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Frà Buonvicino, come l'altra notte, avea serenato, aspettando coi cavalli al noce in Quadronno; perocchè le regole del suo Ordine erano aliene da ogni severità, e per poco che l'abuso le avesse rilassate, non si faceva caso che alcuno stesse anche tutta la notte fuori di convento. Aveva, dissi, vegliato in aspettazione, pregando, e talvolta abbandonandosi a una gioconda speranza che il Signore darebbe favore all'innocenza, tanto da operare un miracolo per trarre la Margherita in libertà; immaginava la gioja di sapere in salvo persone tanto care, il contento di rivederle una volta ancora, e poi mandarle dove fossero sicure dalla tirannia. Ma queste lusinghe davano tosto luogo a un arcano spavento, ai calcoli desolati della ragione: e figurandosi tutti i pericoli possibili, gelava, sudava, e buttavasi colla faccia sulla terra, supplicando Iddio che li salvasse: Iddio che solo il poteva.
Il minacciare del nembo non lo distolse di là; ben altro avrebbe affrontato per rivedere la Margherita. Ma quelle ore eterne passarono: i galli cominciavano a cantare dai rustici casali del vicinato, - Neppur oggi (egli disse) sarà potuto riuscire». Adunque rinviò il mozzo coi cavalli ad un'attigua cascina donde gli avea levati, gli diede la posta per la sera vegnente al luogo medesimo, e ritornossi al convento di Brera, facendo un distorto giro delle porte.
Ancor non era ben chiaro il giorno, e i foresi del vicino borgo si avviavano a Milano per vendere il latte, l'uva, le ortaglie; chi con due gran corbe infilate al braccio, chi con due zane in bilico sulle spalle, uno colla gerla piena in dosso: l'altro cacciandosi innanzi un somarello: quali spingendo le carriuole; alcune villane sbracciate e scollacciate e col guarnelletto di stampato, reggevano in capo secchi di latte, coi gomiti a manico di vaso: e parlavano tra sè del temporale della notte passata che divideva l'estate dall'inverno, della prosperità e delle disgrazie dei loro campi e degli orti, della fame che correva, della peste che minacciava, della comare, dell'amico: e facevano assegnamento sui denari che ricaverebbero quel dì.
Giunti alla spianata fra San Calimero e la torretta di porta Romana, vedono da un ramo spenzolare non sanno che: s'avvicinano: è un uomo impiccato. - Ehi, compare! gua'; quella pianta ha messo un grappolo massiccio.
- Oh oh! chi sarà mai!
- Mah!
- Una borsa.
- Una borsa? volete dire che sia piena di quattrini? E la additavano a chi veniva dietro, e si struggevano di saperne, per essere i primi a raccontarlo o nelle case dove andavano a portare le uova e i baccelli, od alle fantesche, loro pratiche, che capitavano colla corbella sul mercato.
Quando vennero fuori della rocchetta i primi soldati, che solevano appostare le bolle ortolanine per volere di esse il dondolo, e per pungerle con qualche arguzia sguajata, si conobbe il fatto. E così la mattina per tempo la notizia si diffuse, e il verzajo (così chiamano a Milano il mercato delle erbe e delle civaje, che allora tenevasi in piazza Fontana) fu tutto un pettegolezzo, un raccontare e domandare della grande ribellione che avevano fatto i prigionieri nella rocchetta di porta Romana, ammazzato i soldati, sfondate le porte, alcuni fuggiti, altri ripresi; e due singolarmente (chi fosse non importava; già s'intende ladri, o simile lordura, che i galantuomini non vanno a prigione) avevano corrotto il carceriere per fuggire; ma côlti, erano stati ricacciati in bujosa, e il carceriere mandato sui due piedi in piccardia.
Anche in Brera, il primo lavorante che capitò la mattina, - Sapete niente, frate Angiolgabriello?» disse al portinajo.
- No: dite su, che Dio vi benedica; cosa c'è di nuovo?»
E l'altro: - Udite, e poi segnatevi»: e gli riferiva il trambusto avvenuto a porta Romana, nel modo che andava per le lingue, e colle alterazioni che sogliono subire i racconti nel passare di bocca in bocca o di penna in penna; - argomento opportunissimo a dimostrare, per nostra discolpa, la inclinazione che ha l'uomo al romanzo storico.
Frate Angiolgabriello da Concorezzo non tardò a correre a raccontarlo al prevosto frà Giovanni di Agliate. Questo era ancora a letto: esclamò - Povera gente!» diede una volta, uno sbadiglio, e rattaccò un sonnellino. Con maggiore curiosità si facevano intorno al portinajo gli altri laici e professi per udirla: ed egli, glorioso d'essere il primo a spargere una notizia e di andare per la comunità siccome autore (tanto questa gloria d'autore lusinga fin nelle minime cose!) volentieri la diceva, e ridiceva come il cieco la sua leggenda. I frati ascoltavano col pacato interesse, onde si ascolta una notizia che non ci riguarda; al più, una moderata compassione, e i migliori, facendosi il segno della santa croce, esclamavano: - Gesummaria per loro!»
Ma chi fossero quei fuggiaschi troppo lo comprese fra Buonvicino allorquando, appena mise piede fuori della cella, il portinajo, che non aspettava che lui, corse subito a raccontargli il fatto, senza sapere di qual coltellata lo trafiggesse.
- Ma l'appiccato (chiese egli) era veramente il carceriere o un soldato?
- Il carceriere, che Dio lo benedica»; rispondeva frate Angiolgabriello: - chi me lo narrò, l'aveva coi proprj occhi veduto. Ed io sono stato il primo...
- E nessun soldato n'andò di mezzo, che si sappia?» l'interrompeva frà Buonvicino.
- Eh eh! e quanti!» ripigliava l'altro, trinciando l'aria colla destra spiegata.
Frà Buonvicino trasse il cappuccio sugli occhi, ma non sì presto da celar la sua emozione agli occhi del narratore. Il quale dappoi al suo racconto aggiungeva questa nuova circostanza per dimostrare a tutti di che tempra compassionevole fosse il fratel Buonvicino, che Dio lo benedica.
Quest'ultima tavola del naufragio era dunque fallita. Non già che frà Buonvicino vi avesse posta troppa fidanza; ma l'uomo è così fatto, che, col lungo fermarvisi sopra, si affeziona anche a ciò che egli medesimo sa non essere altro che sogni e fantasie. Due giorni e due notti aveva egli trascorse, fissato, assorto in quell'idea, in quella speranza: ed era svanita; svanita così dolorosamente! Gli piangeva il cuore per Alpinolo, che credeva dover esser perito in quel parapiglia: figuravasi i peggioramenti degli amici suoi; sicuro che l'oppressione avrebbe da ciò preso motivo per esacerbarne la condizione. Poi il giudizio loro si sarebbe precipitato; e la prepotenza avrebbe côlto volentieri quest'occasione di mostrare come le intelligenze, di cui più non potevasi dubitare, imponessero la necessità di togliere ai fautori dei Pusterla la speranza di camparli con qualche nuovo tentativo.
Pur troppo dunque prevedendo l'esito, disperando d'ogni umano soccorso, volgevasi a Dio, a lui che può mitigare l'ambascia di chi patisce e la fierezza di chi fa patire. All'augusto sacrifizio dell'altare se compunto sempre si accostava, quel giorno si presentò con più intenso fervore; tremando, piangendo, pregò per le povere anime di quelli ch'erano caduti uccisi, per Alpinolo: Dio è tanto buono! tiene a calcolo anche il sospiro d'un momento: forse quel giovane sarà uscito da questa vita perdonando e perdonato, ed ora si trova ricoverato sotto le ali di Quello, delle cui misericordie non è numero. Pregò quindi pei due Pusterla, che Dio moltiplicasse a loro la pazienza; che ai loro giudici compartisse, non tanto il lume per conoscere la verità, quanto il coraggio per sostenerla. E gli parve che il Cielo nuovo pensiero gli ispirasse, un pensiero coraggioso e nobile: il ventilò: si risolse.
Altamente compreso della dignità del suo ministero, frà Buonvicino era ben lontano da quella timida prudenza, che insegna a tacere davanti al peccatore potente. Non aveva egli sottocchio le parole di Dio e gli esempj dei profeti, degli apostoli, del maggiore dei profeti, e di Cristo? il Signore aveagli detto per Ezechiello: Te posi sentinella in Israele: annunzia la mia parola. Se quando io dico all'empio, morrai, tu glielo taci, sicchè esso persiste nelle sue vie, egli morrà, nell'iniquità, e del suo sangue domanderà conto a te29.
Per questo i Veggenti d'Israele nelle corrotte città si affacciavano gridando penitenza: e benchè il vulgo ne soverchiasse la voce, e gli oppressori intimassero silenzio, non isbigottivano, e continuavano gridando, Penitenza. Così gridava il Battista alle genti sedute nelle tenebre della morte, e portava la minaccia alla Corte del re, e n'aveva - ricompensa antica - prigione, supplizio.
Poi gli apostoli, fra la pertinace superbia de' Giudei e la spensierata lascivia delle genti, bandivano una legge di spirito, contraria alla legge della carne; instavano opportuni, importuni30; battuti, scherniti, uccisi, l'ultima voce loro sonava ancora una vigorosa professione della verità. Chi avesse lor detto di piegarsi ai rispetti del mondo, alle spietate necessità della politica! Non così gli aveva ammaestrati il Divino, che scese a portare la spada della parola, che predicava il regno della giustizia in faccia ai sofisti, agli ipocriti, ai forti congiurati, sebbene sapesse lo trarrebbero a morte per seduttore dei popoli e ribelle. Chi volle innestar il Vangelo sulla pusillanime prudenza dei figliuoli degli uomini, piegarlo agli interessi del secolo, a rinfrancare i prepotenti contro i deboli, dovette snaturarlo nel carattere suo principale.
Non così l'aveva inteso frà Buonvicino; onde altre volte era uscito per le vie di Milano rimproverando i disordini della plebe, gli stravizzi dei ricchi, la corruttela degli obbedienti e l'eccedere dei magistrati. Vero è che allora, quando non erasi ancora aperto questo cancro dell'indifferenza, questo ateismo pratico, la voce dei religiosi sonava venerata, perchè suggerita da intima convinzione, ed ascoltata con fede: i sacerdoti si guardavan per annunciatori di pace, come il loro capo era destinato a stare sopra i potenti della terra coll'inerme eredità di Cristo per insegnare la giustizia colà, dove tutto regolavasi a forza di spade o d'astuzia.
Traviarono? mescolarono gl'interessi della fede con quelli del secolo? Compiangiamoli: ma quale ingiustizia attribuire alla religione i disordini ch'ella appunto riprova! Benediciamo anzi la Provvidenza che, tra la ferocia di animi incomposti, tra quel cozzo degli elementi sociali, avesse stabilito un ministero di riconciliazione31 per frenare il braccio del violento, spruzzare l'acqua della pace sui rancori fraterni, chiamare i furibondi a deporre gli sdegni nelle braccia d'un Crocifisso. Benefico potere, che interponeva il nome di Dio agli atti umani; se non altro, protestava in favore della calpestata umanità: chi oggi ne adempie le veci? Le istituzioni umane vanno soggette a speranze e timori; può la prepotenza lusingarle od atterrirle; può la scaltrezza farsele alleate; tristo chi non si affida che nella polizia e nelle bajonette, e chi a queste non sa opporre che la rivolta e l'assassinio.
Frà Buonvicino fermò dunque in animo di andar a perorare dinanzi a Luchino la causa dell'innocenza. Invocato Colui, che solo può dare efficacia alla verità, forza alla persuasione, e far dalle rupi zampillare acque vive, si diresse al palazzo, come Natan andava a rinfacciare a David il suo peccato. Le persone vulgari, che lo vedevano meditabondo e sopra sè attraversare le vie, dicevano ai loro figlioletti: - Gli è un santo: quando lo scontri baciagli la mano». I nobili, facendo tacere l'orgoglio della nascita avanti ai meriti dell'intelletto e del cuore, gli cedevano il lato rispettosi; le guardie del palazzo e gli adulatori diedero il passo, inchinandosi a colui che indovinavano come venisse a bandire la verità dove essi facevano ogni studio per palliarla; ma è privilegio della verità il rendersi venerata da coloro stessi che l'abborrono, come è privilegio della lusinghiera viltà il toccare lo sprezzo anche di quelli, innanzi a cui arde i suoi fetidi incensi.
Nell'avvicinarsi alla torre, entro cui soggiornava Luchino, quattro fieri mastini si levarono incontro al frate, con un abbajare, con un ringhio, che a stento repressero i custodi. Grillincervello, trattosi anch'egli il suo burlesco berretto, senza permettersi contro del frate i motteggi che a nessuno risparmiava, corse ad annunziarlo al Visconti, limitandosi a dire sottovoce agli altri: - Oggi il principe ha predica in camera».
Il Visconti stava in quel momento ritirato in un riposto gabinetto della sua torre, insieme con un uomo di gran barba, ravvolto in una veste nera, lunga fino ai talloni; il quale, con aria d'importanza o d'impostura (l'una somiglia tanto spesso all'altra), teneva il dito teso sopra una figura geometrica che aveva delineata, e che veniva dimostrando al principe. Un astrolabio ed una sfera armillare posti fra loro, indicavano come costui fosse un astrologo. Era di fatti quell'Andalone del Nero che ci fu nominato altre volte, non meno celebre a Milano che fosse ad Avignone quel Tommaso Pizzano, si mal a proposito consultato dal Pusterla.
Luchino, come tutti solevano nei casi più dubbj e rilevanti, aveva interrogato Andalone nientemeno che sopra un problema, a cui attendono da secoli migliaja di persone... cioè se fosse possibile congiungere l'Italia sotto un solo signore, e se egli potrebbe essere quel fortunato.
Gli elementi per risolvere quest'arduo problema sarebbero certo assai diversi ai nostri giorni; per lo meno non v'entrerebbero più quel che allora pareva capitale, voglio dire il consenso delle stelle e le influenze celesti. Anzi io credo che, in tale discussione, troppo poco si guarderebbe di sopra dei tetti.
Giovane, prode di sua persona, ricco d'accorgimenti e di scaltrezze, non mai rattenuto nella sua vita dallo sgomento d'un delitto, valutando gli uomini come mezzi, le alleanze come lacciuoli, i patti come un'esca agli incauti, e ragione la prepotenza, e giustizia la buona riuscita, Luchino poteva sperare di raggiungere una meta, alla quale avevano sempre avuto la mira i suoi predecessori: raggiungerla, purchè qualche aspetto maligno di pianeti nol contrariasse. Ma chi spassionato guardasse alle condizioni del paese, trovava da un lato le abitudini radicatissime in popoli avvezzi a riguardarsi non solo come stranieri ma come nemici, la malvagia ingerenza degli stranieri che soffiavano nelle ire fraterne, le gelosie degli altri signorotti, e l'ostacolo interiore di una potenza che i diritti temporali sosteneva con armi spirituali, allora spaventosissime.
Queste cose vedeva Andalone del Nero colla prudenza della politica: ma fingendo leggerle nella congiunzione degli astri, aveva rizzato l'oroscopo, ed ora spiegandolo a Luchino, da una parte non voleva scemare credito all'arte sua con promesse che uscissero poi vane, nè dall'altra disperare affatto l'ambizioso signore. Esponeva dunque le cose con tale avviluppo, con gergo sì dottrinale, con tanti misteri, che Luchino nè sapeva trovarvi accarezzate le sue speranze, nè volea vederle sventate, talchè ne rimaneva scontento e indispettito.
Più s'indispettì all'annunzio di Grillincervello. Conosceva egli Buonvicino fin da quando era nel secolo, e lo temeva come uno di quegli uomini dritti, che alle opere scellerate, agli iniqui consigli oppongono un ostacolo legale quando possono, o, quando non possono, una passiva resistenza; - uomini odiosi al potente ribaldo, giacchè con nessun atto eccedente gli offrono ragione o pretesto di reprimerli, di perseguitarli.
A mal cuore sentì pertanto il venire di lui; pure non ardì negargli udienza, sì perchè rispettato, sì perchè la recente sua riconciliazione col papa il costringeva a maggiori riguardi verso i religiosi. Onde comandò andasse ad aspettarlo nella sala della Vanagloria, acciocchè la regia pompa del luogo facesse meglio sentire la gran distanza fra il principe temuto e l'umile frate, fra l'uomo circondato dalla forza e quello che non ha se non le umili virtù della beneficenza.
Quivi entrando, Luchino, sebbene si fosse messa intorno al cuore la calcolata freddezza di un potente che va ad ascoltare chi ha già deliberato non esaudire, pure con sembianze cortesi mosse verso frà Buonvicino, dicendogli - Ben giunto! che ci recate, o padre?»
Al che frà Buonvicino inchinandosi, - Quando il ministro del Dio della misericordia si affaccia alla soglia di un potente, può egli recarvi altro che consigli di mansuetudine e di clemenza?
- E sempre saranno qui ben accetti», soggiungeva Luchino con affettata sommessione, da cui ingegnavasi di non lasciar trapelare l'alterigia, che di leggieri acquista chi non sa se non essere obbedito. E il frate: - Siatene benedetto! Ma non basta che l'orecchio sia dischiuso al vero, se il cuore poi non lo riceva. O principe! corrono per la città strani rumori di nuove vendette...
- Vendette! vendette!» interruppe l'altro rinforzando la voce. - Vendette! solito nome con cui la malignità qualifica le punizioni. Dunque se un traditore mi si solleva in casa, se alcuno trama per togliermi quel che a diritto possiedo, ed io punendolo riparo me e la società di cui son tutore, avrà a dirsi vendetta? Non m'ha data Iddio la spada per ferire?
- E Dio», riprendeva il frate con voce tanto più commossa quanto iraconda erasi fatta quella del Visconti. E Dio vi conceda lume per ben adoperarla. Ma avete esaminato voi stesso se mai non vi traviassero personali affezioni? Siete certo che non v'inganni alcuno di quelli, di cui sta scritto che preparano continuamente saette per colpire nelle tenebre i buoni32? Avete considerato come il sangue innocente gridi incessante al cospetto dell'Agnello?»
Nei moti del Visconti appariva la insofferenza di un linguaggio così vero, ma così inusitato, e il frate proseguiva: - Ma sia; abbiano ordito tradimenti; non è un precipizio punir l'attentato come la colpa? Quanti cuori non vi guadagnerebbe la clemenza? quanti non ne rimoverà da voi il rigore? Oh la clemenza! essa è un vanto per l'autorità benefica, è un calcolo per i malvagi allorchè suggerisce che ogni enfiato non si dee tagliare, che il rigore può imporre il silenzio, ma non infonder l'amore, unico fondamento stabile della podestà. Essa è un calcolo allorchè fa vedere quanto divario corra fra un principe benedetto dal popolo, che egli dirige da buon pastore, corregge da padre amorevole, e un altro che nol frena se non tenendogli alla gola il pugnale. Guai al giorno che quel pugnale si spuntasse! Ma questi sono discorsi di prudenza umana. Io son ministro del Vangelo, e come tale vi domando: Siete voi cristiano?»
Rizzò la testa Luchino a un'interrogazione che gli sonava potente come uno scongiuro, ma tosto armatosi dell'ironica indifferenza contro cui si spuntano e la ragione e la pietà, tentennando il capo, rispondeva: - Cristiano? io? me lo chiedete voi, o padre? voi di un convento che dovrebbe conoscermi?
- Come tale (ripigliava frà Buonvicino) fate ogni opera onde conformarvi a quel divin Modello, che non domanda olocausti ma giustizia, che al par di sè ci vuole temperati e misericordiosi. Ora egli intimò preciso, che, se il fratello ci offende non una volta, ma settanta volte sette, altrettante condoniamo; e promise misurar noi colla misura che avremmo cogli altri adoperata. E voi stesso rinnovate quel patto ogni giorno allorchè pregate che egli perdoni a voi, come voi agli offensori. Or quando ripetete questa preghiera, bagnato del sangue, anzi pur delle lagrime di un nemico, non vi ricorda che vi è un punto a cui tutte le strade mettono capo? che un giorno un giudice...
- -Lo so, lo so», interruppe Luchino, sollecito di sviare un pensiero che fa gelare il ribaldo sotto alla corazza o fra un cerchio di spade.
- Lo so: ma so ancora che l'ingiustizia invendicata provoca a nuove offese. Bello, sì, sublime è il Vangelo, ma per ridurre in pratica quella sua angelica società, converrebbe che tutti l'adempiessero».
E il frate, - Ma quando il fallo altrui potè scusare il nostro? E se tutti seguitassero cotesta vostra ragione, che sarebbe il mondo più che una spelonca di ladri? Ah! già troppo la forza ha dominio nelle cose umane; già suggellò atroci distinzioni fra gli uomini. Invece di scusarsi coll'esempio di chi travia, perchè i potenti, perchè voi non vi fate esempio agli altri; non cercate rilevare l'umana dignità abbattuta, col sostituire il diritto alla prepotenza?
- A questo modo vorreste inferire che sin ad oggi errarono quelli che punirono, errarono le leggi, errarono i nostri antichi, e quei lumi di ogni sapienza, i Romani».
E il frate di rimando: - Quelle leggi chi le ha fatte? l'uomo, abisso di contraddizione e di miseria. Ma più sopra sta un altro legislatore, infallibile, scevro da passioni e da interessi, che ha fatto legge la carità, dovere il perdono. Se le istituzioni umane vi si conformano, benediciamo il Signore. Ma se sono disformi, se i sudditi mormorano...
- E di che non mormorano essi?» interruppe Luchino. - Non udite come continui suonino i loro lamenti? Mormorano di quei gloriosi imperadori romani; mormorarono contro il gran padre mio; mormoreranno di me. Perchè dunque piuttosto non vi diffondete tra cotesti, intolleranti di ogni autorità, a predicare la somma delle virtù, la subordinazione? perchè non mostrate a codesti perpetui scontenti come il comandare sia peso assai più grave che non l'obbedire? Oh no; allora non occorrerebbero codesti panegirici della clemenza, i quali tornano conto solamente ai rei, come ai vinti il panegirico della generosità».
E col piglio fra sprezzante e scrutatore che acquistano coloro, in cui la politica soffogò l'umanità, fissava di traverso la venerabile fronte di frà Buonvicino, mortificato, ma non da riguardi umani, e più nobile in mezzo ai patimenti. Il quale proseguiva: - Se i popoli si lamentano sempre, non correte a trarre per unica conseguenza che siano dunque incontentabili. Quanto alla subordinazione, che altro facciam noi se non bandirla tutto dì fra il popolo? Oh forse la verità va riguardosa allorchè parla a coloro, coi quali può essere franca impunemente? Ma Dio ci comandò di dirla al forte; e per questo ci teniamo obbligati a predicare che, nel libro stesso ove è imposto ai sudditi di obbedire, è comandato di ricordare che tutti vengono da un padre, tutti camminano a un fine. A chi in contrario procede, quale castigo intima Iddio? che tremeranno ove non sia timore33. Se poi gli eccessi del capo, non dico scusino ma traviino il popolo, se questo popolo mormori, se pensi togliere l'autorità a chi ne abusa, avrà questi il diritto di vibrare la spada contro agli offensori? Non l'ha rintuzzata egli stesso il giorno che la volse a sostenere l'iniquità?
- Egregiamente!» riprendeva Luchino; e pratico nell'antico sofisma che mostra il torto dell'avversario col fargli dire più che non abbia inteso, continuava: - Egregiamente! negare al principe il diritto di punire! renderci da meno di un superiore dei vostri conventi! Ma già il mondo non s'impara fra quattro mura, nè il governo di una comunità ecclesiastica insegna quel che giovi a una città, a un popolo... Sì, sì, vorrei veder io chi starà arbitro fra me e cotesto popolo; chi verrà a dirmi, - Trascendesti i patti, dunque discendi».
E batteva la mano sul pomo della spada. Ma frà Buonvicino, - Ecco dunque qual parrebbe a voi il gravissimo dei misfatti: l'osar parlarvi la verità. Sempre dunque misura delle opere la potenza, ogni quistione risolta colla forza, per la quale potete comandar di tacere. Eppure questa società vi ha affidato il potere: essa è l'organo di Dio, il quale è superiore a cotesto brando in cui fidate...
- Eppure» l'interrompeva Luchino colla compiacenza di chi ferisce l'avversario colle armi sue stesse: - eppure questo Dio si compiace di esser chiamato il Dio delle vendette».
Ma il frate, senza esitare, - Sì, perchè egli è giusto per essenza, e però vendica gli innocenti, giudica le giustizie, si fa rifugio dell'oppresso e del tribolato. Ed egli, scevro da passioni e da interessi mondani, dettò una legge superiore a queste, fatte dall'uomo, fallibile per cuore e per mente, una legge di mansuetudine e di perdono. Ed egli stesso ha dato la spada ai signori della terra, ma per punire, non per vendicarsi, per tutela della società, non per oltraggio, non per far misura delle opere la potenza. Se il patto s'infrange, non cessa da questo istante il diritto? E il ministro di Dio non ha obbligo di rinfacciarlo al trasgressore?»
A guisa di un fanciullo caparbio e ritroso, che non sa come replicare, pur non vuole obbedire, il Visconti con un tal riso che gli era proprio, esclamava: - Obblighi nuovi! nuovi incarichi!
- Nuovi! (soggiungeva fra Buonvicino) nuovi quanto il libro ove il più sapiente dei re scriveva: Ascoltate, o regnanti; imparate, o giudici: da Dio v'è dato il potere, ed egli interrogherà le opere vostre, e vedrà se mai voi primi aveste contraffatto alla sua legge34. Nuovi quanto il Vangelo, dove è raccontato del servo che fu sentenziato alle tenebre inferiori perchè non aveva usata al conservo debitore la misericordia che egli stesso aveva ottenuta dal padrone. Meno poi avrebbero a somigliar nuovi in Milano, e a voi che tante volte traete a pregare alla basilica ambrosiana. A quella stessa drizzavasi un altro principe, la più gran maestà della terra, un Teodosio imperatore romano: quand'ecco uscirgli incontro un vescovo, il mite Ambrogio, e rimproverargli il sangue versato in città ribelle. Eppure questa città era sorta alle armi e all'eccidio. O principe, il mite Ambrogio non ricevette alla comunanza della preghiera e del sacro pane l'imperatore finchè con lunga penitenza non ebbe tersa la macchia.... O principe, e le mie son novità?
- Ma al nome sia di Dio; in conclusione che volete da me? (dava su Luchino con irrefrenata impazienza). Che io disserri le prigioni, o mi empisca il paese di furfanti e di assassini?»
Allora il frate con tono supplichevole, - Sono tutti furfanti e assassini quelli che chiudete nelle vostre prigioni? E con loro confusi non gemono forse altri, non dirò rei, ma accusati di trame contro la vostra autorità? Quale impresa tentassero io nol so. Ma se, così pochi, pensavano togliervi un potere difeso dal popolo che ve lo conferì, non meritan piuttosto compassione che castigo? Non torna meglio farsene altrettanti amici col perdono? Se poi avete ragione di credere che il popolo stesse con loro, come persuadervi che il sangue di pochi affogherà le ragioni comuni? e allo sdegno sostituirà nella moltitudine l'amore, unico fondamento durevole all'autorità? Non è a temere piuttosto che il gemito di ogni vittima risuoni nei cuori già commossi, per eccitarvi il desiderio di vendetta? Tanto più se le vittime sono illustri, se care per virtù, se credute innocenti. O principe, voi tenete nei ceppi Francesco Pusterla e la donna sua....
- Che? tutta la predica dunque riesce a questo? Ove si tratti di bella donna, anche voi, reverendo, ne prendete a cuore la sorte?»
A fra Buonvicino andarono nel fondo dell'anima queste parole. Recatosi in sè stesso, rapidamente esaminò se i primieri affetti avessero troppo parte nella condotta sua presente: gli parve di no, ma disse in cuor suo: - Ciò sia in riscatto dei miei trascorsi» e tacque. Luchino, a cui quello scherzo era sfuggito in un momento ove il naturale prevalse alla riflessione, rifattosi più serio di prima, continuava: - Voi non ignorate come i costoro complici siano stati processati, e come dalle spontanee loro confessioni pur troppo risulti che la famiglia Pusterla, ingrata a tanti benefizi, stava a capo di una trama contro la sicurezza mia e del mio Stato. Osereste richiamare in dubbio un giudicato?
- Anche Cristo fu giudicato; giudicati i martiri, e il cristiano che sel ricorda, sa che talora la spada della giustizia emula il coltello dell'assassino: sa vedere l'innocente perfino in chi sale al palco, e il riprovato da Dio in colui che lo condannò.
- Ebbene, Dio li salvi se sono giusti (parlava Luchino). Quanto a me, per non sembrare mosso da particolari affetti li sottoposi a giudici indipendenti, e secondo parrà alla loro rettitudine, sarà fatto.
- Qui appunto sta il forte, (riprese la parola fra Buonvicino animandosi), che sotto al manto della rettitudine non si mascheri l'iniquità. I giudici saranno eglino incorrotti? Avranno il coraggio di sentenziare diverso da quel che altri accenna loro come desiderio del padrone?»
Non parve vero a Luchino di trovare un appiglio onde irritarsi e gridare, e sottrarsi così alle argomentazioni del frate, che più lo serravano quando erano esposte con maggiore aspetto di calma e di soggezione. - E che? (gridò) osereste dubitare dell'integrità dei miei giudici? Padre, finchè parlaste di noi, finchè mi intimaste i miei doveri, dritto o no, io vi ho dato orecchio colla sommessione di un fedel cristiano. Ora non più: voi intaccate i più onorevoli fra i miei cittadini. Silenzio, dunque: basta. Della premura che vi prendete per l'anima nostra e per la nostra fama, gran mercè: ve ne ringrazieremo meglio che con parole. Ma qui finisce la vostra parte. Vi sono leggi, e vi sono giudici per applicarle. Innanzi ad essi compariranno cotesti vostri protetti, vedranno snudate le loro scelleraggini, e... morranno».
Così disse con quella voce risoluta che non ammette più replica, e quest'ultima parola, traboccatagli come in ricatto della forzata degnazione adoperata sino allora, rimbombò terribile per la dipinta volta del salone, e a guisa di un fulmine colpì il frate, che ammutolito chinò la testa. Quando la rialzò, vide Luchino che varcava la soglia a passi concitati, lasciandolo solo. Così anche le poche volte che la verità può accostarsi all'orecchio dei tiranni, la funesta abitudine di veder fatta legge la propria volontà reprime quel grido, e pone ancora al luogo del diritto l'arbitrio e la potenza.
Luchino tornò ad almanaccare la conquista di tutta Italia con Andalon del Nero; l'Umiliato discese come cieco le scale del palazzo; attraversò la città compassionando i popoli, a cui Dio manda il peggiore dei flagelli che accolga nei tesori dell'ira sua, una trista signoria; e venne al convento di Brera, meditando le miserie del giusto, le quali gli gridano come la sua patria non è quaggiù.