IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Prima di finire, volendo toccare un motto anche delle altre persone che s'incontrarono colla Margherita in questo racconto, dirò come, tre anni dopo, un caso intervenne a Grillincervello, il più spiacevole caso che gli fosse mai tocco nella sua vita beffarda e beffata, ridente e paziente. Il signor Luchino, nella deliziosa sua villeggiatura di Belgiojoso manteneva un intrigo con una fanciulla paesana; ma, o non gli convenisse il farne mostra, o volesse solleticare il logoro senso del piacere col savore del pericolo e del mistero, egli conduceva di piatto questo suo amorazzo, e non traeva a sè quella facile bellezza se non di sera al bujo, facendola, per una porticina d'in fondo al parco, entrare in quel casino, dove Alpinolo l'aveva visto una volta a dormire, posto fra gli ombrosi andirivieni di un artificioso boschetto. Non isfuggi la tresca alla maligna curiosità del buffone, e si propose di giocare un mal tiro al signor suo, per farne poi scene.
Non so se mi sia venuta occasione di accennarvi che Luchino, in mezzo a tanta fierezza, era pauroso del diavolo, del fantasma, degli esseri impalpabili, contro di cui non valevano nè la spada sua, nè il ringhio dei mastini, nè le labarde degli scherani. Una sera, non aveva egli fatto che entrare colla druda nel conscio nascondiglio, quando, tra il fosco, gli appajono sulle pareti, in livida luce, i contorni di certe strane forme, metà uomini e metà bestie, con immense code e corna, e occhiacci stralunati, e tanto di lingue sporgenti; e nel tempo stesso comincia un fracassio, un sibilo fremente, un agitar di catene: le figure, il sobbisso che attribuiscono al diavolo coloro che pretendono di averlo veduto e udito.
La ragazza, tra piena di ubbie, come sono o erano queste campagnuole, tra rimorsa del suo peccato, voglio lasciar pensare a voi di che paura restasse presa. Ma neppure il signor Luchino seppe contenersi; e sgomentato non meno di un fanciullo male avvezzo, sbucò gridando accorr'uomo.
Gli sghignazzi di Grillincervello gli diedero ben tosto a capire come fossero orditure di costui, il quale, con non so che sue misture, aveva rappresentato quegli spaventosi apparimenti. Accorsero servi, accorsero soldati con fiaccole, con armi, accorsero i figliuoli e la eccellentissima moglie e monsignor arcivescovo; talchè quella che dovea restar mistero, divenne una pubblicità, con iscapito dell'onore della docile contadina.
A Luchino, occorre ch'io vel dica? quel tiro spiacque che niente più; non tanto per veder rivelato quel suo tafferuglio (alla fin fine erano peccati abituali, e sapeva egli stesso riderne e farne ridere) ma per aver mostrato a quella donna, al giullare, agli accorsi, la sua paura: cosa che con tanto maggior sollecitudine si nasconde, quanta più se n'ha. Cacciò mano alla misericordia, e Grillincervello non mangiava più pane se, lesto come uno scojattolo, non si fosse arrampicato sino in vetta di un olmo, dove, appollajato, serenò quella notte alla fresca.
Il dormirvi sopra attutì la bizza di Luchino, non però così, che non volesse farla scontare al buffone con altrettanta e maggior paura. Il domani, dietro mangiare, quando solevano introdursi i buffoni a cantare e spassare, e colle arguzie loro agevolare la digestione signorile, Luchino, voltosi ai tre suoi bastardi, alla moglie, al fratello arcivescovo e agli altri commensali, disse: - Voglio che ci divertiamo».
E ordina che venga Grillincervello.
Questo, al non vedersene più fatto cenno nè motto, argomentava che quella sua bizzarria fosse, come tante altre, messa sotto un piede. Pure, volendo meglio dileguarne la ricordanza col far ridere di più, si mise addosso una veste di raso perlato, che la signora Isabella aveva, pochi dì prima, regalato ad una delle mogli o femmine di lui. Piccinacolo com'era, se la strascicava dietro, e con quel ceffo da beffana, e due gran mustacchi cho s'era acconci, e con istrani reggimenti del corpo, avrebbe mossa a riso la malinconia in persona.
Tutti in fatto cominciarono le risa più grasse; ma Luchino no; anzi, con un piglio arcigno se altra volta mai, lo rimbrotta delle insoffribili sue petulanze, e comanda a mastro Impicca (personaggio il quale seguitava la Corte), che lo conduca davanti a quel casino istesso, e senza più, lo appicchi per la gola. Indi invita i commensali a vuotar colà alcuni fiaschi di San Colombano, e vedere il castigo del mal burlone.
Benchè il tono di Luchino gli paresse fiero e risoluto oltre l'ordinario, ed egli si sentisse in colpa, nonostante quello sciagurato, persuaso o volendo persuadersi non fosse altro che una celia, fece ogni prova per voltar la cosa in burla, con una affettata paura ed uno svenevole accoramento. E Luchino, sodo. Come dunque egli vide il padrone ripetere l'ordine con un fare davvero spaventevole, e nessuno dei circostanti mostrar segno di favore nè di compatimento, e il carnefice ghermirlo senza cerimonie, fu preso da tanto sbigottimento, quanta era dapprima la sua baldanza. Bianco siccome un panno lavato, tremebondo come un paralitico, non reggendosi sulle ginocchia, mentre il boja ora lo tirava, ora lo spingeva, strillava al pari di un'aquila, chiamava misericordia, e volgendo la faccia contrita, raccomandavasi ora al padrone, ora al prelato, ora ai figliuoli, e massimamente alla signora Isabella e alle dame di lei, rammentando ad esse che aveva tre mogli e una nidiata di puttini. Poi, vedendosi non ascoltato dagli uomini, non lasciò santo che non invocasse; implorava almeno di confessarsi, di salvar l'anima; ma nessuno facea viso, non che di esaudirlo, neppure di commiserarlo; e il maggior loro da fare era il tenersi serj e composti, a malgrado dell'enorme antitesi fra quel vestire, quel ceffo, e quelle supplicazioni. Ed oltrechè per abitudine non pendevan troppo alla pietà, volevano così tener mano con Luchino, sapendo non esser altro che una baja, da risolversi comicamente, e riderne poi per mezz'anno.
Intanto mastro Impicca arriva al luogo designatogli, getta la soga a cavalcione di un ramo di quercia da un capo, e dall'altro, formato un nodo corsojo, lo circonda al collo del buffone, e fattolo salire, o piuttosto portatolo su per quattro o cinque piuoli di una scala a mano, ivi appoggiata, gli da una spinta, e giù.
Un ghigno universale scoppiò allora fra gli astanti, nascosti nel bosco: giacchè, secondo l'intesa, non essendo il capestro assicurato al ramo, il buffone, invece di restarvi appeso e strangolato, cascò stramazzone sull'erba. Fattisi dunque tutti vicini ad esso, chi lo chiamava, chi lo urtava coi piedi, chi lo punzecchiava colla mazza o colla spada, e rinforzando le risa, gli ripetevano: - Ohe! sta su! - Che? ti sei addormentato? - Lazzaro, vien fuori» gli gridava l'arcivescovo; e Forestino soggiungeva: - Gua' come imita bene il morto».
Il fatto però stava che egli era morto davvero: lo spavento lo aveva accoppato. Questo principesco divertimento non dispiacque a tutti, molti anzi si tennero di buono al veder tolto di mezzo questo implacabile morditore.
- Visse come i cani di legnate e di buoni bocconi: come un cane sarà sepolto», disse Forestino prendendo al braccio e conducendo via la signora Isabella.
- Salute a noi finchè non torna lui», soggiunse Bruzio seguitandolo. Anche Luchino, volgendo un'ultima occhiata nel partire, esclamò: - Me ne sa male: mi faceva tanto ridere».
Al che monsignore: - Basta fargli dire del bene».
E Borso: - Puh! di buffoni non è scarsità»; e girava un'occhiata fra sprezzante e atroce sopra i cortigiani che stavano attorno.
Chi mi domandasse come la signora Isabella sentisse e sopportasse questi disordini del marito, e gli scorni che le recava, sarei costretto a rispondere: «Al modo di molte: facendone altrettanto». Quando essa partorì due figliuoli, Grillincervello diceva che Luchino poteva mangiare in venerdì la parte che vi aveva avuto; nel che pare che egli non desse lontano dal vero, attesochè, dopo morto Luchino, essa dichiarò che non venivanle da lui.
Una volta poi, essa, volendo trovarsi comodamente con un certo, anzi, con certi suoi innamorati, finse aver fatto voto di visitare San Marco in Venezia. Grossa comitiva di signori e dame principali delle varie città obbedienti ai Visconti, l'accompagnarono nel devoto e voluttuoso pellegrinaggio, e sull'esempio della principessa sfoggiarono in lusso e lautezze non mai più vedute, e ruppero in scandaloso libertinaggio. Tutto il mondo ne facea cronache: solo il marito, come suole avvenire, ne rimaneva all'oscuro, finchè l'astrologo suo Andalon del Nero, fingendo leggere nelle stelle quel che contavasi per tutte le barbierie di Milano e di fuori, ne diede notizia al Visconti. Questi consentiva ad essere tradito; ma ingannato, no: e, furibondo della beffa più che dell'oltraggio, mancò all'abituale sua dissimulazione, e lasciossi intendere che, con un bel fuoco, stava per fare la più grande giustizia che mai si fosse eseguita.
Non l'avesse mai detto. Isabella intese che bisognava prevenirlo. Come fu, come non fu, Luchino, di ritorno da una corsa, beve una coppa di vino, ed è preso da dolori atroci; chiamano quel dottissimo Matteo Salvatico, il quale nel visitarlo impallidisce, guarda in viso alla signora che piangeva e strillava, si pone un dito alla bocca, e chiesto che mal fosse, risponde in aria di oracolo: - Un bel tacer non fu mai scritto».
E Luchino morì, sette anni dopo il supplizio della nostra buona Margherita, e fu sepolto, dissero le gazzette d'allora, cum grande honore de cavalli et de bandiere, cum infinito dolore de l'arcivescovo et de la inconsolabile moglie, et incredibili lacrime de tutti li fedeli sudditi de Milano et contorni.
Quell'incredibili non si legge che in pochi esemplari genuini.
Dopo queste dimostrazioni, tutte del pari sincere, la signora lasciossi racconsolare, e il popolo obbedì volentieri al solo arcivescovo Giovanni. Era egli oltremodo magnifico, gran persecutore degli eretici, gran limosiniere, gran fautore dei letterati e del Petrarca, il quale e i quali seppero mostrarne la medaglia da un lato solo: la storia mostrò anche il rovescio a chi possieda lente per leggere di sotto la patina della retorica e dell'adulazione. Il popolo, accortosi di aver poco migliorato, desiderò disfarsene; e la morte ne lo disfece dopo cinque anni.
Non erano ancor finite le splendide esequie fattegli in pubblico, e le imprecazioni lanciategli in privato, che, per paura non mancasse un padrone, noi popolo col suffragio universale ci affrettammo di eleggere principi Bernabò, Galeazzo e Matteo, quei tre fratelli che i nostri congiurati avevano sperato liberatori del paese. Essi coi fatti davano segno di far ogni male, e i Milanesi se ne promettevano ogni bene. Il servire era diventato abitudine, abitudine non si può dire altrimenti che comoda; la lunga dominazione dei primi Visconti aveva associato al nome di questi l'idea di padronanza; onde, sebbene l'elezione si facesse dai novecento, scelti dal principe ad organi del voler popolare, si sarebbe creduto ingiustizia il non conferire il potere a un Visconti, non per altra ragione se non perchè un Visconti lo aveva avuto e abusato.
Quei tre, compromessi da giovani come nemici della tirannia, o, per dirla alla moderna, come liberali, sapete che non riuscirono migliori. Galeazzo e Bernabò per maggiore comodità di divisione, ammazzarono Matteo, e si spartirono lo Stato, facendo a chi peggio. Le lepide enormità di Bernabò, che diceva d'essere nei suoi paesi papa e imperatore, sono vive nella tradizione vulgare; e i Milanesi più non potevano durarle, quando un bel giorno intendono che Giovan Galeazzo, figliuolo e successore del bel Galeazzino, un'acquamorta, un santocchio, tirò in trappola lo zio Bernabò, e lo ha cacciato nel castello di Trezzo, a crepare di rabbia, se non fu di veleno.
Il popolo, tutto allegria di vedersi senza fatica liberato dal tiranno, gridò Viva la libertà, o unanimemente acclamò per padrone il nipote traditore. Questo non dirazzò dagli avi, e per esimere i Milanesi dall'incomodo di eleggere ogni volta il figlio o il nipote del morto, chiese dall'imperatore di Germania, e ottenne in proprietà questo bel paese. L'imperatore, contento di buscar soldi, gli concesse questa grossa porzione, senza tanto guardare a diritto, e colla cortesia onde io regalerei quel poderetto che mi hanno assegnato laggiù in Arcadia, quando ne fui acclamato pastore. Il popolo, stracontento di avere un duca, e un duca che fabbricava il Duomo di Milano e la Certosa di Pavia, assistette in affollato tripudio alla inaugurazione di esso e...
Nessuno ignora le vicende che da quel punto corse il ducato, or preda degli ingordi, or rapina dei prepotenti, or trastullo degli scaltriti, or dote di donne come i mobili e le mandre, finchè traverso a lunghi e indecorosi dolori, potè arrivare a quel riposo e a quella felicità che ciascun vede.
Se alcuno mi domandasse a che riuscì quel Lucio capitano di giustizia, che tanto erasi affaccendato a spegnere la razza dei ribelli, non si aspetti una fine cattiva, simile alle altre del mio racconto, le quali sarebbero troppe se non fossero storiche. Era diritto che il compenso venisse generoso a chi generosamente aveva ajutato il principe a liberarsi da' suoi nemici. Il lauto e delizioso podere di Mombello, confiscato come roba di ribelli, fu da Luchino concesso a Lucio, il quale si ritirava colà a riposo ogni qualvolta glielo consentissero le pubbliche occupazioni, e le cariche affidategli dalla gratitudine della patria, cioè del principe, in cui vantaggio continuò ad esercitare la lunga e onorata canizie.
In un oratorio, là tra Bovisio e Mombello, si vede ancora una grande arca di granito, con un epitaffio che loda la vita e piange la morte di uno, del quale sul coperchio si vede l'effigie ad alto rilievo, col berretto dottorale in capo e la toga fino ai piedi, e colle braccia incrociate sul petto, al modo onde muojono i buoni cristiani.
Là dentro aspetta il giudizio di Dio.
FINE.