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CAPITOLO XVI.
L'ESULE.
Sull'ardua montagna, d'un ultimo sguardo
Mi volgo a fissarti, bel piano lombardo;
Un bacio, un saluto, ti drizzo un sospir.
Nel perderti, oh quanto mi sembran più vaghi
L'opimo sorriso dei colli, dei laghi,
Lo smalto dei prati, del ciel lo zaffir!
Negli agili sogni degli anni felici,
Ai baldi colloqui d'intrepidi amici,
Nel gaudio sicuro, fra i baci d'amor,
Natale mia terra, mi stavi in pensiero:
Con teco, o diletta d'amore sincero,
La speme ho diviso, diviso il timor.
Tra cuori conformi, nell'umil tuo seno
In calma operosa trascorrer sereno,
Fu il voto che al cielo volgeva ogni dì;
Poi, senza procelle sorgendo nel porto.
Del pianto dei buoni dormir col conforto
Nel suol che i tranquilli miei padri coprì.
Ahi! l'ira disperse l'ingenua preghiera;
Rigor non mertato di mano severa
Per bieco mi spinge ramingo sentier.
O amici, piangenti sull'ultimo addio,
O piagge irrigate dal fiume natio,
O speme blandita con lunghi pensier,
Addio! - La favella sonar più non sento
Che a me fanciulletto quetava il lamento,
Che liete promesse d'amor mi giurò.
Ignoto trascorro fra ignoti sembianti;
Invan cerco al tempio quei memori canti,
Quel rito che al core la calma tornò.
Al raggio infingardo di torbidi cieli,
All'afa sudante, fra gl'ispidi geli,
Nell'ebro tumulto di dense città,
Il rezzo fragrante d'eterni laureti,
Gli aprili danzati sui patrj vigneti;
La gioja d'autunno nel cor mi verrà.
Intento al dechino dei fiumi non miei,
Coll'eco ragiono de' giusti, de' rei,
Del vero scontato con lungo martir.
Il Sol mi rammenta gli agresti tripudj;
L'aurora, il silenzio dei vigili studj;
La luna, gli arcani del primo sospir.
Concordia ho veduto d'amici fidenti?
Tranquilla una donna tra tigli contenti?
Te, madre, membrando, gli amici, i fratelli,
Te, dolce compagna dei giorni più belli,
Che acerbe memorie s'affollano al cor!
Qual pianta in uggioso terreno intristita,
Si strugge in cordoglio dell'esul la vita;
Gli sdegni codardi cessate, egli muor,
Se i lumi dischiude nell'ultimo giorno,
L'amor dei congiunti non vedesi intorno,
Estrania pietade gli terge il sudor.
Al Sol che s'invola drizzò la pupilla;
Non è il Sol d'Italia che in fronte gli brilla,
Che un fior sul compianto suo fral nutrirà.
Spirando anzi tempo sull'ospite letto,
Gli amici, la patria, che troppo ha diletto,
L'estrema parola dell'esul sarà.
Così, non è molto, lamentavasi taluno, nel punto di abbandonare l'Italia; eppure la condizione dell'esule quanto non è oggi senza confronto migliore di allorquando la subiva il Pusterla! Agevolezza di comunicazioni hanno oggi, sto per dire, tolte di mezzo le distanze e le barriere fra popolo e popolo; posta di lettere, giornali, commercio, viaggi, fecero comuni a uno le usanze, le idee di tutti; una gente conosce l'altra, una all'altra somiglia per vestire, per costumi: - sei fuori, ma frequente incontri tuoi concittadini, ma ogni tratto te ne giungono ragguagli; calchi una terra forestiera, ma le simpatie di nazione, di opinioni, di ingegno, di speranze vengono a mitigarti la durezza dell'esilio, ti fanno trovare nuovi amici, udire in diversa lingua l'espressione dei tuoi medesimi sentimenti, la fratellevole compassione per le tue sventure. Allora, al contrario, da paese a paese, per quanto vicino e confinante, correva maggior differenza, che non oggi dall'America all'Europa; poco si conoscevano le lingue; uno Stato ignorava quel che succedesse nel suo limitrofo; e corrieri a posta ci volevano per trasportare lettere o notizie.
Quanto aveva dunque a dolere a Francesco il dipartirsi dalla terra natale! e dipartirsene, non colla pace della rassegnazione, nè tampoco col magnanimo dispetto dei forti, costretti a cedere alla prepotenza degli eventi; ma da una parte cruciato da irrequieto desiderio di operare, dall'altra sollecito di quel che di lui direbbe la patria, direbbero i conoscenti, direbbe la posterità; avvegnachè non aveva egli concepito per gli uomini quella dose di disprezzo, che si richiede in chi voglia giovarli davvero, senza nè curarne i torti giudizj e maligni, nè temerne l'ingratitudine.
Quando frà Buonvicino accomiatò il Pusterla, lo commise alla fedeltà di Pedrocco da Gallarate, capo di una di quelle specie di carovane che, due o tre volte l'anno, facevano il viaggio di Francia per portarvi le derrate di Levante e i panni nostrali; raccattarvi lino, canapa, lana, e trasmettere il denaro in natura, come erasi costretti a fare prima che fossero praticati i giri di cambio.
Avea Pedrocco la persona come un facchino: faccia abbronzata dall'avvicendarsi dei soli e dei geli, mani robuste e callose da scusare il martello e le tanaglie; una casacca, stretta alla vita da una larga cintura di cuojo nero, ricamata a punti rossi, gli teneva pronto un paloscio, mentre il cappuccio tirato sugli occhi gli dava una fierezza di fisonomia, da far credere che per ogni poco lo caccierebbe a mano. Eppure a praticarlo era il miglior cuore del mondo: indole giuliva e tranquilla che non avrebbe fatto male ad una mosca; e col girare perpetuo aveva acquistato quella franchezza di trattare, quella estensione di veduta, quella spontaneità di riflessioni, che appena un lungo studio può dare a chi non uscì mai dal tetto paterno. Distinguiamolo bene dai cavallari d'oggidì, poichè in fatto egli era il capitano di una banda di mulattieri, uno spedizioniere ambulante. Da tutte le parti riceveva commissioni per vendere e comprare, per riscuotere somme e versarne, per avviare speculazioni; onde dovea goder reputazione di destro e di galantuomo. Ma per massima tramandatagli dal padre e dall'avo, adempiva le incombenze affidategli senza cercare più addentro; onde al modo stesso avrebbe portato un'indulgenza plenaria ed una sentenza di morte; una cassa di reliquie ed il prezzo dell'infamia e del tradimento.
Aveva ora caricato il suo convoglio di panni, usciti dalle fabbriche degli Umiliati di Brera e della Cavedra di Varese, per recarli a Lovanio, a Sedan, agli altri luoghi, donde ora ci arrivano se possono e quando possono; e come Buonvicino gli ebbe raccomandato di condurre questo amicissimo suo e di tacere, si pose la mano al cuore, esclamando: - Padre, farò ogni mio possibile»; e con fedeltà anche maggiore del solito assunse questo incarico, per la grande stima in che vedeva tenersi Buonvicino.
- La si confidi a me (diceva Pedrocco al Pusterla), io la servirò di cappa e di coltello. Anche cotesto piccolino vuoi menare in Francia? Ei comincia presto. Ma anch'io, alla sua età, passeggiavo già le montagne, e dopo d'allora ho girato tutta la vita come un arcolajo. E conta vossignoria piantare negozj in Francia?»
Il Pusterla rispondeva di no, e lasciava comprendere come fuggisse la tirannia del suo paese. Pedrocco l'interrompeva: - Di queste cose io non me ne intendo: ma in Francia la si troverà da papa. E il papa stesso non lasciò la sua Roma per la Francia altrui?»
Con una fila di muli si avviarono dunque per la Valgana, indi per Marchirolo a Pontetresa, confine allora del contado rurale del Seprio, e varcata la Tresa, costeggiarono la rupe Cislana verso Luino, finchè voltarono nella Val Travaglia. Ma quando erano più inviluppati tra quelle gole, ecco sbucava loro addosso una masnada di armati, che in sulle prime fecero paventare Francesco per la vita propria e del figliuolo; sicchè, raccolti i mulattieri, preparavasi a venderla cara. Presto però si accorsero come quelli non attentavano alla vita: andassero pur dove volevano, purchè lasciassero quivi le robe, o pagassero una enorme taglia: giacchè provenivano da Milano, e coloro appunto eran nemici del signore di Milano.
Pedrocco protestava che, nemici o no, egli di cose politiche non se n'intendeva: ch'era roba dei frati, e che l'avrebbero a fare con tutti gli Umiliati di Lombardia, e col papa che li proteggeva. Ma quei masnadieri poco tenevano conto delle minaccie: e davano già mano a spogliarli, se non che il Pusterla intese come fossero uomini d'Aurigino Muralto da Locarno. Era questi, se vi ricorda, uno dei fidati del Pusterla, intervenuto all'adunanza della sera fatale; e cercato a morte dal Visconte, invece di fuggire cogli altri, erasi ridotto fra i patrj monti ed a Locarno, ond'era signore, e quivi intesosi coi Rusconi, dominatori di Bellinzona, aveva alzato bandiera contro Luchino.
Quel nome, quell'annunzio bastò per dissipare dall'animo del Pusterla tutti i proponimenti di quiete, di fuga, di nascondiglio. - Aurigino? (diceva agli uomini di masnada), grand'amico mio: guaj a colui che toccherà un filo di questa roba! Siamo del partito istesso: vengo a far causa con lui».
E ottenne di fatto che quei masnadieri, i quali avevano una specie di buona fede al modo loro, e di diritto delle genti al modo dei moderni Beduini, lasciassero quelle robe in deposito: mentre Pedrocco, che ripeteva non intendersi nulla nè di partiti nè di causa comune, tornava a Varese per impegnare gli Umiliati a riscattare le mercanzie. Il Pusterla si imbarcò sul Lago Maggiore, ed oh come il piccolo Venturino pareva deliziarsi al vedere tanta bellezza di cielo, di acqua, di rive, un pelago circondato da scabre montagne o da spiagge ammantate da lussureggiante vegetazione! Vi restava un tratto coll'occhio incantato, poi volgendosi al padre, - Oh se ci fosse mamma!» esclamava: e l'uno premeva il volto al volto dell'altro, e sospiravano. Ma se il cuore e la mente del fanciullo non si pascevano che di amore, ben altre idee occupavano il genitore; il quale già si figurava capo di un esercito di prodi e risoluti montanari, terribile al Visconte; e via di vittoria in vittoria scorreva col pensiero fino al momento di dettar patti a Luchino, e ricuperare per forza di armi la patria e la consorte. Arrivando di fatti a Locarno, vi fu ricevuto coll'entusiasmo onde si suole un nemico d'un nostro nemico; feste, tripudj, e mostrargli ogni apparecchio, ed esagerargli le forze, e menarne trionfo, quale forse gli Americani allorchè il giovane La Fayette andò a spargere per essi il nobile sangue francese. Ma Aurigino Muralto era in casa sua, era capo: per rinunziare al comando si vuole più virtù e meno impeto che non avesse il giovane ribelle. Cortesie dunque senza fine al Pusterla; dato libero l'andare al convoglio di Pedrocco; ma quanto fosse ad autorità, nessuna ne concedeva al foruscito; al quale, il trovarsi meno che secondo in piccola terra sapeva d'agresto, assai più che non l'obbedire nella patria, in città grande, ad una grande famiglia. Alle brevi illusioni tenne dunque dietro un prestissimo disinganno: e colla solita irrequietudine, già si augurava in qualunque luogo prima che in questo, ove gli amici stessi, diceva, l'abbandonavano, il tradivano.
Che far dunque? Ripigliare il duro viaggio dell'esule, che va e va, nè sa dove riposi al fine dell'amara giornata.
Sopraggiunse intanto Pedrocco, che era corso ad avvisare gli Umiliati del sorpreso convoglio; e mentre ringraziava Francesco di averglielo riscattato, gli dava lettere di Buonvicino, ove, con tutto l'ardore dell'amicizia, lo supplicava a fuggire, a scostarsi più che poteva, a non lasciarsi allucinare dalle troppo facili speranze dei forusciti: ricordasse che la vita della Margherita poteva dipendere da un suo moto: pensasse al figliolino che aveva seco, e che doveva conservare all'amore di quella sventurata; poi gli esponeva i preparativi che Luchino faceva, e contro cui certamente non avrebbe potuto reggere un pugno di sollevati, comunque coraggiosi.
In effetto Luchino, indispettito della resistenza oppostagli da quelli di Locarno e di Bellinzona, e dei guasti che recavano alle sue terre con correrie e rappresaglie incessanti, temendo anche il contagio tanto sottile dell'insubordinazione, volle con uno sforzo straordinario domare la straordinaria opposizione. Dal Po, dal Ticino, da Pizzighettone, da Mantova, da Piacenza, raccolse nel Tesinello navi da tal servigio, ben fornite in opera di battaglia; fece fabbricare sei ganzerre, barche di grossissima portata, con cinquanta remi ed ampie vele e torri e macchine, montate ciascuna da cinque o seicento armati. Capitanata da Giovanni Visconti da Oleggio, la flotta venne pel Lago Maggiore ad assaltare Locarno; mentre Sfolcada Melik da terra guidava un grosso di mercenari, che sottoposero Bellinzona, e scesero di là contro i Muralti, assalendoli così vigorosamente, che Locarno fu espugnato; i capi dovettero per le montagne fuggirsene; i primarj borghesi furono trasportati a Milano; e per tenere quel posto in soggezione, fu fabbricato un robusto castello; sicchè i rimasti dovettero chinare il capo, rodere il freno, e raccomandare ai loro figli pazienza e vendetta.
Prima che questi avvenimenti si compissero, Francesco Pusterla, secondando in parte i consigli dell'amico e la prudenza, in parte il dispetto del vedersi posposto, erasi ritirato da Locarno, ove si fecero di lui tante beffe, quanti applausi dapprima: e in compagnia ancora di Pedrocco valicava le Alpi per vie, segnate unicamente dallo scolo delle acque, e da qualche croce che additava i passi ove altri viandanti erano caduti in precipizio. Faceva uno strano spettacolo ai profughi nostri quella fila di muli, che, tenendosi sempre sull'orlo dei precipizi, s'arrampicavano tortuosamente, lenti e col capo basso, senza che per l'ampia solitudine altro si udisse che il battere dei loro zoccoli, il tintinnio delle loro sonagliere, e fioccare i giuraddii dei mulattieri. Nel centro della carovana Francesco procedeva sopra un mulo più robusto, tenendosi in groppa il suo Venturino: e pedestre a canto di lui camminava Pedrocco, accorrendo qua e là a dar gli ordini opportuni come uomo esperto, poi tornando pur sempre a sollevare con parole la noja del signore lombardo.
- Oh di qui in Francia si va d'un salto. Io vi sarò tornato trenta volte alla larga. Paese d'ogni bene è quello: a petto suo, la Lombardia non vale la metà. - Come vi si stia a Governo? Mah! di queste cose io non me ne intendo. - Le strade? Faccia conto siano tutte sull'andare di questa che, come sa, l'ha fatta il diavolo. Abissi, precipizi, rovine e frane tra i monti; boschi, pantani alla pianura; ladri da per tutto. I muli però sanno ove tenere i piedi, ed alle volte si compie il viaggio senza che uno se n'accoppi. E poi, che serve aver paura? Se si muore, buona notte: tanto una volta quella corbelleria la s'ha da fare. - Dice bene: il peggio sono i malandrini. Non ha visto come l'abbiamo scappata bella con quelli laggiù? Nel mille trecento, e non mi ricordo quanti, tornavamo da Avignone con sessantamila fiorini d'oro che fumavano. Mi getto via nel rammentare quel bel marsupio. Me gli aveva fidati il santo padre da recare al cardinale del Poggetto, suo nipote o non so che altro, per pagare le truppe ch'egli assoldava onde tenere in senno certe fazioni, ed altre cose che io non me n'intendo. Il santo padre, perchè gli stavano sul cuore, mi diede cencinquanta cavalieri per convogliare i miei trenta muli: cavalieri, le so dir io, che ne tremava l'aria. Si va; si passa fiumi e monti senza incontro: quando insaccatici in una valle della Savoja, io comincio a notare certe faccie che non promettevano nulla di bene, ed avvedermi di un certo armeggio. Pas peur, dissero quei cavalieri francesi: noi mangiare Italiani in un boccone. Ma convien dire non si fossero ben raccomandati a san Cristoforo pel buon viaggio: poichè i Francesi hanno tutte le buone volontà, ma non la divozione. Mentre stavamo, come si fa, votando non una bottiglia, ma una botte, eccoci addosso una banda, Dio sa di quanti. Ferma, dagli, piglia, lascia: quei Francesi parevano tanti Orlandi paladini. Ma bisogna confessare che, per menar le braccia, gl'Italiani non hanno pari al mondo. Insomma quella truppa, ch'erano di Pavia, gettarono a terra i Francesi, e sollevatili dal peso dei cavalli, li rimandarono ad Avignone a piedi come pellegrini; a me poi tolsero la metà giusta del denaro e dei somieri, cosa che non era più accaduta dacchè i Pedrocchi vanno da Gallarate in Francia; e dovetti condurre al cardinal legato quel che mi rimaneva».
Così Pedrocco dava risposta alle varie domande del Pusterla, risposte meglio opportune a distrarlo che a confortarlo. Ma più che al disagio ed al pericolo della via, accoravasi il Pusterla per l'abbandono della patria; e quando giunse sul ciglio del monte che separa le due favelle, arrestossi, guardò di qua, di là, il cielo, la terra: pareva le ginocchia gli mancassero sotto, talchè Pedrocco gli domandò se si sentisse male. Egli rispose sospirando: - Qui finisce l'Italia».
Anche questa era una delle tante cose che il buon cavallaro non intendeva, pure il confortava alla meglio, raccontandogli siccome anche in Francia vi fossero uomini simili a noi, e buone case, e monti, e fiumi, ed erba alla primavera, e messi all'estate e all'autunno le delizie della vendemmia; i Francesi amabili, dilettevoli, sociali, buoni e vattene là: Ma il Pusterla ripeteva: - Non è l'Italia».
Ma una vera Italia (soggiungeva Pedrocco) ella potrà ritrovare in Avignone. Là cardinali, là servi, là camerieri, là poeti, là buffoni, tutto italiano».
Il Pusterla voleva far capire all'altro i disconci che venivano all'Italia dallo starne fuori i pontefici, e le sconvenienze della politica e della religione; ma Pedrocco, protestando che di queste cose non s'intendeva, magnificava le splendidezze dei prelati, e il continuo andare e venire di corrieri, di soldati, di ambasciatori, di roba, di denari, e i bei guadagni che egli ne cavava.
- E conoscete voi colà Guglielmo Pusterla?
- Chi? l'arciprete di Monza? Se ve l'ho accompagnato io stesso.
- E come vi sta?
- Sta benissimo: grasso, trionfale, ha salute da campar cent'anni.
- Lo so: ma dico se il papa lo favorisce; se saprà le disgrazie della sua famiglia a Milano: se in Corte è il ben veduto.
- Mah! di queste cose io non me n'intendo».
V'era però una materia, in cui Pedrocco s'intendeva come Manzoni nel far versi, e che importava non poco anche ai Pusterla. I Lombardi, nel tempo che si reggevano a comune, erano deditissimi al traffico, e frequentavano Francia, Olanda, Fiandra, Inghilterra, fin l'estrema Russia, dove aprivano case di commercio, e dove ancora se ne conserva memoria nel nome d'alcune strade e quartieri. Lombardi anzi venivano colà per antonomasia chiamati i banchieri; perchè davano opera principalmente al cambio del denaro e agli imprestiti. Perduta coi governi a popolo l'energia della classe media, primo elemento delle speculazioni ardite, ormai quel traffico era passato nei Toscani: ma i più denarosi fra i Lombardi non s'erano ancora immaginato che il guadagnare col commercio sporcasse la nobiltà, nè quindi avevano ritirato dai negozianti i capitali, come fecero due secoli dopo, quando l'albagia pitocca degli Spagnuoli diede, con questi pregiudizj, l'ultimo tuffo alla vivacità commerciale del nostro paese, uccidendone la prosperità mentre gli rapivano l'essere, il fare, il pensare.
I Pusterla, ricchissimi non meno di terreni che di capitali, ne aveano investiti dei grossissimi sulle banche dei Lombardi, dei Lucchesi, dei Fiorentini a Parigi. Ora venivano a grand'uopo a Franciscolo per ristorarlo dei beni confiscatigli in patria, e apprestargli il modo di potere, sopra la terra straniera comparire, non solamente col decoro conveniente alla grandezza di sua famiglia, ma col lusso ancora che la sua vanità desiderava, e che trovavasi e si trova necessario per acquistare considerazione fra gli sconosciuti, e non avere bisogno di quella compassione, che tanto confina col disprezzo.
Da ciò avevano materia di ragionamenti i due viandanti, ove Pedrocco era nella sua beva, e potè dare buon indirizzo all'innominato suo compagno. E questo ne profittava grandemente, non solo per ciò, ma anche perchè la vita di quel trafficante, tutta attiva di corpo e placidissima di spirito, dava tregua alle agitazioni di lui, gli mostrava altre vie nella società, che dapprima egli non aveva nè tampoco immaginate: gli faceva qualche volta invidiare di trovarsi fuori delle politiche turbolenze, o almeno di mutare la traditrice compagnia dei grandi, in quella meno appariscente e più sincera delle persone occupate. Ma la forza dell'antica consuetudine rivaleva: e non appena si vide sul suolo di Francia, sicuro e con quanti denari bastavano per accattarsi amici, si congedò dalla compagnia di Pedrocco, senz'altro conservarne se non la ricordanza che si suole d'un buon galantuomo, incontrato su questa strada che tutti battiamo senza sapere dove ci conduca.
E prima Franciscolo trascorse i varj paesi della Francia, cercando un poco di svago, e cogliendo i fiori, che, sul cammino d'un ricco, naturali o artefatti, spuntano da ogni terra. Venne poi a Parigi, la città del fango (Lutetia), che tuttavia giustificava quel nome colla sozzura delle sue strade. Da ogni parte del mondo vi accorrevano studenti all'Università, metodo tanto opportuno d'educazione allorchè non v'era la stampa e scarseggiavano i libri, quant'è ora disutile e pernicioso. Era cancelliere di essa Università Roberto dei Bardi fiorentino, il quale, facendo gli onori all'illustre arrivato, - L'Italia (dicevagli) primeggia pel diritto, Parigi per la teologia e per le arti liberali. A ragione il nostro Petrarca chiamò questa città un paniere, ove si raccolgono le più belle e rare frutta d'ogni paese: poichè vi convengono quelli che siano in qual vogliate facoltà eccellenti. Il nostro sommo Alighieri, nell'esiglio suo, qui studiò dai gran dottori della Sorbona, e il dirò per vergogna dei tempi, lasciò di farsi addottorare solo perchè gli vennero meno le spese. Qui avemmo anche Giovanni Boccaccio, un giovane che farà onore alla patria, e che raccoglieva novelle da Francesi e Provenzali, e le riduceva in vulgar nostro. Da Padova ci arrivarono dodici garzoni, che il signor Ubertino da Carrara qui mantiene a scuola di medicina. Vive poi, e vivrà sempre la memoria degli Italiani che qui lessero scienza: un Pier Lombardo novarese, maestro delle sentenze; un Egidio Romano, un Albertino da Padova agostiniano, il francescano Alessandro da Alessandria, i due astrologi immortali Dionisio Roberti da Borgo San Sepolcro e Pietro d'Abano padovano, e quei che valgono per tutti, il dottore Serafico e l'Angelico».
Denotavansi con tali nomi, chi nol sapesse, Bonaventura da Bagnarea e Tommaso d'Aquino, gigante della scienza dei secoli cattolici, la cui sintesi grandiosa da nessun posteriore tentativo fu eguagliata.
- Ed ora (proseguiva il valoroso Fiorentino, prodigo di lodi come un segretario e di frasi come un accademico) ora piangiamo estinto Nicolao de Lira l'autore della Postilla Perpetua sopra tutta la Bibbia, e del Commento, opera di tanta lena, che a stento crederanno i posteri le abbia potute un uomo terminare. A questo augusto concilio di dotti, non altrimenti che a Bologna, ricorrono prelati e città e principi o per la decisione di casi di coscienza, o compromettendo i loro litigi. Volete più? lo stesso re d'Inghilterra Enrico II sottopose a noi le sue differenze con Tommaso da Cantorbery. Le scienze sono il rifugio nei mali, l'ha detto l'oratore d'Arpino. A queste volgete l'animo; qui fermate vostra stanza, e provate quel che ne cantò Giovanni da Salisbery:
Felix exilium cui locus iste datur».
Il Pusterla trovava in fatto Parigi gajo, vivace, pieno di quel fecondo movimento, che infonde ad un paese il fiore della gioventù radunata. Tanti v'erano gli studenti, che a fatica trovavano alloggi sulle piazze; li vedeva discorrere o disputare, seduti in circolo sopra la paglia: nella via degli scrivani aveano tutto quel che occorresse per lo scrivere: diecimila amanuensi attendevano continuamente a copiare libri. Gli scolari la mattina badavano alle lezioni, il dopo pranzo alle dispute, la sera alle ripetizioni. Quest'era il lato bello; ma Francesco scoprì ben presto le magagne che vi covavano; attorno ai venditori di vino, che lo spacciavano per le vie, quei giovani commettevano disordini d'ogni maniera: usurieri ed ebrei traevano profitto dall'inesperta loro generosità: male donne li corrompevano, per cui cagione non passava giorno che non si facessero baruffe e sangue.
E poi la Francia non era il paese che potesse far dimenticare l'Italia a chi non vi avesse passioni od interessi predominanti. Taciamo la diversità di cielo, la coltivazione delle terre, trascurata a confronto della Lombardia, il sudiciume delle città, la miseria delle borgate, il disagio delle abitazioni: la Francia non erasi purgata dalle ferocie del medioevo passando, come i nostri paesi, attraverso alla libertà municipale. I governi a comune avevano tra noi fiaccato il potere feudale: e quei baroni che nelle rocche minacciose, ricinti da vassalli e da servi della gleba, facevansi unica legge il loro superbo e minaccioso talento, erano stati rintuzzati dai campagnuoli, dai mercanti, dai giureconsulti, da tutti i borghesi, e costretti a disarmare la loro prepotenza e farsi cittadini. I tirannetti, che usurparono dappoi il comando, non fecero che ajutare quest'opera; e, come vedemmo in Luchino, sebbene non per amore del popolo, ma pel proprio vantaggio, vennero stringendo sempre più il freno ai feudatarj aumentando le franchigie del vulgo per fare contrasto a quelli; e dilatando viepiù i privilegi della popolazione campestre, la quale, sotto le repubbliche, aveva cominciato a mutarsi dalla condizione di schiavi in quella di coloni, e ricuperare l'umana dignità. In generale dunque la nobiltà d'Italia non era più che un patronato, onde il plebeo si affezionava e si legava col ricco.
Tutt'altrimenti in Francia: mille baroni erano altrettanti piccoli re, il cui dominio viepiù pesava quanto in più angusto confine lo esercitavano. Non una moltiplicità di repubblichette, non una lega di queste gli aveva imbrigliati; e quantunque il re, il quale non era che il primo fra di essi, s'ingegnasse di opporre a loro le comunità cui veniva rinvigorendo, era ben lontano da riuscire a notevole risultamento; e il bel regno di Francia consisteva allora in un re impotente, pochi forti oppressori, la moltitudine oppressa.
Quindi prepotenze in ogni parte e di ogni genere: quindi miseria: quindi l'arbitrio al posto della giustizia e delle leggi. E Pedrocco, tutto che lodatore delle cose di Francia quanto alcuni miei amici che non la conoscono, non poteva cessare i lamenti per gli spessi pedagi, per le generose mancie che doveva dare ai capi degli uomini d'arme, per le menzogne onde doveva ricoprire la ricchezza del suo convoglio. Poi additando varj castelli al suo compagno di viaggio, - I vassalli di questo (diceva) sono obbligati per turno a ripulire le stalle del padrone. - Questi altri non possono far testamento, senza lasciare metà dei loro beni al feudatario. - Il vescovo e principe di Ginevra succede nell'eredità di chiunque muore senza figli. - Vede là quei villani colle pertiche in riva a que' paludi? Sono obbligati a far la ronda, acciocchè i ranocchi non disturbino il padrone mentre dorme». Tacio le prelibazioni oscene; tacio quel che era comune, il contadino pareggiato nelle fatiche ai bovi che l'ajutavano: alla porta di ogni castello, insieme col teschio di lupi e di cervi, e cogli avoltoj confitti sulle imposte ferrate, spenzolava da una carrucola la corda della tortura, in segno del diritto di sangue; e sulla spianata ergevasi la forca, da cui a dozzine pendevano i giustiziati per le più lievi cagioni, per un capriccio, per una vendetta.
Ben altro giudizio delle cose di Francia dovranno portare gli esuli d'oggidì: ma i lamenti che da loro intesi mi fanno calcolare con quanto maggior ragione il Pusterla dovesse dire allora, che, per amare assai la sua patria, conviene aver veduta l'altrui.
E poi Parigi aveva già fin d'allora il privilegio funesto delle grandi città, di poter uno vivervi, godere, spasimare, morire, senza che altri gli badi o se n'accorga. Il che, se era il caso per un profugo bramoso di pace e d'oscurità, non poteva per verun modo accomodare a Francesco, sempre desideroso di primeggiare, sempre spinto all'azione, al movimento, e che colà andava confuso, inosservato, fra una turbo che veniva e tornava e cambiavasi ogni dì; fra un numero infinito di pitocchi, che beneficati non facevano se non divenire più importuni, e chiedergli denaro coll'insistenza del ladro, fra la spensierata scolaresca, fra i segregati dottori, fra anime che non potevano neppur comprendere i patimenti d'un esule italiano.
Ma una parte di Francia tutta italiana, siccome gli aveva detto Pedrocco, erano il contado Venesino, padroneggiato dai papi, e la città d'Avignone appartenente a Roberto re di Napoli; nella quale Clemente V, il 1305, aveva trapiantato la sede pontificia, e per gridare e sperare che gli Italiani facessero, e per quanto sembrasse strano che i papi preferissero restare sudditi in Francia, anzichè sovrani a Roma, più non la tornarono sul Tevere se non nel 1376.
Colà dunque si rivolse il Pusterla, e vi trovò una vita, un moto straordinario. Dimessa l'idea di trasferirsi in Italia, Benedetto XII faceva murare, per alloggiar come si conviene al capo della cristianità, e tutti i cardinali ergevano palazzi, splendidi d'ogni suntuosità, e non inferiori alla Corte di verun principe d'allora. Artisti italiani vi accorrevano ad abbellirli, altri a lusingare coi canti, colle piacenterie, colle novelle, cogli strologamenti: dei porporati ognuno v'avea condotto numerosa famiglia di servi e camerieri e scrivani; talchè poteva dirsi proprio una colonia d'Italia, con tanto maggiore verità, perchè quel clima meridionale fa ricordare le dolcezze del nostro.
In un tempo quando il papa stava ancora disopra delle autorità temporali come depositario della celeste, vale a dire della giustizia, vedevansi alla sua Corte ambasciadori d'Ungheria, di Polonia, di Svezia, d'altri potentati, che rimettevano all'inerme sua decisione le loro politiche differenze: cosa che deve recare grande scandalo al secolo nostro, il quale vuol piuttosto vederle risolte colle bajonette o rattoppate dai Castelreagh e dai Talleyrand coi protocolli...
I cittadini di Monza, agitati dentro dalle fazioni dei Magantelli e degli Stratoni, e minacciati fuori dalle armi dei Visconti e Torriani, avevano (già ne abbiam toccato una parola) nascosto il prezioso tesoro della loro basilica, che valeva ventiseimila fiorini, cioè un milione e mezzo d'oggidì. Il nascondiglio non era conosciuto se non dal canonico Aichino da Vercelli; il quale, venuto in caso di morte, ne fece la confidenza a frate Aicardo arcivescovo di Milano, e questo al cardinal legato Bertrando del Poggetto, che lo fece cavar fuori e trasferire in Avignone. Ora quietati i tempi, per ricuperarlo avevano i Monzesi mandato il loro arciprete Guglielmo Pusterla, insieme con lo storico Buonincontro Morigia. E sebbene quell'arciprete non fosse ancora potuto venire a capo di nulla, erasi però insinuato nella grazia dei papi, seguitando tre regole di condotta, che a modo di proverbio egli ripeteva sovente; lasciar andare il mondo co' suoi piedi, fare il dover suo piano e tranquillamente, e dir bene de' superiori. Le aveva imparate in convento sin da quando era novizio, ed ora con queste meritò di essere scelto prelato di Corte, ed in appresso arcivescovo di Milano.
Di buon cuore com'era, fece egli una festa da non dire a suo nipote Francesco, il quale, col mezzo di lui, potè collocarsi bene, ottenere alla Corte rispetto ed amorevolezze, e speranza di acquistare entratura col papa, nella cui assistenza ormai vedeva l'unica via di migliorare la condizione sua e della patria. Ma quest'ultima corda non sonava bene allo zio arciprete, il quale era il più nuovo uomo nei garbugli della politica.
- Caro nipote (egli diceva) tu eri ricco; tu stavi da papa; tu invidiato da tutti; che importava a te che regnasse Pietro o Martino? Lascia cuocere i potenti nel loro brodo, e troverai maggior pace. Guelfi e Ghibellini, l'imperatore e il pontefice, la tirannide e la libertà, tutte idee astruse; è necessario che vi siano, come gli scandali: ma un galantuomo può arare dritto senza intrigarsi di queste gerarchie. Credi a' miei capelli grigi, experto crede Ruperto: lupo non mangia carne di lupo: e i potenti se l'intendono quando si tratti di spalleggiarsi fra loro. L'imperatore par che l'abbia col santo padre: ma se vedesse un altro sul punto d'opprimere il santo padre, darebbe mano a questo per abbattere il primo. E tanto meno ti riuscirebbero cotesti intrighi ora che il papa è un uomo di pace e bonæ voluntatis. Giovanni XXII, nelle cose del mondo e nelle questioni scolastiche (diciamolo, chè tanto e tanto è morto) si affaccendava troppo; morì lasciando diciotto milioni di fiorini in oro, e sette in vasellami e gioje e con questo marsupio poteva fare più che non Archimede colla sua leva: coelum terramque movebo. Ma sono otto anni ch'egli è in paradiso; e il papa adesso è di tutt'altro umore. Per sapienza teologica non è un'aquila: degl'intrugli di gabinetto se n'intende buccicata: tanto meglio: e così non desidera che metter acqua là dove i suoi predecessori attizzarono il fuoco; ribenedire dove essi avevano scomunicato. Quando, contro ogni sua aspettazione si sentì chiamato papa, sai quel che disse ai cardinali? Cari fratelli, i vostri voti si sono accordati sopra un asino. Tant'è umile! E con lui non han nulla a sperare nipoti e parenti. Una sua carissima nipote gli fu chiesta sposa da un gran barone, ed egli non consentì, perchè non era da par suo, e la maritò ad un negoziante. Di sposa, ella col suo consorte venne a trovarlo qui, e tutti dicevano, - Chi sa che regali!» Indovina mo?... gli accolse bene, ma li rinviò senz'altro che rifarli delle spese di viaggio, e dare la sua santa benedizione. Vedrai la sua anticamera zeppa di abatini e di monsignoroni che vengono a sollecitare benefizj: ma egli preferisce di lasciarli vacanti, anzichè, com'esso si esprime, adornare di gioje il fango e l'argilla. Quando egli solleva qualcuno a dignità, si può assicurare che egli ha trovato del merito sodo».
E in così dire, lo zio arciprete rizzava il capo con un sentimento di decoro che non potevasi dire superbia. Franciscolo pensava: - Mio zio ha bel dire che non gli piove addosso»; e s'ingegnava di fargli capir quella ch'ei chiamava ragione, ma il buon uomo lo interrompeva: - Non hai tutti i torti; molto hai perduto; hai lasciata quella donna, che la pari non si trova al metodo. Ma tutto questo perchè? T'ho pur detto delle volte assai che, per camparla bene, bisogna facere munus suum taliter qualiter. Se mi avessi dato ascolto, non avresti voluto primeggiare: bene vixit qui bene latuit. Ora l'esperienza ti ammaestri. Stavi bene, volesti star meglio: vedi frutto? Almeno profitta di quel che ti avanzò per tirar innanzi alla meglio questi pochi anni di vita. Fugit irreparabile tempus. Vuoi piaceri? vuoi spassi? vuoi pompe? qui non hai che a desiderare. Vuoi conoscenze di letterati? vedi quanti poeti provenzali; vedi quel che tutti li vale, il gran Petrarca. Vuoi discussioni fine e puntigliose di teologia e di erudizione sterminata? ti farò conoscere il monaco calabrese Barlaamo, quel che insegnò il greco al Boccaccio. Fu mandato qui da Andronico imperatore di Costantinopoli per maneggiar la riconciliazione della Chiesa greca colla latina. Quello è un uomo! L'avessi inteso jeri a otto disputare contro gli onfalopsichi! Questi eretici dicono: Chiuditi nella tua cella; siedi da un canto, leva lo spirito sopra le cose terrene; appoggia la barba sul petto; fissa l'umbilico; tieni il respiro; cerca nelle viscere tue il cuore, sede della potenza dell'anima, e vi troverai dapprima tenebre, poi una luce limpidissima come quella apparsa sul Monte Tabor. Ma frate Barlaamo risponde....»
E qui lo zio arciprete, coll'interessamento di un dilettante, esponeva a Francesco le ragioni, con cui il monaco confutava questa specie di quietisti: ma dall'addurle ci dispenseranno facilmente i lettori, come volentieri ne l'avrebbe già allora dispensato il nipote. Il quale, o per voglia o per forza dovette acquietarsi al consiglio dello zio; a Corte, da tutti i cardinali, fra tutti i cittadini lo rendevan il ben accolto sì le sue aderenze, sì la splendidezza che sfoggiava negli abiti, nel treno, nell'avviamento della famiglia, tanto da poter emulare quella dei prelati. E per quanto noi ci sentiremmo inclinati a dipingere bello e ideale lo sposo della nostra Margherita, siamo costretti a dire che, siccome la prospera, così l'avversa fortuna non sapeva egli portare dignitosamente; giacchè, invece di rendere sacra la sua sventura con un decoroso dolore, voleva schivar la compassione collo star sulle gale, e non perdere la maggioranza del vivere sfoggiatamente. Al pericolo poi che gli poteva venire dall'essere conosciuto e nominato, credeva di ovviare col rendersi, come faceva, ben accetto chiunque fosse di nome e di potere o di scienza segnalato in Avignone.
Tra questi riportava allora il vanto Francesco Petrarca, già famoso per tutta Europa, sebbene appena in età di trentasei anni, e caro ai papi ed ai prelati. Stava di casa a Valchiusa, poche miglia discosto da Avignone, impinguandosi di benefizj, scrivendo di filosofia, imitando i versi dei Provenzali in sonetti e canzoni italiane, che doveano smentire quel detto che chi imita non sarà imitato; dando pareri ai potentati, che non gli ascoltavano, o facendo da quattordici anni l'amore in rima con Laura, figlia di Audiberto di Noves, cavaliere della provincia avignonese, donna di trentadue anni, da quindici maritata con Ugone de Sade, sindaco di quella terra, al quale, mentre il poeta ne veniva cantando la verginale castità, ella avea partorito uno stuolo di figlioletti. Il poeta platonizzando aspirava all'amore di Laura; Laura a una fama estesa ed eterna col far la schiva quanto bastasse per non lasciarsi sfuggir di rete il cantore; ella riuscì nell'intento; se anch'esso, è disparere tra i fisiologi e gli estetici.
Il Petrarca era esule anch'esso; avea scritto dei Rimedj dell'una e dell'altra fortuna: filosofo patriotto per voce comune e grand'amatore dell'Italia, Franciscolo, che lo avea conosciuto a Padova e a Milano, sperava dal colloquio di esso ritrarre e consolazioni e consigli; onde si recò in Valchiusa, e volle condurvi anche il suo Venturino, persuaso che ai fanciulli l'aspetto e il favellare d'un grande sia ispiratore di generosi sentimenti.
In un enorme masso apresi una profonda oscura grotta, dalla quale sbocca la Sorga, che, chiusa da inaccessibili scogli, forma questa valle, che trae il nome dalla natura sua. Quivi in una deliziosa villetta Franciscolo ritrovò il Petrarca, in mezzo ad anticaglie, di cui esso faceva gelosa conserva, e a grandi armadj di noce, ben chiusi a chiave, entro ai quali custodiva il tesoro de' suoi libri. Non appena lo riconobbe, il poeta gli lesse il sonetto
Piangete, o donne, e con voi pianga amore,
che allor allora aveva composto per la morte di Cin da Pistoja, stato suo maestro in poesia.
Finito il quale, e domandato se non gli paresse veramente un capolavoro, senz'altre parole attendere dal Pusterla oltre le congratulazioni, - Deh perchè (gli diceva), perchè abbandonaste Italia e l'onorata riva? Anch'io ho corso le barbare terre; visitai le Gallie fino al Reno, e l'Alemagna non per alcun negozio, ma per desiderio d'imparare, come quel grande che molte città vide e costumi d'uomini; ho costeggiato i lidi di Spagna, navigai l'Oceano, toccai l'Inghilterra; ma quanto vidi, più m'ha fatto amare ed ammirar l'Italia. E come volentieri per essa lascerei questa Babilonia occidentale di cui nulla più informe il Sol vede; lascerei il Rodano feroce, simile all'estuante Cocito ed al tartareo Acheronte25, se non mi trattenesse amore, se qui tutte non avessi le mie dolcezze. Il 6 d'aprile 1327 vi conobbi quella, che per sempre mi doveva tor pace; e queste chiare, fresche, dolci acque della Sorga divennero il mio Ippocrene. Qui scrivo in rime vulgari i miei sospiri pei presenti; ma già rimansi dietro il secondo anno da che ho cominciato l'Africa, poema che mi farà immortale a paro con Virgilio e Stazio nell'età ventura. Qui mi trovano gli amici, qui mi cercano i grandi della terra; e sebbene io non dia retta alle fole de' medici e degli astrologhi, vedo quanto fosse veridico uno di questi, allorchè a me fanciullo indovinò che godrei l'amicizia di tutti i più illustri e grandi uomini della mia età. E voi, date anche voi opera agli studj?»
E poichè Franciscolo rispose un mezzo sì, - Attenetevi (prosegui il Petrarca) attenetevi ai classici. Cotesti moderni filosofanti non vi gabbino. Meglio tornerebbe studiassero in Cicerone, che non in Aristotile e Averoé, da cui succhiano l'empietà. Anche me vorrebbero far ateo: e perchè io sto al credo vecchio, dicono che son un buon uomo, ma ignorante».
Quando poi il Pusterla, bramoso di pur dire anch'egli qualche cosa, e massime di quel che più gli stava sul cuore, entrò a discorrere di Milano, - Milano! (l'interruppe il poeta) paese glorioso per salubrità, e per clemenza di clima invidiato! di quante cortesie non mi colmarono e colmano i Visconti! Il signor Luchino, gran protettore del bel sapere: grande specchio di giustizia quel fratel suo arcivescovo e mio padrone! Ma dite, che fa quivi Giovanni da Mandello, il dolcissimo degli amici miei? E a Bergamo? non dimenticherò mai, l'ultima volta che vi fui, un orefice, il quale mi venne a molte miglia incontro colle maggiori feste del mondo, e mi volle ospite suo, e spese ogni avere per festeggiarmi; incantato della mia gloria. Oh i posteri lo sapranno. A Bergamo conoscete il Grotto, fortunato raccoglitore delle opere del gran padre dell'eloquenza? Osservate: e' m'ha copiate le Quistioni Tusculane, di cui io non aveva scoperto che parte, e mandommele a regalare. Che carattere elegante! Io stesso, calligrafo qual mi vanto a nessuno secondo, non n'eguaglierei la nitidezza. Ma voi, deh, quando tornerete in Italia, cercate per me opere di Cicerone. L'Italia è inesauribile miniera. Colà ho rinvenuto il trattato de Gloria: che gioja di libro! Ora l'ho prestato a Convenevole maestro mio26, che se ne delizia. In Verona scopersi le Lettere famigliari, e queste ad Attico che ora trascrivo: le opere di Catone, di Censorino, di Varrone sopra l'agricultura, le Commedie di Plauto, le Istituzioni di Quintiliano, colà io le ho disseppellite. Che non darei per iscavare il libro De Republica che deve esser una perla, e le Consolazioni e le Lodi della filosofia! Ma in Francia, nulla v'è a profittare: i libri sono merce esotica. Basta il dirvi che in tutto Avignone non trovereste un esemplare della Storia Naturale di Plinio, se non dal papa o da me».
Per accorciarla, il Petrarca non parlò che per sè, che di sè; onde Venturino ebbe a dire allo zio arciprete: - Come predica bene quel signor canonico!» e Franciscolo, lasciandogli la sua ammirazione, portò seco l'idea che questi grand'uomini non rechino grande ristoro nè grande ajuto nelle infelicità. Se pensasse il vero, lo dica chi ne praticò.
Io toccherò innanzi, contando come gli occhi del Pusterla si volgessero continuamente all'Italia, e per tornarvi non gli pareva qualche volta neppur troppo grave la prigionia e fino la morte. In sulle prime, la ricchezza sfoggiata il fece trovar bene alla Corte pontificia, guardato, accennato da ognuno, ed all'ambizione del comparire univasi, per mitigare le sue amarezze, la speranza di poter cogliere i frutti del martirio, più sempre agognati che le sue palme.
Perocchè il papa se la diceva poco coi Visconti, i quali, desiderando tiranneggiare la patria, opprimevano la causa guelfa per affidarsi agli imperatori, da cui ricevevano sempre appoggio i nuovi signorotti. Le cose erano procedute a segno, come altrove abbiamo accennato, che il papa, in castigo del parteggiare coll'imperatore Lodovico scomunicato, proferì l'interdetto contro i Milanesi. Terribili e spaventose conseguenze recava questo castigo; gli altari restavano senza croci nè candellieri, se non al momento che si celebrava la messa a porte chiuse: nessuno, eccetto i chierici, i pellegrini, i mendicanti ed i fanciulli minori di due anni, potevano seppellirsi in luogo sacro: nessuno accettavasi alla penitenza ed all'eucaristia se non in articolo di morte; proibito il menar moglie o baciarla o mangiare carni, e fino radersi: ogni giorno, a terza, sonavano le campane, al cui tocco dovevano tutti recitare preci di penitenza.
Vero è bene che, parte perchè abituati, parte per espresso comando dei Visconti, queste proibizioni non erano così a minuto osservate in Milano; e i papi stessi, rimettendo dal primitivo rigore, erano discesi a qualche concessione; però, in tempi come quelli ove la religione esercitava tanto imperio sulle opinioni e sulla vita, troppe anime timorate venivano a trovarsi in continuo contrasto fra la coscienza propria ed i comandi superiori, dal che seguiva uno scontento universale, un desiderio ogni giorno più sentito di tornare in pace col capo de' Fedeli. E già Novara, Como, Vercelli, altre città avevano fatto la loro sommessione al papa, promettendo di non aderire a Lodovico il Bavaro nè a veruno scismatico, onde erano state ricomunicate. Bologna, che aveva ricalcitrato al pontefice, ora, per lo spavento di vedersi privata d'ogni splendore col perdere l'Università, e per la speranza che la Santa Sede potesse colà trasferirsi, erasi di nuovo piegata all'obbedienza. Siffatti esempi potevano moltiplicarsi a scapito dell'autorità de' Visconti; tanto più che l'imperatore Lodovico, del quale chiamavansi vicarj, era scaduto interamente di credito e di potere: e non più riverito perchè non più temuto; non poteva col nome suo ricoprirne l'usurpato potere.
Tenevano conto di tutti questi fatti coloro che raggiravano le tresche politiche; e quindi accarezzavano il Pusterla, che davasi gran moto, e spendeva senza misura, nella fiducia di nuocere ai nemici della sua patria. Ma intanto da questa patria nessun ragguaglio riceveva, stante la scarsità dei corrieri, i quali non venivano spediti che espressamente da Corte a Corte pei pubblici affari o pei principeschi. Ed oltrechè questi rimanevano un segreto dei gabinetti, e i privati stavano anni ed anni a conoscere gli avvenimenti anche strepitosi delle terre forestiere, ogni comunicazione era con Milano interrotta per le ruggini sopradette. Da Pisa, città di più vivo commercio, sapeva il Pusterla che stavano colà suo fratello e gli altri che noi v'incontrammo; aveva loro, per sua sventura, dato a conoscere dove fosse: qualche imbasciata n'avea ricevuto; ma parte neppur essi erano esattamente informati delle condizioni di Milano, parte trascuravano gli interessi e gli affetti privati per discorrere dei disegni sediziosi, delle esagerate speranze. Che ne sarebbe dunque de' suoi conoscenti? degli amici? di Buonvicino? E Margherita? la sua Margherita, alla quale oh come ora gli rimordeva d'aver recato torti, d'averle causata tanta sciagura, di non essere con lei camminato alla felicità! Oh potesse mitigarne in qualche modo i patimenti! potesse chiederle perdono! potesse almeno averne notizie! mandargliene. Quindi un intenso struggimento di tornare, se non altro di avvicinarsi alla terra natale.
E poichè alle anime passionate ogni accidente per piccolo s'ingigantisce, fortemente il commossero gli ambasciadori, che contemporaneamente giunsero da Parigi e da Roma per invitare a gara il Petrarca a ricevervi la corona trionfale. Allorchè questi, preferendo la patria, si recava ad incoronarsi di alloro in Campidoglio, il Pusterla nemmeno potè sorridere al vedere il grand'uomo mostrare suprema contentezza nel ricevere un lauro, principalmente perchè somigliava di nome a colei che sola gli pareva donna: e vedendolo restituirsi in Italia fra gli applausi, fra un trionfo che rinnovava la pompa dei tempi antichi, a vanto non più d'insanguinati conquistatori, ma del pensiero e della scienza, ebbe tal pressura al cuore, che per gran tempo ne stette malato - malato di quel mal di patria, che spezza tante esuli vite.
Col Petrarca era egli cresciuto di dimestichezza nel vederlo presso i cardinali a cui profondeva adulazioni; e l'aveva pregato che dall'Italia gli scrivesse. Lo fece il grande Aretino, e poichè gli ebbe dipinto coi colori retorici le rivedute bellezze del paese che Apennin parte, e la festosa venerazione onde l'accoglievano da per tutto, lo esortava a fuggire da quel suo ricovero: - Va da per tutto, anche fra gl'Indiani, purchè tu non duri in cotesta Babilonia, non rimanga ancor vivo in cotesto inferno. Avignone è sentina d'ogni abbominio: le case, i palagi, le chiese, le cattedre, l'aria, la terra, tutto v'è pregno di menzogna; le verità più sante vi sono trattate di favole assurde e puerili; terra di maledizione, se non avesse dato i natali a Laura»27.
Il Petrarca con ciò non faceva che un esercizio di stile, egli che in quell'inferno erasi annicchiato così per bene, e che fra poco vi doveva tornare di voglia: ma strazianti cadevano quelle parole sull'anima ulcerata del Pusterla. Al quale già riusciva insoffribile quella fredda compassione; quella diffidenza che tiene dietro ai passi dei forusciti per farli più amari; quella perpetua propensione degli uomini, e massime dei fortunati, ad attribuirò all'infelice la colpa delle sue disgrazie, e credere un tristo colui che non seppe camparsela bene in casa sua, fra' suoi concittadini. E poi la pietà è sentimento istantaneo, e presto da luogo all'indifferenza.
A fargli ancora più rincrescere la stanza d'Avignone sopravvenne un cambiamento di politica rispetto ai Visconti. Luchino e Giovanni sentirono la necessità di rappattumarsi colla Corte pontificia; onde spedirono ad Avignone soggetti creduti ed esperti, quali furono Guidolo del Calice sindaco e procuratore, che già aveva maneggiato la sommessione di altre delle città interdette, Mafino Sparazone giureconsulto, e Leone Dugnano, quel che dappoi compilò gli Statuti milanesi. Le benevoli inclinazioni di Benedetto XII agevolarono il rintegramento della pace e della concordia. Lo zio arciprete, tutto sereno, un giorno raccontò al Pusterla: - Consolati! la nostra patria torna finalmente al cuore, torna la pecorella sviata all'ovile. Oggi, in pieno concistoro, i messi del signor Luchino protestarono della piena e sincera riverenza figliale e della zelante fedeltà dei Visconti verso la Santa Sede, ad ogni voler della quale mostransi disposti a consentire. A nome del signor loro professarono di credere che il papa non può esser degradato dall'imperatore, come pretendeva quel superbo Lodovico di Baviera: che, quando l'impero sia vacante, come è adesso per la scomunica e la deposizione d'esso Lodovico, al papa solo ne spetta l'amministrazione, e quindi da lui solo Luchino e Giovanni riconoscono il governo di Milano e delle città dipendenti». Il Pusterla, a cui tutt'altro che buon suono faceva quest'annunzio, - Ma (l'interruppe), questo vuol dire ch'essi dichiaransi soggetti al pontefice in parole, purchè egli li lasci padroni in fatti.
- Non credere però (ripigliava l'arciprete Guglielmo) che il papa non abbia ingiunto di buone condizioni. I Visconti, nè direttamente nè indirettamente imporranno gravezza di sorta sopra luoghi e persone religiose: pagheranno l'annuo tributo di cinquantamila fiorini d'oro; a queste condizioni il santo padre cassa come iniqui i processi d'eresia fatti contro i Visconti, diciannove anni fa: li nomina vicari imperiali di Milano e delle altre città: permette che Giovanni venga all'Arcivescovado di Milano, riservandone alla Santa Sede diecimila fiorini di rendita. Ogni scomunica, ogni interdetto rimane prosciolto a patto che si erigano in Milano due cappelle a San Benedetto, una in Sant'Ambrogio, l'altra in Santa Maria Maggiore: ove in perpetuo, il giorno che i vescovi di Lodi, di Cremona, di Como ribenediranno la città in questo maggio, abbia a cantarsi messa coll'intervento del principe e de' magnati, e distribuire a dugento poveri un pane di frumento da dodici once. Quest'ultima condizione la suggerì il papa di propria testa.
- E degli esuli? e dei prigionieri, non disse nulla?
- Nulla: raccomandò per altro ai signori di Milano d'essere pii, generosi, più pronti a ricompensare che a punire, se vogliono che altrettanto faccia con loro il Signore. Ma, nipote mio, appena io mi contengo dalla gioja al pensare la contentezza dei Milanesi, de' miei buoni Monzaschi quando udiranno la fausta novella: e riaperte le chiese, e sepolti in luogo benedetto i loro morti, intender di nuovo i cantici, assistere alle cerimonie solenni che da venti anni più non vedevano!»
E le lagrime agli occhi venivano all'arciprete in così parlare. Ma questi trattati, questa conclusione molto male notti cagionarono al nostro Franciscolo, tra il dispetto delle speranze fallite e del prosperato nemico, ed il timore di vedere in compromesso la propria sicurezza. Oltrechè coloro, i quali si conducono non per sentimento ma per machiavellica, e che alla Corte blandivano il Pusterla come uno stromento da poter venire a taglio contro i nemici del loro padrone, ora gli facevano poca accoglienza e manco cera, sì perchè diventato inutile, sì per non fare cosa che disgradisse al nuovo amico: e i cortigiani, che pigliano il tono dai capi, il ricevevano con tale grazia anacquaticcia, che la sua ambizione ne pativa acerbamente, e gli persuadeva che quella non fosse più aria per lui.
In così funesto punto giunse in Avignone Ramengo, e si presentò al Pusterla come ad un amico. In fatti egli era un antico fedele di sua famiglia, legato ad esso dal benefizio: era stato lo sposo di quella Rosalia che, se egli non aveva amata d'amore, aveva però tanto compatita; le enormità di lui, l'attentato all'onore della Margherita, gli erano restati ignoti. Quanto all'ultimo tradimento, Alpinolo su quel primo momento erasi gettato a' piedi del Pusterla per confessargli la propria debolezza e la scellerata perfidia di Ramengo; ma per correre a sapere il destino della Margherita s'interruppe, e confessioni di tal genere se non si facciano in un primo impeto di generoso pentimento la riflessione ne toglie il coraggio.
Così era succeduto al giovane, che animosissimo contro gli aperti cimenti, veniva meno in que' minori, ove non trattavasi che d'affrontare il perdono d'un offeso. Colle penitenze imposte a sè medesimo acquetò il comando che la coscienza gli faceva di manifestare il suo errore, e si tenne discosto da Franciscolo. A questo invece, allorchè stava rimpiattato nella cella di Brera, frà Buonvicino aveva nominato Ramengo tra quelli banditi come ribelli: e quantunque sapesse che costui non aveva mai avuto parte seco, non che a trattamenti, neppure ad alcun discorso politico, forse che migliori ragioni aveva Luchino di perseguitare gli altri tutti! Non poteva essergli parsa colpa bastante l'avere Ramengo portata antica osservanza e servitù colla casa del Pusterla?
Al primo veder Ramengo, se gli fece incontro l'esule nostro con cordialità, domandandolo: - Siete venuto spontaneo o spinto?
- Mezzo e mezzo», rispose l'altro: ed infilò quante bugie occorrevano per acquistar fede e compassione presso il signore. Concittadino adunque, noto d'antica benevolenza, come lui esule della patria, come lui perseguitato e forse per sua cagione: erano titoli più che sufficienti onde il Pusterla accogliesse a braccia aperte quel mostro, lo volesse ospite suo e con ansietà prendesse a ragionar seco di quel ch'è il primo discorso d'ogni foruscito, la patria ed i suoi.
Pur troppo il liuto era in mano di chi lo sapeva sonare. Avviluppando il falso col vero, seppe Ramengo, non che rimuovere ogni sospetto dal cuore del Lombardo, acquistarsene intera la confidenza. In uno sfogo che da tanto tempo non gli era più consentito, Francesco espose al nuovo venuto i dispetti suoi pel mutato contegno de' cardinali e il sospetto fondato, a dir vero, sopra troppi altri esempi di somiglianti slealtà.
Devo ricordarvi, lettori miei, come Ramengo ai rifuggiti di Pisa avesse mostrato certe lettere di Mastino della Scala, delle quali diceva dover essere portatore al Pusterla. Era un'altra ordita di sua accia. Perocchè, sapendo quanto Francesco fosse bene nelle grazie dello Scaligero, e come questo l'avesse confortato a vendetta durante la sua ambasceria a Verona, finse, d'accordo con Luchino, una carta, nella quale il signore veronese mostrava all'amico suo come gli fosse venuto lezzo dell'arrogante potenza del Visconti, aver già cominciato a mostrarsegli avverso coll'impromettere sua figlia Regina all'esule Bernabò Visconti: ora volere del tutto buttar giù buffa, e bandire guerra a costoro che ponevano in gran punto la libertà di tutta Italia. Lo invitava pertanto alla sua Corte promettendogli e lauti assegni e grado d'autorità pari al merito d'uomo sì universalmente caro e riverito: che trarrebbe sotto a' suoi vessilli chiunque fosse voglioso di ricuperare la patria e il franco stato.
Sopra un animo ambizioso e irrequieto come quel del Pusterla, il colpo riusciva da maestro; e Ramengo, battendo il ferro mentre era caldo, gli espose le condizioni di tutta Italia, i disegni dei forusciti che aveva potuto subodorare a Pisa: raccontò come con questi si fosse abboccato ed inteso, e che anche da parte loro veniva a sollecitarlo perchè prendesse pietà della patria, che gli chiamava mercede: uscisse dall'inerte riposo: si ricordasse come Matteo Visconti dopo nove anni d'esiglio, fosse tornato in signoria, allorquando i peccati dei Torriani prevalsero a quelli di lui. - Ed ora (soggiungeva) i peccati del Visconti hanno colma la misura. Dei vostri amici alcuni già hanno perduto la testa sul patibolo, lasciando a voi per eredità il vendicarli: altri aspettano ancora un giudizio, di cui voi non potete cambiare l'esito prestabilito; i liberi tramano qualche nuovo colpo. E la donna vostra? quella incomparabile geme nelle prigioni del sozzo Luchino. In chi altri può essa avere speranza, dopo Dio, se non in voi? Finchè qui dimorate, la vostra sicurezza è, o vi sembra maggiore: ma intanto neppure un passo date per la salute di lei. Non avrà ella ragione di credere che l'abbiate dimenticata o in poco conto? I cittadini vostri non potrebbero accusarvi di codardo o di neghittoso? voi, quel solo che potete dar ombra a Luchino, e state qui allo schermo dei manti sacerdotali? Se invece osate, se raccogliete gli amici, i consorti vostri, più di sei capelli diventeranno canuti al tiranno della Lombardia, tutta Italia si scoterà dal pigro sonno. E poniam pure che lo Scaligero vi venisse meno delle sue promesse - promesse di principe - ; nemici al Visconti ne troverete in ogni lato per darvi mano. Pisa stessa, avversa e timorosa, quanto si voglia, non darà soccorso ad uomo sì reputato, per ficcare una spina nel piede al suo nemico? coi denari e col credito vostro facilmente assoldate delle bande in ajuto della causa migliore. Lodrisio non fu ad un pelo di rovesciare la baldanza dei Visconti con nulla meglio che una turma prezzolata? Quanto più voi che, non in soccorsi mercenarj, ma porrete fidanza in coloro che generosamente combattono per la patria e per la libertà».
Queste o sì fatte ragioni convalidava col venire tratto tratto, in vista tutto pieno di compassione, stimolando la gelosia del Pusterla nel dipingere il pericolo in cui si trovava l'onestà della Margherita. E si confessi ad onore di Francesco, che gran colpo faceva sull'animo di lui il timore che ella potesse credersene dimenticata; e che la noncuranza mostratane nei giorni di sua prosperità, ora la dovesse trarre nella persuasione che, lontano e fra distrazioni d'ogni genere, egli negligesse l'eccesso delle miserie di lei. E chi dirà se quest'idea veramente non si aggiungesse qualche volta ai tanti spasimi di quella nostra infelice?
Ondeggiando tra la fantasia che gli sorrideva un avvenire di vendetta e di dolcezza, e i consigli dello zio e di Buonvicino, talora sospinto ad avventurare ogni cosa di bel nuovo per uscire dal tedio d'una calma, somigliante a quelle micidiali che colgono talvolta i naviganti in mezzo ai mari dell'equatore; tal altra bramoso di pace, di un riposo di cui si sentiva più cupido che capace, provava la pessima delle condizioni, quella d'uomo che non sa prendere partito.
- Perchè non ricorrete a Tommaso Pizzano?» gli suggerì Ramengo.
Era il Pizzano un astrologo, in quel tempo rinomatissimo ad Avignone; e il sostituire ai calcoli della prudenza gli indovinamenti degli impostori o le lusinghe di chi non sa che consentire, era allora, e non allora soltanto, ottimo spediente per gli esitanti. Piacque il consiglio a Francesco; e l'astrologo, dopo che, con gran mostra di studj e di cognizioni arcane, ebbe molti giorni durato ad osservar la mano di lui e le stelle, e formare l'oroscopo, e trovare l'ascendente, alfine gli annunziò: - La vita vostra si trova ora in gravissimo punto; alcuno, col mostrarvisi grazioso, pensa tradirvi ai vostri peggiori nemici».
Non bisognò più avanti per confermare il Pusterla nel dubbio già concepito che la Corte papale volesse, come una vittima espiatoria, consegnarlo al perdonato Visconti. Si allestì dunque alla partenza; e per quante ragioni gli adducesse lo zio, per quanto il buon uomo l'esortasse, fin colle lagrime agli occhi, a dar ascolto alla divina sapienza, la quale chiama stolti coloro che spendono il loro denaro in tentare la rovina dei potentati, per quanto lo assicurasse che tradimenti così neri non dovevansi mai aspettare da sacerdoti del Dio della giustizia, il Pusterla si ostinava più sempre nel suo proposito di tornare in Italia. - Finalmente (diceva) che male me ne potrebbe seguire? Non mi pongo già in arbitrio del mio persecutore: lo tolga il cielo: non mi confido ciecamente ad una indulgenza, ad una generosità menzognera. No: rivedo l'Italia. - Italia! chi può proferirne il nome senza aggiungervi bella e sventurata? Mi accosto agli amici, a' miei sofferenti, alla Margherita. Colà potrò più da vicino scorgere e calcolare la situazione della patria mia; e più che non Avignone, terra da preti, mi fornirà di sicuro e decoroso asilo Pisa: Pisa libera, signora dei mari, e nemica dei Visconti».