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CAPO II Protestanti nei baliaggi Svizzeri - Sono cacciati - Premure dei Cattolici - Concilio di Trento - I Borromei - Impresa del Tettone - Calendario gregoriano. |
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CAPO II
Protestanti nei baliaggi Svizzeri - Sono cacciati - Premure dei Cattolici - Concilio di Trento - I Borromei - Impresa del Tettone - Calendario gregoriano.
Questi predicavano adunque ai popoli della Valtellina (sotto tal nome abbraccio anche gli annessi contadi di Bormio e Chiavenna) le nuove dottrine. Sul principio, come suole, aborrite da un popolo cui volevano togliere i suoi santi e le sue reliquie, indi per curiosità ascoltate, poi discusse. E giacché i nuovi teologanti, oltre aver l'avvantaggio di chi attacca, s'erano di proposito addentrati nelle dottrine loro, mentre i più di quei preti erano rozzi delle cose dell'anima ed avvezzi a credere senza tanto esame, molti vennero a seguirli, quali perché vedevano veramente come i protestanti, quali per l'allettamento proprio d'ogni novità, quali perché recatesi a noja le austere discipline, amavano meglio vivere come ne tornava in piacere alla lor carne. Alcuni allora per cieca sommessione, per riverenza servile, per adulazione. Imperocché i signori grigioni, dei quali la parte maggiore si era scossa dall'ubbidienza alla sede romana, non solo diedero alla Valtellina libero esercizio del culto evangelico, ma favorivano chiunque con loro credesse. Era tutt'uno l'abbracciar la riforma ed essere dichiarato uomo delle Tre leghe, aver privilegi, cariche, esenzioni. Né poche famiglie apostatarono: i Lazzaroni, i Besta, i Paravicino Cappelli, i Marlianici, i Malacrida, l'arciprete di Mazzo, i Guarinoni, i Sebregondi, i Piatti ed altri di primo conto, dietro cui, come suole, traeva il popolo imitatore. Se vogliamo aver fede al Magnocavallo21, di 100.000 abitanti ben 4.000 avevano volte le spalle all'ovile romano.
Né in minor frangente stava la fede nei paesi italiani sottoposti agli Svizzeri. Quanto presto vi entrassero le dottrine d'oltremonti ce ne fa chiari una lettera, che fin dal 15 dicembre del 1526 Baldassare Fontana carmelitano di Locarno dirigeva alle chiese evangeliche della Svizzera «fedeli di Gesù Cristo» perché pensassero al Lazzaro del Vangelo che bramava nutrirsi delle briciole cadute dalla mensa del Signore. E quindi volessero, alle lagrime ed alle supplicazioni sue compiacendo, inviare «le opere del divino Zuinglio, dell'illustre Lutero, dell'ingegnoso Melantone e dell'accurato Ecolampadio» o far ogni loro potere perché «la nostra Lombardia, schiava di Babilonia, acquistasse quella libertà che il Vangelo impartisce». Questo frate era ancora a Locarno nel 1531, donde un'altra lettera scriveva di somigliante tenore. Molti riformati vi erano, o fuggiti dall'Italia, o venuti a posta d'oltremonte come maestri, o giovani che, pel commercio o per l'educazione mandati in Germania, tornavano insegnati delle nuove cose. A Bellinzona abitò sovente Ortensio Landi milanese che disertato dagli Agostiniani, stranamente morse preti e frati in un libro, de Persecutione Barbarorum, indi fece tragitto ad ogni sorta di dottrine riprovate che lo fecero porre dal Concilio di Trento fra i condannati in primo grado. Bizzarro ingegno, gran conoscitore degli autori antichi eppure emancipato dalla cieca venerazione per essi. E come dice Giannangelo Odoni, volea Cicerone e Cristo, ma quello nei libri non aveva. Se questo avesse nel cuore, Iddio lo sa.
Non par vero che in quelle podesterie dimorassero Lelio e Fausto Socino a predicarvi le loro credenze avverse alla Trinità. Ma il governo uccise od esiliò molti loro settarii. Un Beccaria che si era eretto a Locarno principal autore degli Evangelici fu dal balio cacciato in prigione, ma una banda dei suoi ne lo trasse, e lo menò in trionfo. Egli giudicò meglio ricoverarsi a Chiavenna, e rimase a capo di quei novatori Taddeo de Dunis medico; e già troppi non andavano più alla chiesa, non ricevevano i sacramenti, e per il battesimo facevano venire un ministro da Chiavenna. Ma poiché i Cantoni signori di quelle podesterie s'attenevano i più alla fede cattolica, ai nemici dei Riformati e ad Emilio Orelli acerbissimo persecutore di quelli non riuscì difficile il persuaderli a nettarne quelle terre.
Già per consenso dei sette Cantoni cattolici22 il balio di Locarno aveva ingiunto ai Riformati che, pena il bando, andassero alla messa. Ne fecero richiamo i Cantoni evangelici, ma indarno, atteso che vedevano come tali novità fossero per rompere l'unità elvetica. Infine nel 1555 il balio congregò tutti i capi delle famiglie riformate, ch'erano ben 150, ed intimò loro da parte dei signori svizzeri che colle famiglie e coi beni dovessero, senza por tempo in mezzo, abbandonare la patria. Ascoltavano essi nel silenzio il comando, allorché entra fra l'adunanza il Riverda, nunzio pontifizio, esclamando troppo mite la sentenza, doversi toglier loro e i beni come roba di eretici, e i figli che si crescerebbero così alla vera credenza. Ma con ciò il nunzio non ottenne che di mostrare il suo maltalento, giacché il balio non poteva trascendere il suo mandato.
Quelli che si disposero ad obbedire fecero la sommessione. Gli altri il 3 di marzo, seguiti dalle mogli e dai figliuoli, fatto fardello delle robe loro, da una parte colla rassegnazione d'uomini attaccati più alla credenza che alle cose del mondo, ma dall'altra col crepacuore di chi lascia i parenti, gli amici, le abitudini della vita, una patria sempre cara, più cara a chi ne è spinto lontano da una forza prepotente, fra gli stridori della stagione valicarono le nevi del Gottardo in traccia di paesi ove non fosse colpa l'adorare a modo loro. Guidati da un Pestalozzi, da Giovan Luigi Orelli e dal dottore Martino Muralto, entrarono nei Cantoni protestanti e fermatisi i più a Zurigo, vennero con carità accolti e soccorsi. Non cercavano essi che sicurezza e pace: poteva mancare di che vivere a gente volonterosa della fatica, sperta nelle arti? Alle quali drizzatisi, fecero alzare a gran fiore l'arte della seta, stabilirono filature e tintorie, per cui Zurigo venne in grandezza, a scapito delle podesterie italiane. Ancora serba l'antico nome il sobborgo dei Lombardi, ove quelli si posero: le famiglie vi acquistarono ricchezza e nome23.
Ivi ottennero di formare una chiesa, diretta in prima dal Beccaria, il qual poi tornò fra i Grigioni a Mesocco, diffondendovi le sue dottrine, finché sturbatone da Carlo Borromeo nel 1561, si ritirò a Chiavenna. A Zurigo gli successe nel 1555 Bernardino Ochino, famoso cappuccino da Siena che aveva errato per Germania e per Inghilterra, applaudito e perseguitato. Ivi stesso ebbe cattedra di teologia e d'ebraico Pietro Martire Vermiglio, che già aveva combattuto per la Riforma in Inghilterra e in Francia, in modo che le opere sue eran messe a livello con quelle di Calvino. A quella chiesa italiana appartenne Lelio Socino, che ottenne la stima di Melantone, Bullinger, Calvino, Beza, dissimulando sotto proteste e confessioni la sua avversione alla Trinità; e pare che egli la insinuasse all'Ochino, le cui ultime opere sentono di questo errore, per il quale ebbe guai a Zurigo e ne fu bandito, di 76 anni, con i figli, nel fitto inverno. Respinto da Basilea e da Mülhausen, si nascose in Moravia ove della peste perduti due figliuoli e una figlia, morì nel 1564.
Anche a Basilea molti italiani s'erano ricoverati. Paolo Alessandrino de Colli, padre d'Ippolito, celebre giureconsulto, Guglielmo Grattarola di Bergamo, Alfonso Corrado mantovano, che aveva predicato fra i Grigioni, Silvestro Teglio che tradusse in latino il Principe e Francesco Betti cavalier romano, Mino Celsi, Celio Curione, dalle cui molte opere raccogliamo varie particolarità intorno ai riformati italiani.
Altri ebber ricovero a Strasburgo, fra cui Paolo Lazise di Verona, profondo nelle tre lingue dotte e che vi fu professor di greco, Girolamo Massari di Vicenza che vi insegnò medicina e descrisse un processo dell'Inquisizione romana, e sebben non avessero Chiesa, si univano in assemblea particolare, diretta da Girolamo Zanchi che colà professò teologia. Lo Zanchi stesso era stato chiesto ministro a Lione dove molti Italiani stavano, e dove stamparono libri loro; ma egli preferì passare a Chiavenna. Rifiutò pure gl'inviti della chiesa italiana d'Anversa nel 1580, alla quale andò il conte Ulisse Martinengo, dopo rimasto alcun tempo in Valtellina. Altre chiese avevano i nostri a Ginevra e Londra.
Alla causa dei cattolici, più che il venir dei nemici, noceva l'addormentarsi delle sentinelle d'Israele. Anziché levarsi al sacerdozio i più probi e sapienti, ogni genìa vi trovava asilo, ogni ignorante, molti malvissuti vi si ricoveravano per avere agio, sicurezza ed ozio. L'essere il clero immune dal Foro secolare lo rendeva baldanzoso col venderli simulatamente agli ecclesiastici, o col legarli a nome di benefizio, si sottraevano i fondi alle gravezze. Se in una famiglia vi fosse un prete, a qualunque richiamo compariva lui. Se in un delitto fosse implicato un prete, si invocavano i privilegi del Foro. I preti intanto andavano attorno carichi d'armi, volevano cacciare nei tempi proibiti (era dalle calende di marzo a quelle di luglio). Con astuzie si causavano dalle taglie24. Peggiori cose ebbi ad imparare dagli atti delle visite degli ordinarii di Como e di Milano. Oltre che i più fra i sacerdoti appajono ignoranti a segno, da saper a mala pena segnare il proprio nome, intendevano a turpi guadagni, tenevano senza pudore in casa le complici ed i frutti dei loro peccati25. E taccio le violenze, le ire, le troppe più cose ch'io so, e che facevano correre in proverbio non esservi modo più facile di dannarsi che l'andar prete26. Non erano così rari quelli che, per i bisogni delle plebi, avevano facoltà di celebrare due messe la festa: ma molti se la usurpavano per guadagno. Ebbi a mano una relazione dell'arciprete di Tresivio al vescovo, dove si lagna che i preti di Valtellina portano barbe a foggia di Turchi, «usano collari alle camicie rotondi e crespi alla bresciana, le sottane con collari pure rotondi cascanti sul collo, maniche scavezze e folte di bottoni, e veste quale portano gli sbardellati Bresciani». Ben i vescovi comaschi gridavano, senza cessare, perché si osservassero le feste, i sacerdoti smettessero gli abiti sfarzosi, le armi offensive, non bazzicassero l'osteria, non ricettassero malviventi, non donne di mal affare. Il vescovo Volpi interdice di vendere alla festa confortini né odori, il fare spettacoli di saltimbanchi, ed il sedere in chiesa: i preti non portino calze sparate e larghe, non camicie colle crespe e le lattughe, non il cappello in città o nei borghi, se pur non fosse per ripararsi dall'intemperie. Si astengano dai guanti, non barbe troppo lunghe, non armi, eccetto un coltello in viaggio. Il vescovo Archinti si lagna che troppe parrocchie rimangano sprovvedute di parrochi perché date in commenda a cardinali, i quali in Roma ne godevano, senza cura, le entrate. E che i preti della Valtellina rechino scandalo agli eretici, singolarmente per l'ignoranza, l'andare armati, la lussuria e l'imperizia dell'ecclesiastica disciplina in quella esecranda libertà di vivere, e di dire quanto meglio piace a ciascuno. Era poi piuttosto unico che raro quel parroco che talvolta spiegasse il Vangelo o la dottrina ai suoi: e la predicazione era abbandonata ai frati, singolarmente ai mendicanti, indipendenti dal vescovo, e spesso più desiderosi dell'applauso che del frutto, o del frutto della bisaccia che di quel delle anime. Recando adunque non rimedio ma danno quelli che dovevano opporsi, non sarà meraviglia se la Riforma più sempre acquistava.
I Cattolici però s'ingegnavano assai per tutela dell'antica credenza. Ai vescovi di Como non molto restava a fare, giacché i Grigioni, sospettosi sempre di qualche trama, ne avevano angustiata l'autorità, vietando il ricorrere ai superiori ecclesiastici, escludendo ogni sacerdote estero, nel qual titolo comprendevano anche gli Ordinarii. Se non che fatto vescovo Feliciano Ninguarda nativo di Morbegno, mancò ogni ragione di tenergli la porta della valle, onde la visitò ad agio suo. Nei sinodi poi e nelle lettere circolari non cessavano essi vescovi di esortare i Valtellinesi a durare fermi nella fede, aprir bene gli occhi su chi viene d'oltremonte, massimamente soldati a quartiere od a guarnigione. Ne esplorino i fatti e se alcun che ne scoprano, diano indizio all'Ordinario se non vogliono cadere in un peccato riservato. Anche ogni maestro era obbligato a prestare giuramento di fede in mano del vescovo.
E poiché ogni potere minacciato diviene violento, neppur le vie del rigore furono intentate e la Chiesa sgomentata chiamò in ajuto il braccio secolare, agli orrori della superstizione e dell'impostura opponendo gli orrori dei roghi. Basti, per non esser lunghi, citare Francesco Gamba di Como, che essendosi condotto a Ginevra a celebrar la cena cogli Evangelici, mentre tornava in patria fu còlto e (ciò fu il 21 luglio 1554) strangolato, poi gettato al fuoco. Neppure in morte aveva voluto ricredersi, ed affinché favellando non recasse scandalo al popolo accorso al suo supplizio gli venne forata la lingua. Anche Galeazzo Trezzi, gentiluomo lodigiano convertito dal Mainardi e dal Curione, fu nel 1551 condannato dall'Inquisizione al fuoco. Il duca d'Alba, la cui memoria risveglia quella dei supplizii e delle stragi dei Paesi Bassi, venuto governatore del Milanese raddoppiò i rigori e nel 1558 furono bruciati un religioso e un altro, e così negli anni seguenti.
Le declamazioni dei dissidenti e l'antipatia rimastale come a nemica del progresso indicano che a capo della opposizione stava Casa d'Austria, adoperando ingegno, forza, brighe, danaro; quel danaro austriaco che si trova denunziato in antiche e moderne diatribe. Si era ella vivissimamente industriata per introdurre la spaventosa inquisizione spagnuola invece della mansueta romana nel Milanese, che «ridotto in miseria per l'eccessive gravezze, si sarebbe disciolto affatto con quella che superava tutte». Ma due volte che si tentò sotto Filippo II ed il III stabilirla in Milano, si levò a ribellione il popolo per la formidabile severità di cotal tribunale onde fu consiglio di prudenza lasciarla nel primiero stato.
Un gran tempo però e Cattolici e Riformati appellavano all'autorità d'un concilio generale, che discutesse ampiamente e liberamente sui dogmi della fede. Solo era in contesa il luogo, volendolo i Protestanti in una città libera, per condursi alla quale non avessero d'uopo di salvocondotti, ai quali aveva tolto fede il concilio di Costanza col porre alle fiamme Giovanni Hus27.
Ma Paolo III l'aveva decretato in Trento e avendo i dissidenti ricusato intervenirvi e impugnatane l'autorità, dopo infinite lungagne, fu aperto, poi chiuso, poi trasferito con replicata vicenda, sinché a Pio IV riuscì di mandarlo a fine. Non è qui luogo di dire quanto quel venerabile consesso abbia giovato alla religione riguardo al dogma, e col separare del tutto quelle opinioni a conciliare le quali si presumeva convocato. Certo è che quanto alla disciplina aperse un'epoca nuova. Rese al clero cattolico il vigore perduto; richiamò i costumi, sagrificati da prima ai piaceri e agli interessi; procurò nell'opinione dei popoli rialzare gli ecclesiastici al grado dond'erano scaduti e fece che la corte romana, animata da zelo e dal vero sentimento della religione, non porgesse più che santi esempi.
Secondo la mente di quel Concilio, monsignor Bonomi vescovo di Vercelli fu delegato a visitare la diocesi comasca. Entrò in Valtellina, mandando voce di recarsi a titolo di salute ai bagni di Bormio. Ma poiché si diede ad esercitarvi l'uffizio suo, i Grigioni mandarono intimandogli che, se veramente intendeva venire a cercare sanità, fosse il ben arrivato. Non patirebbero però mai sottofini, e dove non giovasse l'avviso sarebbero presti ad imprigionarlo, trattandolo non altrimenti che il suo papa trattava i loro ministri. Queste minacce, cui facevano viso di voler dare corpo, atterrirono il Bonomi, che con poco frutto se n'andò. Ma negli ordini da lui dettati alla diocesi di Como impose che i parroci (oltre il giovedì santo colla bolla in Coena Domini) leggessero due volte l'anno, nei giorni di maggior frequenza, un editto che obbligava a denunziare all'Inquisizione entro quindici giorni ogni eretico, o chi mostrasse fuorviare dalla credenza comune, o tenesse libri proscritti. Ogni settimana il vescovo si affiatasse coll'inquisitore e con certi teologi e canonisti per giudicare degli eretici e dei sospetti.
Pio V papa tentò gran maneggi fra i Grigioni per favorire i Cattolici e impedire le apostasie crescenti in Valtellina, ma senz'altro ritrarne che la morte di Giovanni Planta signore di Retzuns, uomo pien d'ogni lode e caloroso protettore della causa romana. Contro questo papa un odio particolare avevano concepito i Grigioni fin da quando, essendo col nome di frà Michele Ghislieri inquisitore della diocesi di Como, si era con forza adoperato contro i novatori. Una volta, avuto spia che a Poschiavo si erano impressi libri pieni delle nuove massime destinati all'Italia e che alcune balle n'erano state spedite ad un negoziante di Como, frà Michele le sequestrò. Il mercante ebbe ricorso al capitolo del duomo, che in sede vacante presedeva al Foro ecclesiastico, ma invano s'interposero i canonici per la restituzione, benché spalleggiati dal governatore Gonzaga. Del che piccati, sparsero per la città contro l'inquisitore male voci, cresciute a tanto che, preso dalla plebaglia a villanie ed a peggio, ebbe pel il migliore partito il ritirarsi. E si recò a Roma, ove la congregazione dei cardinali decise in suo favore e citò innanzi a sé il vicario e quattro canonici come eretici, che ebbero a far e dire a scamparsela28. Egli medesimo essendo a Morbegno, aveva istituito processo contro Tomaso Planta vescovo di Coira per sospette opinioni, senza né citarlo, né nominare i testimoni: procedura solita all'inquisizione, ma contraria agli ordinamenti dei Grigioni. I quali, dando facile ascolto ai richiami del vescovo, fecero dal podestà di Morbegno vietare a frà Michele di procedere più oltre contro chi che fosse in Valtellina, se non previa licenza dei signori Reti. Dovette egli, allora tanto, piegare il capo; ma spinto poi dal suo zelo rinnovò i processi, onde a poco si tenne che il popolo non gli mettesse le mani alla vita. Divenuto poi pontefice, e saputo che Francesco Cellario già frate poi ministro protestante in Morbegno, non là solo, ma fino a Mantova29 diffondeva le sue dottrine, lo fece cogliere di sorpresa, e tradurre al sant'uffizio di Roma, che lo cacciò dal mondo. Non era egli dunque il soggetto meglio opportuno ad acquetare i Grigioni, che studiavano anzi rendergli secondo avevano ricevuto.
Chi meglio d'ogni altro operò fu Carlo Borromeo, cardinale arcivescovo di Milano. Capace di riuscire a qualunque, arduo per la forza della volontà, una grande ricchezza, i vantaggi d'una condizione privilegiata, la gioventù, le aderenze, l'autorità della virtù e l'intima persuasione della causa che sosteneva, stabilì, finché l'anima gli bastasse, opporsi al lacrimabile incendio quand'era più vivo. Spinto per sua principal cura a fine il sinodo di Trento, tutto fu in rinnovellare la propria Chiesa: viaggiò, e veduto che l'ignoranza del clero era cagion prima dei progressi della Riforma, e che i più erano privi d'ogni sorta di lettere nelle terre soggette a signoria svizzera, stabilì in Milano il collegio elvetico, ove dovessero allevarsi per Dio operai apostolici e difensori della fede30. Mandò missionari, e singolarmente oblati da lui istituiti, e Gesuiti, nati poc'anzi per opera d'Ignazio da Lojola; e tanto fece che i sette Cantoni cattolici giurarono la così detta Lega d'oro o Borromea e concessero che un nunzio papale rimanesse di piè fermo nella Svizzera. Non è mestieri vi dica a quanto dispetto dei Cantoni riformati, che si vedevano piantato nel cuore un nemico attento ed operoso. Ma del Borromeo il principal desiderio, dice il Bescapé, «era volto alla Valtellina, sì per la vicinanza che essa ha con noi sì per gli ingegni svegliati di quei popoli, non pure all'erudizione adatti, ma alla probità altresì proclivi, che soleva esso Carlo non mediocremente lodare». Procurò dunque stabilirvi i Gesuiti che, sostenuti da Antonio Quadrio medico di Ferdinando d'Austria, si posero a Ponte, guidati dal padre Bobadilla, tanto celebre nella storia della celebre compagnia. I Grigioni li sbandirono come forestieri, ond'essi vennero a collocarsi a Como.
Trovandosi poi il cardinale, nel 1580, in Valcamonica per secondare le istanze del vescovo Volpi, passò pei Zapelli d'Aprica31 in Valtellina, sotto apparenza di un pellegrinaggio alla Madonna di Tirano, tempio sontuoso per edifizio e celebre per devozione, ove, malgrado del divieto, il giorno di sant'Agostino fu ricevuto con solennità di rito, non meno che d'affetto, anche dai Protestanti. Sigismondo Foliani, bormiese, gli recitò un'orazione in cui (come solevano tutti allora e molti adesso) non dice che parole32. Egli poi, il cardinale, edificò la concorsa folla coll'esempio, collo speciale studio di carità e di prudenza, e con un discorso animato da quella fede che vince ogni errore e dall'eloquenza di chi parla dalla pienezza del cuore. Aveva egli saputo ottenere che i Cantoni cattolici mandassero una delegazione a proteggere gli affari degli ortodossi valtellinesi alla Dieta dei Grigioni, ma non ne avanzò gran fatto. Volle anche visitare le terre poste attorno al Lario ed al Ceresio, come bisognevoli assai di ajuto; e a Como, avuto colloquio col vescovo sul bene della Chiesa, passò per Menaggio a Porlezza e nella Cavargna, valle selvatica che s'interna da quella di Menaggio ed i cui abitatori rompevano ad ogni delitto, sì di violenza, sì d'astuzia33.
Così conciliando paci e rammendando i costumi, passò nelle tre valli di rito ambrosiano, poi a Gnoasca, a Giornico34, a Lugano e di nuovo, pel Ceresio, a Menaggio ed alla Valsassina.
Fattosi poi, nel 1582, a Roma, n'ebbe il titolo di visitatore pei paesi svizzeri e grigioni anche sottoposti all'Ordinario di Como. Non fu autorità a cui non avesse ricorso per ajuto in questa legazione: ai re di Spagna e d'Inghilterra, a Rodolfo imperatore, ai Cantoni cattolici al vescovo di Coira, al duca di Savoia, anche ai Veneziani. Scrivendo egli al Castelli vescovo di Rimini, legato pontifizio in Francia, perché intercedesse presso Enrico re sicurezza e libertà a lui ed ai preti. «Fa però, gli diceva, che i Grigioni non sentano che io vada a loro legato del papa: questo solo nome ogni cosa perderebbe. Si dica un privato mio viaggio, col qual titolo, senza scemare il frutto, consolerò quei popoli. Ben i cattolici mi desiderano, e gli eretici stessi mi mostrano qualche deferenza ed amore: onde nutro speranza non mi si pongano impedimenti: solo ho paura che i profughi dall'Italia non mi guastino tutto. Sono essi sentina di vizii, né solo eretici, ma molti apostati, e del resto facinorosi e perduti che appena udranno trattarsi di sostenere la religione cattolica e vedranno maturare le prime felici sementi, temendo d'essere sterminati, daranno in furore, metteranno fuoco nei capi per ritardarmi o togliermi ogni buon effetto... Quindi principalmente sarebbe a curare che dall'intollerabile giogo degli eretici venissero sollevati i cattolici di qua dalle Alpi. Poiché, quando sortiscono le magistrature gli eretici, se anche non facciano aperta violenza ai cattolici, pure si mostrano intenti a svellere la religione. Poiché e danno pessimi esempi come scellerati ministri del diavolo, e non lasciano la libertà di cercare o ritenere probi e religiosi sacerdoti, che avviino sul calle della salute. Sendo vietato agli esteri, tuttoché ottimi, di andar colà, mentre hanno podestà di rimanervi empii e perduti uomini. Laonde, poiché il re può tanto presso i Reti, gioverebbe che, senza far mostra d'essere da me officiato, vi s'adoprasse. E tu potresti mettere in mente ad Enrico uno scrupolo che pungesse e lui ed i Grigioni: mostrare cioè il male che ne potrebbe uscire, se tanti, oppressi dalle calamità e stancati, come può avvenire, dal giogo, macchinassero alcuna cosa e si ribellassero».
Con Francesco Panigarola francescano35 e col gesuita Achille Gagliardo, riassunta la visita, fu di nuovo a Lugano, poi a Tesserete, consolato dalla pietà di quei popoli, ove, di cinquecento confessati, neppur uno si trovò in colpa mortale36: per Bellinzona si condusse a Rovereto, nella Mesolcina, valle italiana sommessa ai Grigioni, ove scoprì moltissime streghe. Istituitone processo, di queste ben 130 abiurarono: quelle che non vollero confessarsi in colpa, furono condannate, e prima quattro, poi altrettante, poi tre, indi più altre, vennero arse, e fin il prevosto di quel paese, Domenico Quattrino, che da undici testimonii era stato visto nella tregenda coi demonii menar danze oscene in paramenti da messa, e recando il santo crisma. Un tal padre Carlo, sotto gli 8 dicembre 1583, descriveva al suo superiore il supplizio di alcune fra queste. «In un vasto campo, costrutto un rogo, ciascuna delle malefiche fu, sopra una tavola, dal carnefice distesa e legata, poi messa boccone sulla catasta, ai lati della quale fu appiccato fuoco: e tanto ferveva l'incendio, che in poco d'ora apparvero le membra consunte, le ossa incenerite. Dopo che il manigoldo le ebbe avvinte alla tavola, ciascuna riconfessò i suoi peccati, ed io le assolsi. Lo Stoppano poi (quel desso che menzionammo pochi versi sopra) e due altri sacerdoti le confortavano in morte, e le affidavano del divino perdono... Io non basto a spiegare con qual intimo cordoglio, e quanto di pronto animo abbiano incontrato il castigo. Avanti condotte al supplizio, confessate e comunicate, protestavano ricevere tutto dalla mano di Quel lassù, in pena dei loro traviamenti; e con sicuri indizii di contrizione offrivano il corpo e l'anima al Signore del tutto. Brulicava la pianura di una turba infinita, stivata, intenerita a lacrime, gridante a gran voce: Gesù; e le stesse miserabili poste sul rogo, fra il crepitar delle fiamme, udivansi replicare quel santissimo nome e, pegno di salute, avevano al collo il santo rosario... Questo io volli che la tua riverenza sapesse, perché potesse ringraziare Iddio, e lodarlo per li preziosi manipoli da questa messe raccolti».
Fin qui egli: sarebbero gettate le parole ch'io aggiungessi, per mostrar come i deliri del secolo prendessero anche anime illuminate e pie.
In quella valle, san Carlo trovò abbondare scolari del Vergerio e di Pietro Martire Vermiglio ed esservi (scriveva al cardinale Sabello) il nome di cattolici, non i costumi, né la credenza. V'avevano tenuto casa i novatori Frontano e Canossa. Poc'anzi v'era morto Lodovico Besozio, scolaro del Frontano37 migliore del maestro: era frequentissimo il contatto colla val di Reno, tutta già calvinista. Singolarmente vi si segnalavano, per odio ai Cattolici, Francesco Luino, che da trent'anni era colà, un figlio del Frontano e due o tre altri le cui mogli sono veri mostri d'inferno. Stava a capo delle cose sacre un frate, disertore dell'ordine e della religione che seco traeva una femminaccia e quattro suoi figliuoli: poco di meglio erano gli altri preti. Borromeo coll'amorevolezza, coll'inquisizione, col pregare, coll'insegnare, col largheggiare, si conciliò gli animi: e Dio ne prosperava le fatiche in pro delle anime, con fatti d'ammirabile riuscimento. Si mise poi per la val Calanca, ove conobbe cinquanta famiglie cadute in eresia e ventidue maliarde. Era sua mente drizzarsi a Coira indi, nel ritorno, visitare Chiavenna e la Valtellina. Ma, saputo che la sua comparsa non sarebbe sentita bene, dovette voltare a Bellinzona, dove trovò folta ignoranza delle cose di Dio, ed un vivere non punto meglio del credere: matrimoni incestuosi, usure smodate, conculcati i diritti del clero, sacerdoti simoniaci e viventi in pubblica disonestà. Ho letto varie delle omelìe ivi da lui recitate, onde può trarsi argomento e dello stato di quel paese, e dello zelo che il santo vi adoprò, dimorandovi sino al 15 dicembre, ove eresse anche una prebenda per mantenere un maestro, lasciò un catechismo compilato apposta dal gesuita Adorno, ridusse a compimento il collegio d'Ascona. Aveva pure intenzione di aprire un seminario a Locarno, che a grande bisogno sarebbe tornato per regolare quel paese nel credere e riformarlo nel vivere.
Mandò anche Bernardino Mora al Beytag dei Grigioni per impetrare licenza di visitar la Valtellina ed il Chiavennasco, ma gli facevano impaccio i predicanti, che andavano spargendo sospetti sul suo conto. Lui, infine, esser nipote di quel Giangiacomo Medeghino il cui nome, dopo le acerbe guerre loro recate sul lago e in Valtellina, era tra i Reti rimasto terribile come la campana a martello. Vedessero quanto aveva operato in Val Mesolcina, dove non prima pose piede, che collocatosi in luogo forte stabilì un inquisitore e fece ogni suo talento: assai tornerebbe sospetta ai loro alleati Francesi la venuta del cardinale tutto ligio alla Spagna. E questi sussurri trovarono fede, onde, non che escluderlo, i predicanti commossero quei della val Pregalia a dare addosso ai missionari da lui mandati e metterli a processo38. Fin tra le cure che gli ponevano assedio negli ultimi suoi giorni, il Borromeo s'occupava d'ottenere, se non pace, almeno tregua ai Cattolici: e teneva corrispondenza con re Filippo d'affari sì intimi che non si affidavano alle carte, ma si comunicavano a voce col Terranova, allora governatore del Milanese.
Quando il fuoco è dentro, bisogna venga fuori il fumo: e il Borromeo veniva rapportato ai Grigioni di aver intesa cogli Spagnuoli per tornare ad essi la Valtellina. E per verità i duchi di Milano non ebbero mai deposta tale speranza, né per rata l'occupazione di quella importante valle e la cessione fattane per viva forza. Si sanno le opere, ed aperte e di sottomano, ai tempi di Giangiacomo Medeghino. Carlo V poi, aggiunta la ducea milanese agli immensi domini suoi, più ne prese gola, ben avvisando quanto rileverebbe l'avere libera comunicazione per quella parte fra gli Stati suoi di Germania e quelli d'Italia. Ne aveva anzi passato ordini a don Ferrante Gonzaga governatore, che ruminò quell'idea anche sotto Filippo II, menando per ciò segreto intrigo col vescovo Vergerio, sebbene gli tornasse indarno il suo intendimento.
Nei giorni poi del Borromeo, un tal Rinaldo Tettone, mercante milanese al quale era avvenuto sì male della mercanzia che diede fondo ad ogni suo avere, si era messo a capo di Farabutti, bravacci pari suoi, che rubando e furfantando vivevano. Da piccoli tentativi incoraggiato a maggiori, fermò d'entrare in Valtellina, e porla a preda. Infatuato del qual desiderio, acciarpò truffatori e bagaglioni e quanti fossero da tal servigio: e chi vorrà credere che di tutto ciò non scoppiasse veruno indizio ai magistrati di Lombardia? Chi conosca l'ambidestra politica spagnuola, più presto inclinerà a pensare che il governatore Terranova, senza dargli apertamente favore, l'aiutasse però sott'acqua, od almeno stesse a vedere a che il Tettone riuscisse: andava a male? Niuno potrebbe imputargliene colpa: accadeva a disegno? Getterebbe la maschera. Ed avendo, come si suol dire, tratto di buca il granchio colla mano altrui, coglierebbe il destro di ricuperare la valle al suo padrone.
Fatto è che il Tettone, raccozzata una canaglia valente in parole e ch'egli chiamava esercito, parte ne inviò per la banda di Lecco. Cogli altri volse a Como, ove chiese d'entrare nella città, alloggio e foraggi, vantandosi capitano generale per risciacquare la Valtellina dai miscredenti. Ma non sottigliò la sua malizia tanto che arrivasse a trovar fede a quell'apparenza. Ed il Paravicino, governatore di Como, non gradendo tali rodomontate stette saldo sul niego: anzi, accingendosi il Tettone a mettere le finte parole in veri fatti, il governatore armò i cittadini e con furia li liberò addosso a coloro, che dopo sprovveduta e breve scaramuccia, quali andarono sbandati, quali furono presi e mandati all'ultimo supplizio.
Ita al vento l'impresa, il governatore, come chi getta il sasso e nasconde il braccio, se ne fece nuovo affatto, ed il Tettone, che forse diventava un marchese e meglio, fu cacciato in bando. Dove facendo del savio e dell'importante, andava spacciando avere in tal impresa a sostegno il cardinale Borromeo, amico, diceva egli, e parente suo; favorirlo nella valle grandi personaggi, e li nominava un per uno. Questi vanti erano portati colle usate frangie ai Grigioni, i quali, fattone un capo grosso che mai il maggiore, molta gente inquisirono, senza però scoprire alcuno in colpa: e il cardinale tennero in memoria d'uomo fazioso e brigante.
Era questi morto l'anno avanti; e noi siamo alieni dal supporre al sant'uomo facinorosi consigli. Scrivendogli lo Speciano temere che i Valtellinesi non rompessero in aperta ribellione, e si gettassero in braccio a re Filippo, il Borromeo gli rispose che stava mallevadore della regia volontà. E quand'anche i Reti cisalpini si ponessero a dominio del re cattolico, si incaricava di ritornarli ai Grigioni. Questo però già ne lascia intendere ch'egli avesse qualche sentore delle macchinazioni. Ed abbia suo luogo la verità, tutti i contemporanei e il Ripamonti ed il Ballarino fanno testimonianza che la Spagna ed il Borromeo assecondassero l'impresa39. Tutti poi i fautori del cattolicismo avevano gran protezione nella casa d'Austria: quando i Grigioni uccisero il Planta, Corrado, figlio di questo, si ricoverò al Borromeo, che sel tenne ben due anni con altri di sua parte, al giusto fine di formare un buon cattolico; ma la cosa non poteva non dare ombra ai Reti. Altre lettere poi di san Carlo, che si leggono manoscritte nell'Ambrosiana, tolgono ogni dubbio che a Milano non si conoscessero tali movimenti. Fin dal 1583 i Valtellinesi avevano richiesto il Terranova di 400 uomini, che, uniti ai terrazzani, basterebbero, sono le proprie parole di Borromeo, per levarsi in un tratto da quella obbedienza, e serrare i passi ai Grigioni, che volessero passare di qua dai monti. Il re aveva risposto si desse loro quell'aiuto, ma i ministri erano soprasseduti fin allora per vedere l'esito del negozio della lega; svanito il quale, tenterebbero questo: ed ho speranza in Dio, continua il santo, che in pochi anni si farà tanto frutto in quella valle e nei paesi tutti di qua dai monti, che si smorberà quella eretica peste.40 E nei trattati che il santo menò a favore dei Cattolici coll'ambasciatore di Francia presso gli Svizzeri, e coi Cantoni cattolici, si mostra persuaso che pericolasse qualche non lieve disastro: sicché voleva tenersi nei contorni della Svizzera per accorrere pronto ad ogni moto di guerra. Dichiara però di ingerirsi il meno che può «né tenere per ajutare que' popoli altra via che la spirituale».
Non meno attento a salvar la Lombardia dalla contagione fu il cardinale Federigo Borromeo: il quale perfino, allorquando dovevano alcuni soldati svizzeri e grigioni attraversare la valle San Martino ed altre terre bergamasche di diocesi milanese e di giurisdizione veneta, pronunziò scomunicato chiunque conversasse, o, ch'è tampoco, albergasse quegli eretici; esagerata provisione, alla quale la serenissima repubblica veneta impedì fosse dato corso. Senza più altro aggiungere, basti il già detto a scusare i Grigioni se dal paese davano divieto ai preti e frati forestieri, specialmente ai Cappuccini, come orditori di cose nuove. Quanto alle indulgenze ed ai giubilei, si bandissero pure, ma o tacessero quelle parole pro extirpatione haereseon, o i preti dichiarassero che sotto il nome di eretici non s'intendevano i Riformati: altrimenti era iniquo che i sudditi pregassero contro i loro padroni.
Tanto erano da ciò esacerbati gli animi, che qualunque cosa venisse dai Riformati era sospetta ai Cattolici: qualunque cosa procedesse dal vescovo o da Roma, si rifiutava dagli Evangelici, per buona che fosse, d'ogni vin dolce facendo un aceto arrabbiato. E mi faccia testimonio la riforma del calendario. Il concilio Niceno nel 325 aveva adottato, pel calcolo della Pasqua, il calendario di Giulio Cesare, che suppone l'anno di giorni 365 ed ore 6 appunto, e che 19 anni solari equivalgano a 235 lunazioni; ondechè aveva ordinato che l'equinozio di primavera cadesse al 21 di marzo. Ma non essendo precisa quella determinazione, l'equinozio si era portato agli 11 di marzo, e le lune nuove anticipavano di quattro giorni. Di ciò menavano rumore uomini di gran vaglia, Ticone, Scaligero, Chambers, Calvisio, altri, sicché in fine Gregorio XIII, principalmente coll'opera di Luigi Lelio calabrese, riformò il calendario: furono sottratti e messi in nulla i dieci giorni che dovevano correre dai 4 perfino ai 15 ottobre del 1582, ordinato che solo ogni quattrocento anni si facesse bisestile l'ultimo anno del secolo, e la bolla del marzo 1583 ingiunse che i conti dei giorni andassero a tal maniera41.
Or credereste? Ai tanti altri motivi di dissidio, un nuovo ne aggiunse questo calendario gregoriano, ed i Riformati nati a rifiutarlo, anche trovandolo buono, solo perché veniva da Roma, ed i Cattolici a volerlo, senza forse conoscerlo, sol perché quelli lo ricusavano, tanto è cieca ed assurda la nimicizia che agita le parti. Mi par di vedere alcuno sogghignare alla leggiera cagione di tante discordie, alle dimostrazioni impotenti e assurde; ma deh non voglia ridere d'altri il secolo nostro, che non ha ancor rasciutto il sangue versato per altri sogni, per altre follie. Ogni età ha le sue.