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CAPITOLO XVII.
Pertanto al principio di luglio del 1341, colle lettere che in diligenza spacciavano da Avignone gli ambasciadori milanesi per mezzo di Pedrocco da Gallarate, il signor Luchino riceveva un biglietto di Ramengo, che noi riporteremo tal quale l'abbiamo tratto fuori dagli archivj segreti.
Come arrivè, juxta la jussione vostra, in Avenione, è reuissilo de trovare el malesardo Francisco Posterola, cum el toso. Nil magis cupiens quam fare servitii al prenze nostro, a ki messer Domenedio konceda lætizia, my sono andato dreto tanto, che induxetti ello a imbarcarse verso Portum Pisarum. E mo se partiremo per Niza de Proventia, La seguente septimana, Deo favente, fiemo in mare sul naviglio nuncupato el Caspio. Ideo suplico vostra magnificentia a disporre de modo ut al nostro advento sia parato per catturare el Prefato Posterola et putto. Tunc riferirò più destensamente omne cosse a piedy de la Vostra Serenità, ke ora baso humilemente.
Pridie kal. julii anno domini MCCCXLI.
Secondo che qui accennava, appena si fu messo mare acconcio, Ramengo salpo da Nizza, conducendo il suo nemico, nulla più diffidente che la pecora tratta dal villano al macello. E la fortuna servì ai disegni dello scellerato, meglio ch'e' non potesse sperare: giacchè, mentre non mirava che a trascinare il Pusterla in luogo più vicino, dove meglio potesse nascere occasione di darlo preso, essa gli agevolò di consegnarlo direttamente all'inimico.
Pisa (già ne toccammo), capitana della parte ghibellina in Toscana, gareggiava continuamente con Firenze guelfa: e questo soverchio mescolarsi delle cose di terra ne aveva disavanzato la potenza sul mare. Intenti a favorire gli imperatori svevi ed Enrico VII e gli altri, accorrenti al fiuto delle italiche ricchezze, i Pisani trascuravano di necessità il commercio ed i lontani possedimenti; la Sardegna si videro tolta dagli Aragonesi; dovettero abbandonare molti banchi della Siria, acquistati nelle crociate, più non valendo a proteggerli contro i Musulmani per terra e contro i corsari sull'acqua; e più non furono i più ricchi e rispettati mercanti di Costantinopoli e dell'Adriatico.
Dentro provavano il contraccolpo delle scosse esteriori; ed era un parteggiare micidiale, un odio, un sospetto, che distruggevano l'accordo, necessario per la prosperità e la sicurezza dignitosa. Alcun tempo prima la fazione popolare aveva avuto il sopravvento, e poichè questa pendeva sempre alla bandiera guelfa, legò amistà con Firenze. Non potevano di ciò darsi pace i nobili, ghibellini per affezione, per eredità, per calcolo personale, e senza far mente ai reali vantaggi della patria; onde stavano addocchiando ogni occasione d'umiliare i popolani, romperla con Firenze, e tornar in auge la fazione imperiale. E l'occasione venne, allorchè i Fiorentini, desiderando acquistare Lucca, posseduta allora da Mastino della Scala, rifiutarono come sospetti gli ajuti che Luchino esibì loro onde toglierla per forza, e la comprarono per dugencinquantamila fiorini, a patto di lasciarle il governo a comune.
Un rumore senza pari levarono i Ghibellini pisani d'un tale acquisto, per cui la città, loro nemica naturale, come caritatevolmente dicevano, si accampava alle stesse porte di Pisa; e sparsero voce che i Fiorentini avessero stabilito di ridurre Pisa a nulla più che un quartiere, col nome di Firenzuola. Tali voci, appunto perchè esagerate, guadagnarono fede tra il popolo; si gridava all'infamia del governo che aveva sopportato un tale obbrobrio; e secondo le suggestioni dei mettimale, deliberarono di romper guerra a Firenze. - Daremo ogni aver nostro (dicevano), fin le nostre donne prenderanno le armi; ma perdio, non lasciamoci togliere Lucca; e il Signore per certo darà vittoria al diritto contro l'iniquità arrogante».
Tornati allora in posto i nobili, se l'intesero coi principali Ghibellini di Toscana e, quel che più importa, con Luchino Visconte, il quale, indispettito dal rifiuto dei Fiorentini, bramoso di fare onta all'abborrito Scaligero, sperava inoltre di potere stendere così l'influenza sua sopra quelle parti, e forse, poichè da cosa nasce cosa, anche il dominio; e vantaggiarsi di tanto coll'aggiungere ai suoi Stati mediterranei anche un porto di mare. Chiese dunque a' Pisani cinquantamila fiorini d'oro, l'annuo omaggio di un palafreno, di due falconi pellegrini e di uno marino; e consentitigli, ebbe a sè Giovanni Visconte d'Oleggio, soldato di ventura, che da chierichetto del duomo di Milano salì fino a dominare dappoi Bologna; e gli affidò duemila cavalli, dicendogli all'orecchio: - Va, e muovi difilato sopra Pisa: entravi, e in sicurezza di pace occupala; e fa che i molti partigiani nostri gridino me signore. Se così ti vien fatto, buon per te».
Ventura fu che l'accortezza degli scaduti popolani rimediasse alla ambiziosa cecità dei nobili signoreggianti; il colpo fu scoperto e riparato, e Giovanni e Luchino, senza far mostra di nulla, ajutarono in fatti Pisa ad ottenere Lucca.
Ma non va mai senza castigo un popolo libero, che attenta alla libertà d'un altro.
L'alleanza di un tiranno subdolo e attivo qual era Luchino peggiorò i costumi repubblicani di Pisa, e la trasse a consigli sleali e scellerati. Che per la prima cosa egli domandasse lo sfratto dei rifuggiti lombardi, facilmente l'immaginerete. Mandata la proposizione a partito, molti generosi favellarono contro una domanda sì bassa e vergognosa, ma i contrarj prevalsero, e quei miseri furono costretti cercare altrove nuovi oltraggi.
Nelle piccole cose e nelle grandi, nei gabinetti delle dame e in quelli di Stato, una concessione ne chiama un'altra, un passo dato in falso ne esige un secondo. Io non vi enumererò i diversi errori, a cui trasse i Pisani la funesta amicizia del tiranno, bastandomi dirvi che Luchino osò chiedere di potere, nelle loro acque, appostare il naviglio che riconduceva il Pusterla, col pretesto che questi fosse un suo gran nemico, un insidiatore della pubblica quiete; il quale veniva a muovergli incontro una maledetta trama.
I vili suggerimenti di pochi calcolatori ambiziosi, che si pretendevano interpreti della pubblica volontà, impressero sulla libera Pisa questa nuova macchia, senza che la popolazione generosa ne avesse colpa; e consentirono che Buonincontro da Samminiato, condottiero agli stipendj di Luchino, arrestasse in mare una galea sotto bandiera pisana, e ne strappasse fuori il ribelle d'un altro Stato.
Così nera, sozza, avvilupata procedeva la politica - di quei tempi.
Varia fortuna corse sulle prime il vascello il Caspio, che di Francia riconduceva il Pusterla: rovesci di pioggia, turbini di vento e tempeste furiose, più che non sogliano mettersi in quel mare, parevano quasi voler respingere gli sventurati dalla terra desiderata e funesta. Venturino, riavendosi dal nauseato stupore in cui lo aveva gettato il trabalzare del naviglio, - O padre (diceva) perchè ci siamo dipartiti da quel paese? Là stavamo fermi in terra e sui nostri piedi».
E il Pusterla rispondeva: - Perchè quella non è la nostra patria.
- In Italia? Oh dunque nel nostro caro paese, eh? Là udremo ancora parlare come noi, è vero? Là vedremo tutta gente che si conosce. E la mamma la troveremo noi subito?
- Povera mamma!» replicava Francesco sospiroso; e, carezzando i biondi capelli del suo fanciullo, - Sì, la vedremo, se Dio vorrà. Ora prega per lei.
- Pregare? Oh, non passa giorno ch'io nol faccia; non momento che io non me la ricordi. Anche stanotte me ne sono insognato. Eravamo là nella villeggiatura di Montebello; ma la villeggiatura era in città; stavamo in sala, io e lei; e tu entravi a cavallo con un esercito... Oh, non mi raccapezzo... ben so che non l'ho mai veduta più bella, nè più cara. Oh fossi io grande! avessi io il braccio forte! forte come te, come Alpinolo, correrei ben io a liberarla!»
Il Pusterla lo abbracciò intenerito, e alzando gli occhi verso Ramengo, che teneva su loro intento lo sguardo, come la vipera sull'usignuolo ammaliato, - O amico, (gli disse) qual consolazione nella solitudine, nelle sventure, il trovarsi allato un figliuolo!»
Come al gettar olio sul fuoco, tal divampò Ramengo nell'intendere parole, che gli rammentavano quanto esso pure avrebbe potuto godere di quella consolazione; e come gli fosse stata rapita, diceva egli, da quel Franciscolo che ora n'era beato. - Ma il sarai per poco!» urlò stringendo le pugna verso il cielo, e precipitossi a sfogare il suo furore giù nella stiva, tra la meraviglia dei compagni di viaggio.
Frattanto una mattina, al dissiparsi di una nebbia leggiera, simile al velo che si getta sui mille ninnoli, sugli eleganti gingilli dei tavolini delle nostre sale, che li copre senza nasconderli, il sole nascente mostrò spiccate le coste d'Italia. Francesco le contemplava in un'estasi religiosa piena di memorie, mentre la sua fantasia, stanca di prevedere il male, non gli dipingeva che le immagini deliziose del passato, le lusinghevoli dell'avvenire. E il fanciulletto, attenendosi alla mano del genitore, gli andava col piccolo dito segnando le cime di terra ferma, miste alle fantastiche apparenze di qualche bianca nuvoletta, sorta sull'orizzonte, e chiedendo: - Che monte è quello che sporge là in mare? e quell'altro così elevato e acuto? e questa vetta nevosa? Vedi l'altra laggiù che fuma? Oh non è un paese quel bianco? Pisa sta forse dentro a quel seno? Ve' ve' quel vascello che si avvicina! Ei porta sulla bandiera il biscione come a Milano».
Stava in fatto così: ma quello che pel fanciullo era oggetto di consolazione, fu di terribile pronostico per Francesco. A osservar la nave che si accostava, trassero passeggieri sul ponte, e già distintamente, insieme coll'arma di Pisa, discernevasi quella dei Visconti. Curiosi di saperne la ragione, non più tosto furono a portata della voce, il capitano del Caspio chiese nuove a quell'altro. - Viva Pisa e i Visconti!» fu la risposta; indi, colla concisione e il disordine solito in tali incontri, informò come Pisa si fosse congiunta coi Visconti di Milano, e che dal suo porto continuamente traversavano legni alla Sardegna, ove Luchino, per recente eredità, possedeva il giudicato di Gallura.
- Pisa allearsi col Visconti! (esclamava qualche Pisano) Sarà la società della pecora col lupo.
- Non dartene gran pena (gli soggiungeva un secondo). È un cavallo bizzarro che per poco sopporterà il freno; e sbalzerà di dosso il cavaliere. La servitù non è per le città ricche di marittimo commercio.
- Per me (diceva il capitano, contemplando con occhio indifferente quella nave, i passeggieri, il mare, il cielo), per me, comunque stia la patria, poco me ne cale. Vivendo sempre sulla nave, io mi sento libero come l'elemento che trascorro».
Questi e simili commenti facevansi a quella notizia; ma per Francesco riusciva la più spaventosa che in quel momento potesse ascoltare. Trattavasi nulla meno che della vita sua e del figliuolo, perdute irreparabilmente se desse in quelle navi. Bianco dunque come le vele del suo bastimento, coll'ansietà che gli cagionavano l'istinto della vita e l'amore di padre, cominciò a supplicare il capitano perchè al più presto desse la volta indietro e tornasse in Francia, esibendogli pagare, non che le spese del tragitto, ogni danno che ne venisse a lui e agli altri naviganti, e una grossa mancia per soprappiù; ne destava anche la compassione col palesare chi fosse, perchè si trovasse colà, a quel pericolo esposto; prendesse pietà di quel fanciulletto innocente. Udiva il capitano quelle ragioni, quelle preghiere, seguitando a scompartire le occhiate fra il supplicante, i passeggieri, il sole, l'acqua; poi, stringendosi nelle spalle, disse: - Di tutte coteste fazioni io non m'intrico: io sono libero come il mare. Ma devo stare agli ordini di quel signore».
E accennò Ramengo, il quale bruscamente gli intimò: - Il vostro dovere, e innanzi!»
Che benda squarciarono tali parole d'in sugli occhi del Pusterla! Ragioni, suppliche, lacrime, che non adoperò a intenerire quell'atroce? Per quanto gli repugnasse l'animo del piegarsi, di cui quel momento gli rivelava tutta la turpitudine, pure, nulla credendo sconvenevole a un padre, fino ai piedi gli cadde, e, unito al suo fanciullino, ne abbracciò le ginocchia, gli rammentò le antiche benemerenze di sua famiglia, il nome di Rosalia. - Anche voi dovete intender che cosa sia l'amor paterno.... voi ancora un momento foste padre....»
Il satanico riso che guizzava sulle labbra di Ramengo nel contemplar l'umiliazione, nell'udir le preghiere del suo nemico, e nel sentirsi determinato a non esaudirle, si convertì in un ruggito feroce a queste ultime parole, e, - Padre ancora e marito sarei, se tu non eri, o maledetto!» esclamò, lanciando con un gesto brutale lontano da sè il supplicante. Poi soggiungeva: - Ma ringrazio Dio che almeno ho gustato la consolazione di veder tu pure straziato in quell'affetto onde hai privato me».
Non poteva il Pusterla comprendere del tutto il senso di queste parole: la beffarda e insieme atrocissima espressione del ribaldo, non consentiva di chiederne una spiegazione; e poi il sentimento di sua dignità era rinato: e colla superbia che sente l'uomo leale allorchè si trova calpestato dall'infame, voltò dispettosamente le spalle a Ramengo, e, senz'altro più dire se non: - Mio povero Venturino!» abbracciatosi al suo fanciullo, sedette sopra la coffa in calma discorata. I passeggieri non restavano indifferenti a quel patimento, alcuno interpose parola presso Ramengo, e non profittò più che la voce di un mendicante sulla borsa di un avaro; i Pisani volevano persuadere il Pusterla a non temere, che, essendo in mare, su libera nave, non correrebbe rischio di sorta; altri gli profondevano consolazioni generiche e triviali, giacchè gran filosofi sono gli uomini nel sopportare le disgrazie altrui e nel consolarsene! Scampati dai pericoli, vicini a uscire dalle noje della lenta e discomoda navigazione, allettati da un bel giorno, da un prospero vento, dall'aspetto del lido, della patria, la salutavano rallegrati.
Solo il Pusterla, tenendosi sulle ginocchia Venturino, sospirava in silenzio, curva la testa sulle spalle del figliuolo, il quale, strettegli le braccia al collo, piangeva dirottamente.
Oh! i pericoli, quando sopravvengono all'uomo libero di sè e delle sue membra, che può volere, può tentare uno sforzo onde svellersi dalla penosa situazione, se non altro, coll'avventarsi in una peggiore, pare che raddoppino il coraggio. Ma qui, sopra una nave, coll'inevitabile aspetto delle medesime cose, delle persone medesime, vedersi oncia ad oncia avvicinare al precipizio, e non poter tampoco allungare un braccio al riparo! Deh come allora invocava la tempesta, paventata i giorni innanzi, avesse anche dovuto in quella perire! Ma calmo affatto era il cielo, e se non fosse stato l'argenteo solco che la chiglia lasciavasi dietro, sarebbesi potuto credere il legno fermo in un mare di cristallo; la tinta carica della volta aerea confondevasi col colore dell'acqua; il sole faceva scintillare mille vaghi splendori sulla liquida pianura, simili a diamanti che tempestassero la sciabola di un guerriero.
Il Pusterla girava gli occhi per l'orizzonte, cercando una nube, una vela, un qualunque oggetto ove aggrapparsi con un resto di speranza, e non vedea nulla: gli alzava verso la Meloria, verso quelle coste d'Italia che di tanto desiderio avea desiderate, verso i monti lucchesi... Per vederli da lontanissimo, o piuttosto per indovinarli, s'era tante volte arrampicato sui più erti picchi di Francia, stando ad osservarli col mesto tripudio d'un ritorno più ambito che sperato. Ed ora che se gli facevano sempre vicini, gli osservava collo spavento di chi, in buja notte smarrito per deserta campagna abbia seguitato un lume lontano colla fiducia che gli segnasse un ricovero amico; e si trova condotto invece ad una spelonca d'assassini.
La nave intanto era stata veduta, e di dietro la Capraja sbucarono due galere a remi battenti, movendosi alla volta di essa: la vipera viscontea sciorinata in penna non lasciava dubitare di chi fossero. Il Pusterla le guardò avvicinarsi; ardì gettare ancora un'occhiata sopra l'infame Ramengo, ma senza trovargli in viso che una scellerata contentezza: onde per disperato si aggruppò ancora col singhiozzante figliuolo, e chiuse gli occhi aspettando l'inevitabile destino. Così prostrossi boccone nella sua piroga il selvaggio indiano, che sentivasi irresistibilmente strascinato verso la cascata del Niagara.
Non appena i due legni si furono avvicinati, chiamarono il Caspio all'obbedienza, ed ammainate le vele, si venne all'arembaggio. Il capitano Samminiato richiese i nomi dei passeggieri; e Ramengo traendosi innanzi, e accennando quel pietoso gruppo, esclamò:
- Questo qua è Francesco Pusterla».
Colla turpe soddisfazione della sbirraglia quando giunse a ghermire la preda, si lanciarono tosto i soldati addosso all'infelice, la cui unica voce fu ancora, - Mio povero Venturino!» e caricato di catene, lo gettarono nella stiva e seco il figliuolo; - colà almeno gli fu tolto l'aspetto della ribalda gioja di Ramengo.
L'oro che seco portava il Pusterla divenne bottino del traditore, il quale non si fidò di rimettere il piede in Pisa, ricordevole dell'avventura dell'altra volta, e domandò al capitano del Caspio che lo tragittasse a Genova. Questi, volendo (ripeteva) esser libero come il mare, pose a terra il suo carico, e tosto diede la volta per dove Ramengo gli comandava. Il quale poi sbarcato, a gran giornate come chi reca una prospera novella, attraversò la Liguria e il Monferrato, toccò a Vigevano i confini del Milanese. Quivi però dovette subire una contumacia, essendo allora sospetticcio di peste, e massime nella Toscana, ove la fame dei due anni precedenti sviluppò la contagione in modo che la sola Firenze perdette in quell'estate quindicimila cittadini. Veniva come un tremendo foriero di quella che infierì sette anni dopo; intendo la troppo famosa, descritta dal Boccaccio, che sterminò centomila persone in Firenze, ottantamila in Siena, quarantamila a Genova, settantamila a Napoli, fra Sicilia e Puglia cinquecentotrentamila, restando alcune città, come Trapani, affatto disabitate; e perdendo tutta Europa tre quinti degli abitanti. Era ben altro che il colèra.
In quell'occasione valse la severità di Luchino, che con rigorosissimi cordoni tenne lontano l'imminente flagello. Per tanto Ramengo dovette durare la quarantena a Vigevano, poi per lo stupendo castello di Bereguardo, fabbricato dai Visconti, passò sopra il ponte gettato sul Ticino, lungo un miglio, largo e sfogato a segno da potervi sopra correre tre carri di fronte e sotto le navi più grosse; con ponti levatoj in capo, e due rôcche di legno assai forti in ordine di battaglia. Benchè fosse uno dei bei lavori architettonici, non credo che Ramengo v'abbia posto gran mente; e tanto meno, nel venire da Abbiategrasso a Milano lungo il Ticinello, avrà considerato l'ardimento d'una piccolissima repubblica, che osava tentare una tanta opera, qual era condurre artifizialmente il Ticino per trenta miglia fino alla città. Entrò in Milano per la stessa porta Ticinese, dond'era entrato quell'altra volta colla parata trionfale; passando dalla Palla, diede un'occhiata al palazzo del Pusterla, ove in benemerenza abitava il capitano Lucio; e coll'aria trionfale di chi sente d'avere compita una bella, se non buona impresa, si presentò alla Corte di Luchino.
Il buffone Grillincervello stava nell'anticamera in mezzo a camerieri e donzelli e paggi, insinuando la morale, e additando i buoni esempj con certe sue storiacce, ond'era provvisto a dovizia. - E sicchè (diceva) non vedendo ella altro modo di trovarsi col ganzo, ed egli non rifinendo di richiederla, gli fece intendere che, la tal notte, entrasse nella camera dove essa dormiva col marito, e si facesse alla proda del letto, dalla banda di lei. - Ma, se il marito sente, e m'accoppa» diceva il baggiano. Ed ella: - Portate in mano un par di guanti, e se vi accadesse di esser sentito, scoteteli, imitando il batter delle orecchie di un cane. Egli vi crederà il bracco suo fidato, che cuccia sempre nella stanza vicina. - Non occorre altro; e l'uomo piano piano, quatto quatto, entra fin al talamo beato. Un'anima di sambuco di quella sorte, pensate che paura! che battisoffiola! Moveva i passi come camminasse sulle uova; teneva il fiato, da gonfiare come una bôtta: ma quando si dice nascere disgraziati! il diavolo ci mise la coda, e ser colui urtò della maledetta nella cassapanca da piedi della lettiera. Il marito ode: - Chi è là? e il prode, che non aveva pelo che non gli tremasse, comincia a dimenare i guanti. L'argo ripete l'intimata, e l'altro a scuoter più forte. Il marito balza dal letto; e il gaglioffo, vedendo che l'agitare dei guanti non bastava, credette far l'effetto coll'aggiungere, con una gorgia da Cittadella, Sont el brach»28.
Uno scoppio di risa vive e sguajate secondò ed interruppe quel racconto; nel più vivo delle quali appunto ecco entrare Ramengo. Tutti gli sguardi si volsero a lui, come al comparire d'un resuscitato; Grillincervello, troncata a mezzo la favola, tese il dito verso lui con un oh lungo e strascicato, fece due capriole, ed entrato da Luchino roteando il suo berretto e facendo mille attucci da babbuino, - Marcia, sparisci e torna (esclamava). Quanto mi pagate, ed io colla mia polvere di biribara, vi fo comparire qua in petto e in persona Ramengo da Casale?».
Luchino non mostrò nè meraviglia, nè piacere; già l'aspettava, onde asciutto rispose: - Entri.
- Entri qui, o in carbonaja?» domandò Grillincervello meravigliato.
- E ch'io vada ad avvertire mastro Impicca di prontare i ferri del mestiere?
- Meno scene», l'interruppe Luchino, bujo come un diesire: e Grillincervello, che sentivasi ancora del le bôtte rilevate in quell'ultima lezione alla rocchetta di porta Romana, non istette a farselo dire due volte; e introdotto Ramengo, diceva agli scioperoni dell'anticamera: - Non avevo mai visto i tordi andare a cena col cacciatore».
Il vile cortigiano espose a Luchino di punto in punto tutta la sua involtura e l'iniqua trama, mettendo nel racconto la furfantesca soddisfazione che gli scaltriti usano nel narrare come trappolarono un semplice ed innocente. Luchino gli attendeva colla severità consueta, e s'avvicendavano in lui la contentezza della riuscita, e l'inesauribile disprezzo che tutti provano pei traditori e per le spie.
- Ed ora (soggiungeva Ramengo dopo finito) se ho ben meritato della vostra magnificenza, permetta ch'io la supplichi ad impegnarmi di nuovo la fede sua per la promessa impunità da qualunque delitto, sì a me, sì a mio figliuolo.
- Dove avete cotesto figliuolo?» chiese Luchino.
- A tempo la vostra magnificenza il saprà; ed io confido potrà farsi al potere di essa robusto sostegno, quanto volonteroso fu il genitore».
Tratta di seno la pergamena dell'impunità, già speditagli, come altrove abbiamo veduto, fece che Luchino vi apponesse di proprio pugno la firma. Conteneva essa che a Ramengo da Casale e a quello che egli indicherebbe per suo figliuolo, fosse conceduta intera impunità; col solito ordine a tutti gli ufficiali di rispettare quella ordinanza. Ramengo teneva in serbo questo colpo estremo per mostrare all'esacerbato Alpinolo quanto l'amasse, e mitigarlo, e cancellato di bando e di condanna restituirlo in patria agli onori ed alle ricchezze.
Ma ad onori e ricchezze aspirando, prese egli a mostrare a Luchino la grandezza dei prestatigli servigi: come per questi si trovasse, non solo scompigliato nelle proprie faccende domestiche - tacque della buona presa fatta sopra il Pusterla, - ma disonorato in faccia dei cittadini: qualora se ne sapesse: onde era del decoro del principe di conferirgli un grado, un impiego che lo tornasse e mantenesse in riputazione e in grado di continuargli i servigi. Nol lasciò finire Luchino, ed allumandolo biecamente, con atto sprezzante ed iracondo, gettatagli ai piedi una borsa di denaro, - Tieni (gli disse) i pari tuoi si pagano con argento e non con dignità»: e gli volse le spalle, nè più ne volle udire.
Quanto sia al povero nostro Pusterla, non tardò molto ad arrivare anch'egli: e il popolo corse a vedere quel famoso capo di ribelli, quel che voleva mandare Milano sottosopra, disfare lo Stato e ristampare la religione. Esso pure fu rinchiuso nella torretta di porta Romana; dove appunto lo vide entrare la sciagurata Margherita, che noi lasciammo svenuta a quella vista. Al male vogliamo credere il più tardi possibile; ed essa, la infelice, s'ingegnava di non dar fede ai proprj occhi: - Vedendo così a spicchio, mi sarò ingannata. - Sarà una illusione dell'amore e del timore». Ma ogni dubbio le fu tolto un giorno, che il carceriere Macaruffo entrò nella sua segreta con un portamento di manierato sussiego, e con un viso schizzinoso, sciamando: - Che tanfo qua entro! Che odor di chiuso! Perchè non date aria all'appartamento? Non vi si regge»: e facevasi vento con una pezzolina di seta. La Margherita fu presta a riconoscere il raso, sul quale ella aveva incominciato a ricamare una margheritina, che poi non potè finire: quel raso che Buonvicino aveva tolto dalla sala nell'ultimo giorno che vi entrò, e dato in carissimo dono al Pusterla, il quale recollo sempre con sè. Ora nel ravvisarlo, la Margherita si scosse tutta, come alla memoria di soavi affezioni, di cari giorni, dell'ultimo istante di sue gioje tranquille: e - Donde aveste quel ricamo?» domandò con ansietà all'aguzzino.
- Che? vi piace?» le rispose il ghiotto, scherzosamente sciorinandoglielo sopra gli occhi. - Me l'ha dato un altro camerata, alloggiato qui presso, e che voi conoscete.
- Franciscolo?
- Brava l'indovina! il signore, signorissimo Francesco.
- È veramente lui!» proruppe essa, piuttosto esclamando fra sè, che non interrogando quel tristo, il quale seguitava:
- Lui appunto: ne dubitate? credereste non ci capitino che dei vestiti di frustagno? Guardate. Sta sotto a questa chiave ch'è qui!
- E il figliuolo?
- Oh anch'esso, s'intende. Sarebbe una barbarie separar il figliuolo dal genitore».
Già, per quanto s'industriasse di far inganno a sè stessa, la Margherita era persuasa anche prima di aver qui vicino i cari suoi; e lo sapeva la desolata stanza, riempiuta, quei giorni, di gemiti senza consolazione; ma l'udirselo ora assicurare, ma il vedersi dalle schernevoli guise di quel figuro strappato fin l'ultimo filo di speranza e di illusione, faceva su lei quel che fa sopra un reo l'udirsi leggere la sentenza di morte, benchè già prima ne conosca il tenore.
- E (seguitava colui) m'ha dato questo fiore; ve' come è bello! perchè vi saluti voi e ve lo faccia vedere.
- Sa egli dunque che io sono qui?» domando la Margherita, ravvivando la voce, affievolitale da quello stringimento di cuore.
- Se mi disse che vi salutassi, e che....
- E che altro mi manda a dire?
- Oh, vi manda a dire delle altre pappolate... uh! tanto da non venirne a capo dentr'oggi. Ma non me le ricordo più.
- Deh! procurate ridurvele alla mente», diceva Margherita stendendo le mani giunte verso il torto ceffo di colui, in atto di tale pietà, che avrebbe commosso le pietre. Chi sa?... forse le doveva dire cose, che importassero alla, vita di entrambi; se non altro, una parola d'amore da colui, al quale tanto maggior bene voleva dopo che quel ricamo le mostrava quanto viva e delicata memoria di lei serbasse. Ma quel rozzo, digiuno di ogni sentir gentile, con un gesto espressivo le rispondeva: - Ridurmele a mente? Non avrebbe ella, signora mia, qualche cosa allato per ajutarmi la memoria?...
- Nulla; buon Dio! nulla. Voi lo sapete. Tutto quel poco che mi era rimasto ve l'ho pur dato, tutto, tutto. Che cosa mi avanza più se non questo trito vestire? Deh! una tal grazia vogliate farmela per carità. Oh, chi sa che un giorno io non torni in grado di compensarvene? Se no, ve ne rimeriterà Iddio».
E blanda, supplichevole, appoggiando le belle mani sulle spalle di colui, tentava piegarne l'impassibile cupidigia, ma non faceva sovra di esso maggior colpo che il sospiro di un vento di aprile sopra una montagna di marmo. - Che Dio? che diavolo? che carità? che compensare? (egli saltava su). La carità, io son uomo da riceverla, non da farla. I chi sa e le promesse di là da venire, il bettoliere non le scrive. Alle corte; o avete qualcosa da darmi, e schiodo; se no, statevi colla vostra curiosità in corpo, finchè non ve lo dica io».
E poichè essa non aveva proprio nulla sottratto all'ingordigia di lui, nè potea dargli altro che lacrime, che una accorata supplicazione, e inginocchiarsi a pregare il Signore, esso, rizzato un muso duro, le voltava tanto di spalle, e facendo sonare più forte i chiavacci nel rinchiudere, si allontanava pel lungo corridojo cantazzando, finchè la Margherita più altro non intese fuorchè la sentinella, la quale di e notte passeggiava dinanzi alle prigioni, alternando due passi uniformi, come senza volontà, quasi due pesi metallici che a vicenda battessero sull'ammattonato.