotente la voce Cola Rienzi: Bologna riceveva vita e splendore da forse quindicimila Italiani e Tedeschi, studianti sulla sua Università, la quale fino d'allora procacciavale il titolo di dotta che conservò sin qua, come conservò nello stemma la parola LIBERTAS, quantunque già in quei tempi si fosse ai papi assoggettata. Valicando poi l'Apennino, Ramengo si calò nel bel paese toscano.
Quivi la libertà era con maggior gelosia custodita, quanto a peggiori abusi vedeansi rompere i signorotti di Romagna e di Lombardia: tutte le terre difendevano acremente le loro franchigie, ed abborrivano il governo d'un solo. Ma come sperare che una fanciulla si conservi innocente fra bordellieri e femmine da conio? Quei tristi vicini se ancora non osavano attentare direttamente alla libertà dei Toscani, se ne preparavano la via col romperli, e col fomentarvi i mali umori. Sotto pertanto a quest'infame influenza, le nimicizie cittadine ivi peggio che altrove imperversavano: e i nomi di Guelfi e Ghibellini, che negli altri paesi avevano quasi perduto la significazione, mantenevano quivi una tenace vitalità. Ghibelline erano Pisa ed Arezzo; guelfe Pistoja, Prato, Volterra, Samminiato, Siena, Perugia e principalmente Firenze; talchè, invece di maturare un concorde sentimento di nazionalità, dal quale soltanto potevano sperare frutti per l'avvenire, combattevansi e contrariavansi l'una l'altra; patria riguardavano l'angolo dove ciascuno era nato: forestieri ed avversarj tutti quelli d'altra terra, tanto più accaniti quanto più vicini; e nelle loro querele invocavano spesso o le funeste armi o la più funesta mediazione dei comuni e più veri nemici, gli stranieri.
Fra quelle lotte però sentivasi la vita: ciascuno capiva quel che valesse di per sè, e quel che potrebbe d'accordo cogli altri; il commercio, l'agricoltura, le arti erano salito in gran fiore; pittura, scultura, architettura, offrivano modelli, che il difficile nostro secolo non cessò di ammirare; e la lingua, venuta a mano di Dante Alighieri morto venti anni prima, e del Petrarca e del Boccaccio, giovani ancora, acquistava il primato che più non perderà, sopra l'altre d'Italia.
Come in quella Grecia, a cui per tanti lati somiglia la patria nostra, si dimenticavano le mutue nimicizie per convenire ai giuochi in Olimpia, così l'umore allegro dei Toscani li raccoglieva alle splendide feste, onde solevano spesso ricrearsi le diverse città, o nelle solennità dei loro santi patroni, o per memoria di antichi fatti, o per celebrazione di nuovi. Pisa in quel tempo aveva appunto riportato vantaggio contro i Moreschi, che dalle coste d'Africa infestavano il Mediterraneo e l'Italia; onde, per solennizzare quel trionfo e la presa di alcune loro galee, dovevasi finire il carnevale colla festa di Ponte. Nè d'altro che di questa udiva Ramengo ragionare per tutta Toscana allorchè vi capitò: chi poteva, preparavasi per andarvi; gli altri se ne struggevano di desiderio. - Perchè non v'andrò anch'io?» disse Ramengo. «Fra tale concorso di gente, nulla più probabile che incontrar quello ch'io cerco».
E vi si drizzò.
Pisa in quel tempo era nel maggior suo fiore. Porto frequentissimo come (fatta ragione ai tempi) oggi sono Amsterdam e Londra, nel 1283 aveva armate fino centotrè galee per guerreggiare Genova, che gliene oppose centosette: vedeva a' suoi mercati accorrere Mori d'Africa, Normanni del Settentrione, Turchignoti di Levante; mandava i suoi legni verso le Indie orientali a caricarsi di spezie, che poi diffondava per tutta Europa, riportandone in cambio legnami, canapa, stoffe, denaro. Alle speculazioni congiungendo l'amore per le arti belle, innato nella patria nostra, dalle imbarbarite regioni dell'Asia i Pisani traevano marmi, colonne, sculture, di cui abbellivano la patria: di Palestina recarono terra per riempiere il loro cimitero, onde poter dormire in terra santa; attorno a quel cimitero, i ristoratori delle arti belle fabbricavano, scolpivano, dipingevano, più insignemente perchè l'originalità non era stata per anco soffogata dall'imitazione, nè il raffinamento materiale aveva tolto la mano alle idee ed al sentimento. Su quelle pareti era stata ridotta a figure la Divina Commedia di Dante, per leggere la quale avevano eretta una cattedra nella nuova Università; - poesia, pittura, scuola nazionale e religiosa: commercio, arti, devozione, sapere, libertà; begli elementi della vita italiana d'allora.
Oggi Pisa è ben altro. Una borgata a mare, allora appena avvertita, le tolse quel resto di commercio, che le mutate condizioni d'Europa lasciarono alla Toscana; i cencinquantamila suoi abitanti sono ridotti ad un settimo appena; la marmorea cattedrale, lo stupendo battistero, la mirabile Loggia dei mercanti, gli altri edifizj di antica maestà fanno un melanconico contrasto coll'erba crescente per le vie spopolate, col silenzio delle ammutolite officine, coll'inoperoso vuoto del suo Lungarno; e la bizzarra Torre sembra chinarsi in atto di compassione per deplorarne le perdute grandezze.
- Potenzinterra! ei dee venire da in capo al mondo se mai non ha inteso parlare della festa di Ponte»; diceva a Ramengo l'oste Acquevino, che, venuto giovane da Pontedera senza un becco d'un quattrino, come egli diceva, in sulla via di Pisa avea rizzato dapprima un frascato, ove dava bere a' mulattieri, cavandone le spese e qualche zaccherello di vantaggio; poi coi quattrini facendo quattrini, e spacciando gran nomi ai piccoli vini che la sete faceva parere strabuoni, murò un'osterietta, che, se alcuno gli diceva essere piccola, egli, senza certo aver mai letto di Socrate, rispondeva, - Così potessi averla sempre piena di avventori». Posta sur un dosserello, aveva dinanzi uno spazzo ove si giocava al pallamaglio, e da cui vedevansi passar rasente quelli che si avviavano alla città, e dominavasi la vasta pianura, che da un lato scende fino al mare, dall'altro è chiusa da collinette biancheggianti nel verde degli olivi, e tramezzata dall'Arno che poi a forma di semicerchio divide Pisa. Colà Acquevino fatto maturo e grassotto, ma sempre fresco, snello, gran chiacchierone, gran lodatore del suo paese, del bel cielo, della buon'aria, della buona gente, quanto un poeta arcade, dava alloggio a qualche forestiere, facendogli poi nello scotto pagare la colpa di non esser toscano; somministrava bubbole e da bere a vetturieri e pedoni; e con religiosa integrità serbava prosciutti del Casentino e fiaschetti d'aleatico e di Montepulciano, che un professore dell'Università aveva paragonati all'ambrosia e al nettare degli Dei; similitudine che Acquevino, da venti anni ripeteva come nuova di zecca a tutti i signori, che (diceva egli col tono onde una civettuola dice esser brutta per sentirsi raffermare il contrario) venissero ad onorare quella sua catapecchia. - E (soggiungeva) qui gente non ne manca mai. Perchè io non sono come que' miei confratelli, che vogliono far commenti all'altrui starnuto. Libertà per tutti; chi paga è buon amico».
Vedendo arrivare in sulla sera Ramengo solo e con magra valigia, gli aveva dapprima fatto gli occhi grossi ed era stato con lui tant'alto; ma quando lo intese comandare la camera migliore, i più squisiti bocconi, il centellino più scelto, e gli balenarono all'occhio i fiorini d'oro lampanti, onde aveva rigonfia la borsa, disse fra sè: - Costui vuol riuscire meglio a pan che a farina»; e mutò cantare: non fu buon garbo che non gli usasse, e mentre si dava fretta intorno alle pietanze e ai forestieri, trovava qualche ritaglio di tempo per regalare due parole all'ospite dalla buona borsa, e vantargli il suo paese e la sua osteria. - Pisa (gli diceva) fior del mondo; senza far torto a nessuno, e meno al suo paese, signor forestiere. E se non fosse stata Pisa, tutta Toscana era a manco d'un pelo di venir turca, e non si berrebbe vino. - Ch'io le ne mesca un altro bicchieretto? - Vogliono esser forse trecent'anni, i Saracini avevano posto piede in Calabria: ma i Pisani, nemici dei nemici di Dio, mandarono il fiore della nostra gioventù a snidarli. Cosa pensano quei dannati? Con navi sottili e col diavolo che li ajuta, nel fondo della prima notte di gennajo hanno faccia di entrare in Arno, invadono il sobborgo, lesti e queti così che nessun popolano se n'accorse, fuorchè ai colpi dei malnati e alla vampa degli incendj. Allora tutti a fuggire senza guardarsi alle gambe, e senza pensare ad avvertire la città perchè si mettesse in difesa. Una donna sola, oh viva le donne toscane! - la sola Cinzica de' Sismondi, attraversa i maledetti che già occupavano il ponte d'Arno, corre ad avvisare la Signoria; e subito un dar delle campane, un sonar di trombe, un leva leva, un presto presto, un corri corri, tutti, a vedere e non vedere, pigliano le armi; fanno fronte ai Saracini che, rincacciati, n'hanno di grazia a fare salva chi può, si tolgono di testa il baco di mai più tentare la gente più valorosa di cristianità. In memoria di quel trionfo sul ponte stesso...»
Qui Acquevino, richiesto da altri avventori, dovette interrompere la narrazione di quel fatto, successo intorno al mille, e in memoria del quale il borgo rifabbricato di là d'Arno fu nominato di Cinzica, ed istituita la festa del Ponte. Noi meno, pressati dagli avventori che non fosse Acquevino, procureremo supplirgli alla meglio nel divisarne il modo.
La smania di fazioni, di allegrie, di battaglie, di devozioni tutt'insieme, che Pisa, colonia greca, aveva dalla Grecia portato, suggerì quel genere di festa; lo tenne vivo il desiderio politico di alimentare gli spiriti guerreschi, tanto necessarj per mantenere la pace e tutelare i diritti. Imperciocchè in grazia di quella, i più valenti e animosi fra i giovani pisani si addestravano continuamente nelle armi e nei movimenti del corpo; e in tal guisa formavansi prodi e disciplinati sotto capitani, che, come più esperti, erano a ciò trascelti per voce di popolo, e che, dopo le finte lotte, poteano guidare anche alla vera.
La città e il territorio si dividevano in due fazioni, chiamate dei Bianchi e di Borgo, ovvero di Sant'Antonio e di Santa Maria, da due chiese una di qua, l'altra di là del fiume. Nappe di color diverso, per lo più intrecciate e regalate dalle belle, distinguevano i parteggianti; e per quindici giorni innanzi alla festa non era quasi nient'altro che lottare e tambussarsi, ora in pochi, ora in più, con guasto anche di molte vite. Giunto poi il dì solenne, i combattenti delle due fazioni, protetti il capo di celate, con alla mano noderosi randelli che chiamavano i targoni, schieravansi dai due capi del ponte di mezzo, formando una fronte di forse quaranta. Non appena alzata la sbarra, si movevano all'incontro, e venuti al colmo, allora era il menar delle mani, il cozzare, il picchiarsi; e la baja diventava pur troppo da vero. I primi, coi targoni appuntati al petto, pigiavano, spunzavano contro gli avversarj; altri menavano, facendosi piazza; alcuni carpone si ficcavano tra le gambe dei combattenti, o per arrovesciarli, o per alzarli di peso e buttarli in Arno. Sulle spallette intanto venivano i capitani, col battacchio anch'essi, dando un poco di regola a quel tumulto, rincorando, zombando, ma coll'occhio attento a schivare gli avversarj, che, se vedevano il bello, con uno spintone li sbalzavano dal ponte. Sotto a quei colpi, tra quella furia, guaj a chi stramazzasse ai piedi della calca! Il men male era per chi dai parapetti traboccassero in Arno, ove stavano pronte le barchette a raccorli. Del resto si ferivano, si abbattevano, si disarmavano avversarj, si facevano prigionieri; nè per tre quarti d'ora restava il calcare, il ferire, l'accopparsi, come diceva Acquevino, con mirabile tripudio degli spettatori. Dalle finestre, dai terrazzi, dalle bertesche, d'in su i tetti, una calca di gente attendeva, smaniando di gioja, di timore, di applausi, d'incoraggiamenti, di fischi, secondo che questa o quella parte piegava o prevaleva; secondo che era in fortuna o in disdetta l'amico, il parente, l'amante; secondo che Sant'Antonio o Santa Maria più acquistavano del combattuto ponte; e sì gran fervore ponevano nel matto parteggiare, che madri, sorelle, amiche, all'udirsi annunziare le ferite e fino la morte dei loro cari, domandavano qual delle due parti avesse avuto il meglio, e se l'annunzio rispondeva ai loro desiderj (Spartane fuor di tempo) obliavano i più teneri e sacri affetti per prorompere in festose acclamazioni.
Spirato il termine concesso a quel furore, sonavasi a raccolta, calavansi di nuovo le sbarre, e la parte che più avea preso dell'erta, veniva gridata vincitrice. Qui le baldorie, il trionfo, e i più segnalati campioni, incoronati dalla Signoria, abbracciati, baciati da chiunque avea la fortuna d'esserne, in quel giorno, amico; e scornacchiare i vinti, e cantare inni, come fossero stati distrutti i nemici della patria.
Poichè le usanze sopravvivono al loro motivo, i Pisani continuarono il sanguinoso spasso anche quando il valore non solo era divenuto inutile, ma si sarebbe reputato una colpa; e finalmente Pietro Leopoldo di Lorena, trovandolo troppo per un giuoco, troppo poco per una guerra, lo proibì.
- Non ha mai visto, signor forestiero, in vita sua e per tutto il mondo, un tal concorso di cristiani?» domandava l'oste a Ramengo, il quale, la mattina dello spettacolo, stava sopra un terrazzino, ombreggiato da un leccio, osservando Pisa e la folla che vi traeva. E girando in tondo la mano distesa, seguitava: - Le par poco? Che sciali! Che bellezza! che brio! Un toscano si discernerebbe anche di mezzo alla moltitudine di Val di Giosafatte. Quelli che vede in lucco maestoso sono i Fiorentini; ricchi sdondolati, sa, speculeranno anche sulla festa. Quest'altri, tutti in fronzoli e in fiocchi, sono Pistojesi; quelli là, da Siena, la gente più leale e sincera delle tre parti del mondo. Il desiderio di vedere le nostre feste gli ha fatti dimenticare delle vecchie emulazioni; e a Pisa tutti saranno i ben accolti, e nemmeno si temerà che ci portino la peste. Oh veda la bella cavalcata! Sono signori della Versilia e della Lunigiana, terribili nei loro castelli non meno che sul mare; lo sanno i viandanti. - Buon divertimento a lor signori! Posso servirli di nulla? - Questi sono di que' ricchi cogli arnioni, e vengono dalla val di Nievole, fertile e ridente, ch'è il paradiso di Toscana, come Toscana è il paradiso del mondo. Snidarono essi gli antichi baroni, e si piantarono nei loro palazzotti per coltivar le vigne e gli uliveti. Osservi, belle e robuste figure. E tutti hanno in groppa fanciulle e donne, che, non v'è rimedio, le eguali non vede il sole, per quanto giri. - Viva il bel sole, vivano le belle donne di Toscana».
Così, ma a spizzico e scappa scappa, raccontava l'ostiere a Ramengo, intanto che dava ricapito agli altri, che cominciavano bene la mattinata con un fiaschetto; e quel vivo spettacolo pareva ammansare il truce animo di Ramengo, che, nella contentezza di sapersi padre, nella speranza di pur trovare suo figlio, di riconciliarsi con esso, pareva entrare in una vita nuova, e talora sentivasi preso da un tal accesso di benevolenza, che proponeva lasciare la micidiale e infame sua scelleraggine, e cercare con belle azioni la stima dei buoni, la tranquillità dell'animo, la serenità che attorno a sè vedeva regnare nella turba festiva.
Alla quale intento, mirava dai poggetti, dagli scenderelli, dai tragetti, sbucare i villani, a larghi cappelli di treccia bianchi, con nastri rossi e neri; e quadriglie di contadinotte che, cammin facendo, trecciavano la paglia. - Esse scendono dai colli di Signa (ripigliava Acquevino). Questi sono i robusti montanari di Lucca. Cotesti pallidi e scialbi vengono dai contorni del lago di Bientina»; ed ai vivaci colori del loro vestito faceano contrasto i bigi e neri e bianchi delle tonache di tanti frati, e il marrone dei mendicanti, che accattavano pei poveri e per Dio.
Su per l'Arno intanto vedeva un mondo di bacchette guizzare leggiere fra mezzo ai grossi legni ancorati. Chi capitò a Pisa per la festa della Luminara, che si rinnova nel giugno d'ogni terzo anno, ed ha goduto, per non più dimenticarlo, l'incantevole prospetto di quella città, con tutti gli edifizj, le cupole e i campanili accesi a lumicini e fiammelle, e una quantità di navicelle illuminate vogare l'una a prova coll'altra, potrà immaginare il tripudio che, in tempi tanto più prosperi ad essa, vi si doveva fare alla festa di Ponte. Fra tutta quella moltitudine era una curiosa allegria; eccitata viepiù dal felice rinnovarsi della stagione, ed alimentata da capricciosi scherzi, da bizzarri motteggi, che si facevano, che si slanciavano gli uni agli altri, nella dolcissima e vivace loro favella. Un coro di giovani, dando fiato alle zampogne, accompagnava gli accordi di altri che cantavano la nota ballata:
Vaghe la montanine pastorelle,
Donde venite sì leggiadre e belle?
E com'ebbero finito l'aria, una forosetta, che, per grandi occhi e per guancie rubiconde come una melarosa, si discerneva dalle compagne, rispondeva con voce più robusta che delicata, mentre appunto passava sotto al balcone ove stava Ramengo:
E s'io son bella, io son bella per mene,
Nè mi curo d'aver de' vagheggini;
E non mi curo niun mi voglia bene,
Nè manco vo' ch'altri mi facci inchini.
- Guarda che bella tosa», esclamò un giovane, sbucando di dietro la taverna, e spingendosi audacemente verso la fanciulla. Al suono della parola e dell'accento forestiero si voltò Ramengo, e riconobbe un crocchio di Lombardi. Quando ogni paese portava diversissime foggie di vestimenti, bastava un'occhiata per discernere gente da gente; e i Lombardi d'allora, dico i più ricchi e da festa, usavano nobili panni, assettati alla persona, foderati di seta, o cappe tedesche foderate di vaj; cappucci alle gote con fregi d'oro intorno alle spalle; ai piedi calze e calzeroni; alla cintura larghe correggie con fibbie d'argento, da distinguerli al primo sguardo.
Vibrò Ramengo un'occhiata fra loro; fissò con sguardo scrutatore quei visi, ed accertatosi che fra quelli non v'era chi lo conoscesse per veduta, o gli potesse interrompere i disegni suoi, scese, e col parlare si diede a conoscere per loro compatrioto. Tosto gli furono essi intorno con quell'amorevole premura, onde si suol salutare un concittadino su terra lontana, dove basta la comunanza di patria per far riguardare siccome amico anche uno sconosciuto.
In quella libera città avevano fatto capo i molti forusciti da ciascuno dei varj paesi lombardi; e quivi, pascendosi delle speranze, dolce e indigesto nutrimento dei profughi, preparavano maneggi ed armi contro al tiranno della patria loro. Ma il tiranno della patria loro aveva il vantaggio, che ha sempre chi già trovasi in possesso d'una cosa, sovra colui che ne lo vuol privare; e mentre essi menavan trattati a danno di lui, altri più vivi ne raggirava sott'acqua, Luchino; quelli andarono sventati, questi riuscirono al loro intento.
Ma non anticipiamo gli eventi, e ci basti per ora mostrare come quella festa, al pari di tutte le altre antiche e moderne, nostrali e forestiere, potesse rassomigliare al color di rosa, che tinge le guancie d'alcuni consumati da mal sottile: sul volto non appare che la sanità, ma dentro cresce lo spasimo e il marasmo; oggi sorridono, domani morranno.
Ramengo, sicuro tra quei sicuri, salutava, rispondeva, abbracciava, stringea la mano a questo o a quello, e sebbene potesse sperare che il nome suo fosse tra i forusciti riguardato come quel d'un amico, d'un compagno di sventura, gli parve però prudenza il dissimularlo, e si diede per un tal Lanterio da Bescapè, nato all'ombra del Duomo di Milano, abitante alle Cinque Vie, e come loro fuggiasco dalla patria, - perchè (diceva) chi può reggere regga in una terra, a quel modo oppressa da così scellerato tiranno. Tenga egli seco i suoi mastini, tenga il suo Sfolcada Melik; non chi sentesi nelle vene stilla di sangue italiano».
Pensate se quelle parole andassero a' versi de' forusciti, e quasi il parlare avventato fosse infallibile contrassegno di spiriti animosi e sinceri, già, senza un sospetto al mondo, computavano il nuovo arrivato per un acquisto; già prendevano occasione di narrargli ciascuno i torti fatti da Luchino alla loro patria, a Cremona, Pavia, Lodi, Como, Bergamo, ed i particolari loro disgusti, o domandarlo de' suoi, che immaginate s'egli sapeva impiantare e colorire al vero. Ognuno poi si affrettava a chiedergli di questo o di quello fra i parenti, fra gli amici che aveva lasciato a Milano.
- A che partito sono gli Aliprandi?
- E Bronzino Caimo, quel gran moderatone, sta sempre col tiranno?
- Sta col muso alla ferrata per aver osato difendere la verità, se pure non gli è già capitato di peggio.
- Confinato a Morano di Monferrato.
- E Barnabò?
- In Corte dello Scaligero. E dicono farà un parentorio con quella signora regina.
- E Galeazzino? sempre bello? sempre galante? sempre adoratore di madonna Isabella?
- Oibò! Il signor Luchino dorme soltanto finchè vuole. Il bel Galeazzo è vagabondo per povertà, e per far perder allo zio la sua traccia. Dicono però sia in Fiandra»,
Così rispondeva Ramengo alle varie domande, lieto di mostrarsi informato per guadagnare maggior fede, e di narrare quel che sapeva onde ricavarne quel che cercava. Perocchè, come il marinaro nel riveder le onde quiete, come il ladro al presentarglisi un bel tiro, come il beone all'entrar in una bettola, dimenticano ogni proposito antecedente, così Ramengo dissipò quei momentanei impulsi al bene, tosto che si vide innanzi l'occasione di poter nuocere; volle mentire sulle prime, affine di scoprire, se potesse, ove trovare Alpinolo, quindi, al solito, un peccato il trasse all'altro, all'ebra necessità del delitto, a far il male per il male istesso.
- Ma dunque (gli domandavano quegli infervorati), che vivere è oggi a Milano?
- Il vivere (rispondeva Ramengo) dell'inferno e di ogni paese in servitù. Luchino ogni giorno più imbaldisce, perchè vede che le alre città, spaurite, vengono a lui, come il bove che volontario andasse al macello. Dieci n'ebbe già Azone in obbedienza, non è vero? Ebbene, costui già v'aggiunse Bobbio, Asti, Parma, Crema, Tortona, Novara, Alessandria....
- Vili! così lor pute la libertà? così vogliono farsi puntello al trono di uno scellerato?» l'interrompeva Aurigino Muralto da Locarno. Ed Acquevino, che mesceva loro del più generoso, ripetendo, - Guardino com'e' brilla, spruzza, salticchia! Resusciterebbe un morto», ascoltando quegl'infervorati loro parlari, quel prendersela così d'impegno, dimenava il capo ed esclamava: - Poveri paesi! Viva la libertà toscana! Per dio bacone, viva il giardino d'Italia!... Ma trovato quest'aria, questo vino, questa pace, cosa importa a loro chi sia e quale il padrone? Non basta ciò alla vita beata?» E andandosene canterellava: - Nè per tempo nè per signoria non ti dar malinconia».
Prediche al deserto. Ramengo, dopo vuotata una tazza con quei compatrioti, proseguiva: - Giudichereste però che egli cresca per questo in potenza? Tutt'al contrario: ingelosi le potenze vicine, e al primo vento le barbe diverranno rami. I signori Gonzaga lo guatano da Mantova in cagnesco; il conte di Savoja già levossi i guanti, e prepara delle buone armi; il marchese di Monferrato non vede quell'ora di romperla seco. Ma chi la romperà in modo da non rappiccarla più, ve ne accerto, sarà Mastino della Scala. Nel paese poi non vi dico altro. Sapete che gran ghibellino si è mostrato Luchino finchè durò in condizione privata. Chi non avrebbe creduto che dovesse ora in ogni cosa dar mano alla parte migliore? sostener i nobili contro la ciurmaglia? Ma no, li tratta nè più nè meno di quel che faccia coi Guelfi più marci nell'anima. Questi però non gli credono, e lo tengono un impostore; gli altri se gli rovesciano ogni di più; cosicchè gli è proprio il colosso di Nabucco dai piedi di creta.
- Ma il sassolino che basti ad atterrarlo?» soggiungeva Caccino Ponzone cremonese.
- Eh! il sassolino ci saria ben egli (rispondeva quel falso) e se... Ma lingua taci...» e battevasi sulla bocca.
Era il miglior modo di metterli in savore, onde, stringendosegli viepiù intorno e punzecchiandolo, - Che? dite su; c'è qualche nuvolo in aria? c'è speranze? Abbiamo ben compreso che voi in cose di Stato pescate al fondo. Perchè far misteri con noi? la causa dei Milanesi non è quella pure di noi tutti? e siam qui per dare di spalla quanto valiamo. Non si aspetta che quel momento del Signore, il dies irae. Ma chi dirigerebbe?
- Se Franciscolo Pusterla...» Proferito questo nome, Ramengo si recava sulla sua, con una di quelle pause a tempo, che sono il giuoco dei maliziosi, e girava uno sguardo aggressivo su tutti quegli impavidi visi, come per succhiellarne il pensiero più arcano. Ma non facea bisogno di tanto perchè l'imprudenza andava in essi di pari coll'ardor giovanile, tanto che il tristo n'ebbe miglior mercato che non isperava. - E che? (gli domandavano coloro) siete anche voi di quelli del Pusterla?
- Come! se sono dei suoi?... (ripigliava Ramengo) Chi aveva il mestolo di tutta quella faccenda a Milano? e perchè m'ho avuto di grazia ad uscirne colla pelle? Ora qui (e li mostrava) ho dispacci da recare a lui... ma, acqua in bocca, che alcuno non mi ascoltasse. La prudenza non è mai troppa. Coloro hanno bracconi da tutte le bande. Io ho lettere per lui dal signor Mastino della Scala...»
Ramengo punzava, ed emetteva queste parole a scosse; balestrando gli occhi in faccia a tutti: essi credevano per cautela, in fatto era per ispiare l'impressione che su loro faceva, e se alcuno potesse o volesse dargli notizie o modo d'averne. E notò alcuni che dimenavano il capo, come volessero esprimere, - Non ne faremo niente»; sicchè continuò: - Ma! quando si dice gli uomini!... Chi lo avrebbe creduto? Egli, che poteva, sol che volesse, divenire capo e salvatore della patria, ora dorme... s'è rimpiccinito... scappa come un fiacco paltone...
- E' bada a fare mea culpa ai piedi di un fornaio...» uscì a dire Aurigino Muralto.
Fornajo di mestiere, quindi Fournier di soprannome era stato il padre di Benedetto XII papa, allora sedente in Avignone. L'indicarlo a quella guisa, anzichè spiattellarne il nome e il luogo, era stato una di quelle povere transazioni che fanno colla prudenza coloro i quali sanno alle sue leggi rassegnarsi solo fino ad un certo punto.
Aurigino non si sarà creduto d'aver fatto il minimo, male, non n'avrà concepito il minimo rimorso, eppure avea messo lo spione sulla traccia, che più non perderebbe. Ramengo toccava appena il suolo colle piante per l'esultanza di questa scoperta, ma dissimulando e facendosene appieno informato, - Di certo (proseguiva) e' s'è messo ad Avignone come un chierico, il quale aspiri al cappel verde o al rosso, o come un basso delinquente, che cerca sicurezza celando lo stocco micidiale fra le tonache e le cocolle. Ma lo ridesteremo noi da codesto pigro sonno... oh, lo ridesteremo!
- E qui (soggiungeva il Ponzone) troverete amici suoi, da potervi dare indirizzo e ajuto.
- Vi saranno, m'immagino, suo fratello Zurione, Maffino da Besozzo, quel della Pietrasanta...» domandava Ramengo. E gli rispondevano: - Sì, ma chi ne mostra più amore e devozione è lo scudiere Alpinolo.
- Alpinolo?...» ripetè colui, sentendosi dai capelli alle piante rimescolare. - Alpinolo? dov'è? ch'io lo veda tosto, ho estrema necessità di parlargli per cosa che molto dappresso lo tocca. Dov'è? dov'è?
- Che furia!» saltava su quel mezzo prudente da Locarno. - Finiamo di bere, e poi venite con noi. Laggiù ve li faremo trovar tutti. Che festa per loro a rivedervi!...
- Ma io voglio parlare con Alpinolo dapprima... con lui testa testa. Le cose so come vanno trattate»; e mentre egli era dominato dall'ansietà di trovare un figlio, e dalla speranza che, scoprendosegli padre, ne avrebbe e perdono ed amore, essi continuavano a bere, a discorrere, a ragionare, massimamente di Alpinolo.
- È un demonio colui quando si tratta di mettersi ad un'avventura.
- E per un proponimento non ha il pari. Ti ricordi, Ponzone, i primi giorni? Noi lo credevamo muto: nè parlava nè faceva segno. Che è, che non è, aveva fatto proposito di non proferire sillaba per sei mesi.
- E così giovane! (soggiungeva il Muralto.) Che gran soldato vuol riuscire!
- Ed ai nostri giorni (replicava il Lambertengo) se n'è visto dei soldati, con nient'altro che la propria spada, fare slanci, e toccare i primi gradi. Costui lo vedo già a un gran posto.
- Di chi dicono? (s'inframmetteva Acquevino) Di quel garzonotto con quegli occhi senza secondi? E come se lo conosco! Caspita! gli è di buon gusto e vien a bere qui tal volta un par di gotti, e non mesce a miseria; e dice che vini come i toscani, è inutile, non se ne trovano al mondo nè in maremma. L'altro dì era con alcuni; e dagliene un sorso, dagliene un secondo, erano brilli; e venuti a parole, uno gli disse: - Taci là, tu che non hai nemmeno padre. - Non avea finito, che Alpinolo, senza dire, guarda che ti do, stampandogli le cinque... volli dire le quattro dita della sua mano sulla guancia, gli buttò tre denti in gola».
Che suono facessero ad un padre, ad un tal padre, siffatte parole, immaginatelo. Sapeva d'esser vicino al figlio, e quel figlio lo sentiva lodato: lodato per quell'unica virtù ch'egli valutava: l'unica che, in tempi di quella sorta, potesse aprirgli facile varco alla glòria e alla potenza. Che lusinghe per la vanità di Ramengo! come struggevasi di vederlo, di abbracciarlo! Come si componeva in bocca le parole per calmare la prima furia! Dimenticava perfino di avere scoperto il nascondiglio del Pusterla, dimenticava Luchino ed i premj sperati e le giurate vendette. Quindi, col cuore palpitante, al modo che gli aveva palpitato nelle notti che stette appostando il drudo della Rosalia, calossi verso Pisa in mezzo a quei buoni Lombardi, i quali, intrecciati braccia con braccia, intonavano le canzoni della patria loro, - canzoni che per l'esule finiscono sempre in un sospiro!